di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca

Watergate: Lo scandalo che coprì lo scandalo.

Pietro Ratto, 26 gennaio 2024

Howard Hughes era un uomo eccentrico. Geniale regista e produttore cinematografico, oltre che ricchissimo uomo d’affari. Un personaggio assolutamente anti convenzionale. Che conciliava (nemmeno tanto bene), la passione per le donne con la misofobia: la paura di entrare a contatto con i germi. Ma che celava qualche segreto, legato proprio alla sua ricchezza.

Sì, perché di soldi Hughes ne faceva un sacco. Coi suoi film da incassi stellari (come Gli angeli dell’inferno e Il mio corpo ti scalderà), con la sua azienda aeronautica Hughes Aircraft, la sua compagnia cinematografica RKO Pictures o la società aerea Trans World Airlines acquisita nel 1939. E se col denaro poteva permettersi belle donne e un tenore di vita lussuoso, con quello stesso denaro poteva anche controllar la politica. Le sue aziende facevano di lui uno dei maggiori appaltatori del Ministero della Difesa americana, per esempio. Una posizione a cui Hughes non intendeva minimamente rinunciare.

Howard Huges

Il Presidente Nixon, però, non faceva altro che pensare a lui. Stessa fobia per i microbi, stessa dedizione alle droghe, stessa smania di potere. Nixon pensava a Hughes. Spesso. Non da sempre. Soprattutto dal gennaio 1957, diciamo. Da quando, cioè, l’eccentrico regista aveva prestato al fratello minore, Donald Nixon, 250 mila dollari per salvare il suo Drive-in a Whittier, in California. Il ristorante “Nixon’s” era comunque fallito nel giro di un anno. Ma quel passaggio di denaro aveva messo in serie difficoltà l’allora vicepresidente di Eisenhower. Fino al punto da fargli perdere le elezioni contro John F. Kennedy nel 1960. Perché la notizia di quel prestito, naturalmente, era venuta fuori proprio durante la campagna elettorale. E per Richard Nixon era stata una vera e propria Waterloo.

La salute di Hughes, nel frattempo, aveva cominciato a peggiorare. Quella sua sifilide, contratta in gioventù, gli martellava la testa con pensieri ossessivi e paure. Costringendolo a ritirarsi in una suite all’ultimo piano del Desert Inn di Las Vegas: un intero grattacielo acquistato e opportunamente svuotato da tutti i suoi inquilini, le cui scale il ricco e fobico imprenditore aveva preteso fossero cosparse di antibiotici. Da quell’eremo, senza più metter fuori il naso, controllava il suo impero e non solo. E Nixon lo temeva.

Nel 1968, ormai, Howard Hughes era un uomo malato. Ma continuava a visitare i pensieri di Nixon, eletto Presidente a novembre. D’altra parte, come dimenticare quella sibillina frase che l’eccentrico uomo d’affari usava ripetere al suo braccio destro, Bob Maheu, tutte le volte in cui si presentava qualche difficoltà? “Ricordati sempre Bob - gli diceva - che non c'è persona al mondo ch’io non possa comprare o distruggere”.

Lobbying. Questioni di lobbying, dopotutto. Come sempre. Appena salito al potere, Nixon era stato informato del fatto che il suo consulente finanziario - il banchiere Charles Gregory “Bebe” Rebozo - aveva ricevuto un regalino di centomila dollari in contanti. Da girare affettuosamente al Presidente. Con i migliori saluti di Howard Hughes. Maheu era andato personalmente a consegnar la bustarella a casa Rebozo. Il banchiere l’aveva agguantata furtivo, era scomparso un attimo nella stanza attigua e poi era tornato sorridente, a mani vuote. Missione compiuta, insomma.

Ma Nixon continuava a pensarci. Si chiedeva quanto potessero danneggiarlo, queste attenzioni di Hughes. Danneggiarlo politicamente, s’intende. Era chiaro. Il produttore cinematografico, in cambio, chiedeva trattamenti di favore per le sue compagnie aeree. E per la sua catena di casinò. Ma tutto questo, per Nixon, era pericoloso. Molto pericoloso.

I giornalisti del broadcast della CBS 60minutes, hanno fatto quel che Mark Felt, la gola profonda dei due reporter del Washington Post, suggeriva a proposito dello Scandalo Watergate: seguire i soldi. E i soldi di quella tangente, per lo meno una parte, portano dritti dritti alla villa di Nixon a Key Biscayne. 46 mila dollari, precisamente. Spesi tutti per renderla più bella e lussuosa. Con tanto di campo da golf e tavolo da biliardo. 

Nixon, quindi, non ci dormiva la notte. Il ricordo di quei regali lo ossessionava. 

Le cose per lui andarono ancor peggio dopo, nel 1971: alle soglie della nuova campagna elettorale. Quando venne a sapere che a capo dello staff del Comitato del candidato democratico McGovern era stato nominato Larry O’Brien. 

Apriti cielo. Larry O’Brien, proprio lui! Lobbysta numero uno di Hughes, assunto personalmente dal solito Bob Maheu almeno quattro anni prima. Sapeva, O’Brien, di quella bustarella a Rebozo? Probabilmente sì. E come avrebbe potuto utilizzare quella pericolosissima informazione, ora che lavorava per il nemico? L’interrogativo non abbandonava la mente del Presidente nemmeno un secondo, durante quella terza sfida elettorale della sua vita. Bisognava capire. Farlo seguire. Spiarlo. Soprattutto all’interno del complesso edilizio Watergate, divenuto la sede del Democratic National Committee, la principale organizzazione governativa del Partito Democratico.

Fu questo il motivo di quelle cimici disseminate per gli uffici del DNC al Watergate? Il motivo per cui cinque uomini, il 17 giugno 1972, furono spediti in quei locali dai repubblicani a fotografar documenti riservati per conto del Presidente? Fu questa la ragione dello scandalo che ne seguì e che nel giro di due anni travolse lo stesso Nixon? 

Certo: Il Presidente voleva sapere. Capire se O’Brien fosse al corrente di quel brutto affare e intendesse puntar quell’arma contro di lui. Ma questa non era forse l’unica ragione.

Il 30 luglio 1969, il Presidente Nixon aveva fatto un viaggio quanto mai inatteso (1). Era volato improvvisamente a Saigon per incontrare il leader sudvietnamita Van Thieu. La questione era molto delicata, e bisognava parlarne. A quattr’occhi. Dall’autunno precedente, infatti, Nixon aveva capito che in Vietnam la Guerra rischiava di concludersi improvvisamente. Che i due schieramenti stavano per arrivare a un accordo, a Parigi. E non poteva permetterlo. Nella maniera più assoluta. Nel corso della sua campagna elettorale, infatti, aveva promesso ai suoi elettori di risolver quella guerra, così odiata dall’opinione pubblica, una volta salito al potere. E questi adesso, con lo zampino di Lyndon Johnson e dell’URSS, stavano facendo pace da soli, senza di lui. Sottraendogli così la principale carta da giocare per sconfiggere il democratico Hubert Humphrey! Per questo motivo Nixon aveva affidato al suo capo staff Haldeman il compito di far pressione su Van Thieu - avvalendosi della collaborazione della corrispondente di guerra e attivista cinese Madame Chennault, presidentessa del Comitato delle Donne Repubblicane per Nixon e vedova di un eroe di guerra con molti contatti importanti in Oriente - per affossare i Trattati di pace facendo leva sull'ambasciatore sudvietnamita Bùi Diễm. Un notevole contributo in questo senso era giunto anche dall’immancabile Henry Kissinger, fino a poco tempo prima segretario del Governatore di New York Nelson Aldrich Rockefeller e poi passato improvvisamente dalla parte di Nixon - nonostante in più occasione lo avesse pubblicamente disprezzato - dopo che Rockefeller (2) aveva perso contro di lui le primarie del Partito Repubblicano. Era stato proprio Kissinger, da Parigi, a informare il futuro presidente dei “pericolosi” passi in avanti che le trattative di pace tra Vietnam del Nord e Vietnam del Sud stavano compiendo. E a indurre lo stesso Nixon a far sapere a Van Thieu, tramite la Chennault, che un accordo ben più vantaggioso lo avrebbe potuto ottenere soltanto bloccando il dialogo in corso e attendendo la sua salita alla Casa Bianca. Van Thieu aveva accettato, e la trattativa si era interrotta.

Naturalmente, però, Nixon non aveva alcuna soluzione in tasca, per quella terribile guerra. E il mondo intero se ne accorse appena divenne Presidente, assistendo impotente all’unica opzione venutagli in mente: l’ennesima raffica di bombardamenti su Vietnam del Nord e Cambogia. Se ne accorse anche Lyndon Johnson, che aveva capito chiaramente come il neo-Presidente avesse boicottato la pace in quelle martoriate zone a proprio esclusivo vantaggio, sacrificando ancora migliaia e migliaia di vittime (3). E se ne accorse lo stesso Van Thieu, diventato subito un individuo pericoloso, potenzialmente pronto a ricattare la nuova amministrazione statunitense. Era quello, dunque, il motivo di quel viaggio improvviso a Saigon? Offrire qualcosa al dittatore sud-vietnamita in cambio del suo silenzio? Guarda caso Van Thieu, nel 1975, si sarebbe ritirato dalla politica travolto da innumerevoli accuse di corruzione e violazione dei diritti umani, potendo però godere della protezione americana. Fino in fondo alla sua vita.

Dunque, tutto chiaro. Nel Watergate, il 17 giugno 1972, quelle spie intrufolatesi negli uffici del Partito democratico dovevano carpire informazioni riservate. Informazioni atte a tutelare Nixon da possibili minacce costituite da un O’Brien informato delle tangenti di Hughes e da un Lyndon Johnson al corrente del suo boicottaggio nei confronti della pace in Vietnam. È così? Sì, forse sì. Ma non è tutto. Quella circostanza - o meglio lo scandalo che ne derivò - doveva servire anche a qualcos’altro. A coprirne un altro, ancor più grave.

Il 24 marzo 1971 scoppiò quella che poteva rivelarsi una vera e propria bomba. Il Washington Post (4) pubblicò infatti un articolo in cui venivano citati più di mille documenti riservati, inviati alle redazioni di svariati quotidiani dal Citizens Committee to Investigate the FBI - un gruppo di attivisti nato all’inizio del 1970 - che comprovavano numerosissime violazioni del Primo Emendamento della Costituzione perpetrate dallo stesso Federal Bureau of Investigation perlomeno dal 1956. Un’operazione chiamata Counter Intelligence Program (COINTELPRO). Che nel mirino aveva le principali organizzazioni “anti-sistema”, colpite da vere e proprie azioni illegali dell’FBI. Comunisti, femministe, pacifisti, ambientalisti e associazioni come Black Power e American Indian Movement. Per decenni, in pratica, la polizia federale era stata incaricata di spiare e contrastare qualsiasi tipo di oppositore, su mandato di tutti i Presidenti americani succedutisi fino a quel momento. Spionaggio e destabilizzazione di ogni forma di dissenso. Altro che Democrazia. I documenti tiravano in ballo le azioni più turpi, da parte dell’FBI. Come le lettere inviate a Martin Luther King che lo invitavano a suicidarsi, o le sue foto in compagnia di svariate donne fatte recapitare alla moglie e ai giornali. O come la pianificazione dell’omicidio del leader dei Black Panther Fred Hampton.

Naturalmente la questione venne insabbiata dai media. E molti giornali si rifiutarono di approfondirla. Fu aperta un’indagine, sì, ma ai danni dei cittadini che avevano compiuto l’effrazione. E tutto finì lì. 

E lo scandalo Watergate? Fu un punto di svolta, secondo il filosofo Noam Chomsky che tanto si è interessato al caso. Perché per la prima volta il COINTELPRO fu usato da un Presidente contro il partito rivale. Durante una campagna elettorale, per giunta. Facendo spiare direttamente i propri antagonisti politici. 

A questo punto, i mass media americani si trovarono costretti a dover “scegliere” lo scandalo meno ingombrante. Il male minore a cui dar risalto per oscurare il peggiore. Dimostrando così, ancora una volta, di esser succubi del potere, proprio nel momento stesso in cui i due giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, venivano immortalati come autentici paladini della verità.

E non è certo un caso che quel Mark Felt che guidò i due reporter alla “soluzione” dell’affaire Watergate fosse proprio a capo dello stesso Counter Intelligence Program. Depistando in tal modo la stampa, per dirigerla sul “binario giusto”. Una circostanza che, a pensarci, dà i brividi.

L’informazione di sistema, dunque, in quell’estate del 1972 si trovò a “scegliere” tra due scandali, se così si può dire.

E tra COINTELPRO e Watergate, naturalmente “scelse” il secondo.


(1) Cfr. P. Ratto, Quell’inatteso 30 luglio di 51 anni fa, Pandora TV, 30.07.2020, all’indirizzo: https://bit.ly/3SWzsOL

(2)  Cfr. P. Ratto, Rockefeller e Warburg. I grandi alleati dei Rothschild, Arianna editrice, Cesena, 2019, pagg. 131-132

(3) A scoprire queste informazioni fu lo storico John Farrel, nel 2017, perlustrando gli archivi della Richard Nixon Presidential Library e scovando gli appunti di Haldeman a riguardo. Si veda a tal proposito anche l’articolo apparso sull’ANSA il 3 gennaio 2017, all’indirizzo: https://bit.ly/3zBZLTA

(4) Cfr. l’articolo che, sullo stesso Washington Post, ricorda i tratti salienti di questa vicenda: T. Jackman, The FBI break-in that exposed J. Edgar Hoover’s misdeeds to be honored with historical marker, 1.09.2021, all’indirizzo: https://wapo.st/3DS3LBC

 
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Fratello Olocausto

Pietro Ratto, 27 gennaio 2017

“.. se questa ebraica razza straniera è lasciata troppo libera di sé, diventa subito persecutrice, vessatrice, tiranna, ladra e devastatrice dei paesi dove si stabilisce. E per ciò fu tante volte perseguitata, vessata, tiranneggiata, rubata e devastata anch'essa dai Popoli esasperati. Laonde, per impedire che questa razza perseguiti o sia perseguitata, sono necessari i freni sapienti e leggi speciali a sua non meno che nostra difesa e salute.”

 

Quante volte ci siamo imbattuti in discorsi come questi, a proposito della piaga dell’antisemitismo e dell’orrenda politica razziale nazionalsocialista che se ne fece interprete, dall’ascesa al potere di Hitler in poi.

Un pregiudizio granitico, glaciale, che non conosce dubbio o ravvedimento. Che con quella criminale certezza assoluta, così tipica degli ignoranti, stigmatizza un’intera classe, in questo caso un’intera “razza”, scorgendo e denunciando in essa contorni e caratteristiche essenziali di chi, irreparabilmente, opera il male.

Il problema però, questa volta, è un tantino diverso. Perché ad attaccare con questa acredine e questa violenza quegli “ebrei, eterni fanciulloni insolenti, caparbii, sporchi, ladri, bugiardi, ignoranti, seccatori e flagello dei vicini e dei lontani”, manifestando con orgoglio quella “ripugnanza che la civiltà cristiana sempre sentì e sente contro la razza ebrea”, non sono i nazisti, non è Hitler [...]


L'intero saggio è consultabile in: P. Ratto La Storia dei vincitori e i suoi miti, Dissensi edizioni, Viareggio, 2018

 

Maggiori informazioni sul nuovo libro di Pietro Ratto,

La storia dei vincitori e i suoi miti.

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Olocausto animale

Pietro Ratto, 15 febbraio 2016

Il termine olocausto si ricollega alla cultura ebraica sin dalle prime pratiche religiose di sacrificio rituale. Si tratta di un vocabolo greco coniato in riferimento ai sacrifici, prevalentemente animali, che gli ebrei tributavano a Dio. Un termine che letteralmente allude al fatto che la vittima venisse interamente bruciata nelle fiamme.

Proprio per questo, una certa parte dell'intellighenzia ebraica ha sempre criticato l'uso di questo vocabolo a proposito del genocidio operato dal nazionalsocialismo nei confronti degli ebrei, proponendo di sostituirlo invece con la parola Shoah, che significa catastrofe. E' il caso, per esempio, di Bruno Bettelheim, il quale ha sottolineato la connotazione religiosa che il termine in questione possiede sin dai suoi primi utilizzi, biasimandone di conseguenza l'uso dissacrante da parte degli storici. Il concetto di olocausto, in questo senso, andrebbe quindi distinto da quello di genocidio, tutt'altro che sconosciuto alle dodici tribù di Israele, per lo meno stando alla loro storia narrata sulla Bibbia¹. Si vedano, ad esempio, alcune descrizioni vetero-testamentarie di  massacri come quello di Madian, descritto in Numeri, 31², o di Basan in Deuteronomio 3, 5-7³, o ancora quello di Rabba in II Samuele, 12, 29⁴.

Ma quali furono le proporzioni del massacro presso gli ebrei di questi sempre troppo dimenticati animali? Alla luce di una lettura attenta delle sezioni dedicate alla questione, presenti all'interno della Bibbia, è possibile risalire con una certa precisione alla fenomenologia di questi olocausti, relativamente al numero e al tipo di animali sacrificati nelle varie fasi della giornata, del mese e dell'anno.

Qui di seguito, un resoconto di quanto minuziosamente prescritto da Dio a Mosè, riportato in Numeri, 28.

A ciò vanno naturalmente aggiunti i sacrifici "occasionali" come quello riparatore nei confronti di un peccato commesso "per errore" (che richiedeva la morte di una giovenca e di un capro), e un peccato commesso "di proposito", che prevedeva che il peccatore stesso venisse "sterminato"


 

(1) Cfr. il documentario di Andrew Gallimore, Il Genocidio, parte 1 (Il Nemico), La Storia siamo noi, 2005

(2)  1 Il Signore disse a Mosè: 2 «Compi la vendetta degli Israeliti contro i Madianiti, poi sarai riunito ai tuoi antenati». 3 Mosè disse al popolo: «Mobilitate fra di voi uomini per la guerra e marcino contro Madian per eseguire la vendetta del Signore su Madian. 4 Manderete in guerra mille uomini per tribù di tutte le tribù d'Israele». 5 Così furono forniti, dalle migliaia d'Israele, mille uomini per tribù, cioè dodicimila uomini armati per la guerra. 6 Mosè mandò in guerra quei mille uomini per tribù e con loro Pincas, figlio del sacerdote Eleazaro, il quale portava gli oggetti sacri e aveva in mano le trombe dell'acclamazione. 7 Marciarono dunque contro Madian come il Signore aveva ordinato a Mosè, e uccisero tutti i maschi. 8 Uccisero anche, oltre i loro caduti, i re di Madian Evi, Rekem, Sur, Ur e Reba cioè cinque re di Madian; uccisero anche di spada Balaam figlio di Beor. 9 Gli Israeliti fecero prigioniere le donne di Madian e i loro fanciulli e depredarono tutto il loro bestiame, tutti i loro greggi e ogni loro bene; 10 appiccarono il fuoco a tutte le città che quelli abitavano e a tutti i loro attendamenti 11 e presero tutto il bottino e tutta la preda, gente e bestiame. 12 Poi condussero i prigionieri, la preda e il bottino a Mosè, al sacerdote Eleazaro e alla comunità degli Israeliti, accampati nelle steppe di Moab, presso il Giordano di fronte a Gerico.
13 Mosè, il sacerdote Eleazaro e tutti i principi della comunità uscirono loro incontro fuori dell'accampamento. 14 Mosè si adirò contro i comandanti dell'esercito, capi di migliaia e capi di centinaia, che tornavano da quella spedizione di guerra. 15 Mosè disse loro: «Avete lasciato in vita tutte le femmine? 16 Proprio loro, per suggerimento di Balaam, hanno insegnato agli Israeliti l'infedeltà verso il Signore, nella faccenda di Peor, per cui venne il flagello nella comunità del Signore. 17 Ora uccidete ogni maschio tra i fanciulli e uccidete ogni donna che si è unita con un uomo; 18 ma tutte le fanciulle che non si sono unite con uomini, conservatele in vita per voi. 19 Voi poi accampatevi per sette giorni fuori del campo; chiunque ha ucciso qualcuno e chiunque ha toccato un cadavere si purifichi il terzo e il settimo giorno; questo per voi e per i vostri prigionieri. 20 Purificherete anche ogni veste, ogni oggetto di pelle, ogni lavoro di pelo di capra e ogni oggetto di legno».
21 Il sacerdote Eleazaro disse ai soldati che erano andati in guerra: «Questo è l'ordine della legge che il Signore ha prescritto a Mosè: 22 L'oro, l'argento, il rame, il ferro, lo stagno e il piombo, 23 quanto può sopportare il fuoco, lo farete passare per il fuoco e sarà reso puro; ma sarà purificato anche con l'acqua della purificazione; quanto non può sopportare il fuoco, lo farete passare per l'acqua. 24 Vi laverete le vesti il settimo giorno e sarete puri; poi potrete entrare nell'accampamento».
25 Il Signore disse a Mosè: 26 «Tu, con il sacerdote Eleazaro e con i capi dei casati della comunità, fa' il censimento di tutta la preda che è stata fatta: della gente e del bestiame; 27 dividi la preda fra i combattenti che sono andati in guerra e tutta la comunità. 28 Dalla parte spettante ai soldati che sono andati in guerra preleverai un contributo per il Signore: cioè l'uno per cinquecento delle persone e del grosso bestiame, degli asini e del bestiame minuto. 29 Lo prenderete sulla metà di loro spettanza e lo darai al sacerdote Eleazaro come offerta da fare con il rito di elevazione in onore del Signore. 30 Della metà che spetta agli Israeliti prenderai l'uno per cinquanta delle persone del grosso bestiame, degli asini e del bestiame minuto; lo darai ai leviti, che hanno la custodia della Dimora del Signore».
31 Mosè e il sacerdote Eleazaro fecero come il Signore aveva ordinato a Mosè. 32 Ora il bottino, cioè tutto ciò che rimaneva della preda fatta da coloro che erano stati in guerra, consisteva in seicentosettantacinquemila capi di bestiame minuto, 33 settantaduemila capi di grosso bestiame, 34 sessantunmila asini 35 e trentaduemila persone, ossia donne che non si erano unite con uomini. 36 La metà, cioè la parte di quelli che erano andati in guerra, fu di trecentotrentasettemilacinquecento capi di bestiame minuto, 37 dei quali seicentosettantacinque per il tributo al Signore; 38 trentaseimila capi di grosso bestiame, dei quali settantadue per l'offerta al Signore; 39 trentamilacinquecento asini, dei quali sessantuno per l'offerta al Signore, 40 e sedicimila persone, delle quali trentadue per l'offerta al Signore. 41 Mosè diede al sacerdote Eleazaro il contributo dell'offerta prelevata per il Signore, come il Signore gli aveva ordinato. 42 La metà che spettava agli Israeliti, dopo che Mosè ebbe fatto la spartizione con gli uomini andati in guerra, 43 la metà spettante alla comunità fu di trecentotrentasettemilacinquecento capi di bestiame minuto, 44 trentaseimila capi di grosso bestiame, 45 trentamilacinquecento asini 46 e sedicimila persone. 47 Da questa metà che spettava agli Israeliti, Mosè prese l'uno per cinquanta degli uomini e degli animali e li diede ai leviti che hanno la custodia della Dimora del Signore, come il Signore aveva ordinato a Mosè. 48 I comandanti delle migliaia dell'esercito, capi di migliaia e capi di centinaia, si avvicinarono a Mosè e gli dissero: 49 «I tuoi servi hanno fatto il computo dei soldati che erano sotto i nostri ordini e non ne manca neppure uno. 50 Per questo portiamo, in offerta al Signore, ognuno quello che ha trovato di oggetti d'oro: bracciali, braccialetti, anelli, pendenti, collane, per il rito espiatorio per le nostre persone davanti al Signore». 51 Mosè e il sacerdote Eleazaro presero dalle loro mani quell'oro, tutti gli oggetti lavorati.
52 Tutto l'oro dell'offerta, che essi consacrarono al Signore con il rito dell'elevazione, da parte dei capi di migliaia e dei capi di centinaia, pesava sedicimilasettecentocinquanta sicli. 53 Gli uomini dell'esercito si tennero il bottino che ognuno aveva fatto per conto suo. 54 Mosè e il sacerdote Eleazaro presero l'oro dei capi di migliaia e di centinaia e lo portarono nella tenda del convegno come memoriale per gli Israeliti davanti al Signore.

 

(3) 5 Tutte queste erano città fortificate con alte mura, porte e sbarre, oltre a moltissime borgate rurali. 6  Noi le votammo allo sterminio, proprio come avevamo fatto a Sihon re di Esbon, votando ogni città alla distruzione, uomini, donne e fanciulli. 7 E prendemmo per noi come preda tutti gli animali domestici e le spoglie delle città.

 

(4) Che nella versione non ancora edulcorata dalle attuali traduzioni recita: 29  Pertanto Davide raccolse tutto il popolo e andò a Rabba e combatté contro di essa e la catturò. 30  E prese la corona di Malcam dal suo capo, il peso della quale era di un talento d’oro, insieme a pietre preziose; e fu sulla testa di Davide. E le spoglie della città che portò via erano moltissime. 31  E fece uscire il popolo che era in essa e mise i loro corpi sotto delle seghe, degli erpici di ferro e delle scuri di ferro, e lo fece gettare in fornaci da mattoni. E faceva così a tutte le città dei figli di Ammon. Infine Davide e tutto il popolo tornarono a Gerusalemme. (Cfr, ad esempio La Sacra Bibbia nell'originaria traduzione del Diodati).


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Spiando Serena

Pietro Ratto, 4 settembre 2015

Ecco, guarda.. Qui sembra davvero felice. Fa il suo lavoro, quello che ama. Deve aver appena compiuto ventinove anni. Sembra molto soddisfatta, col suo pass al collo! Ha appena ottenuto un ingaggio per Press TV, la nota televisione iraniana. Certo, è stato difficile lasciare il Michigan.. I suoi bimbi: Alì, di quattro anni, Ajmal, di due.. Ha dovuto salutarli in tutta fretta, abbracciando stretto stretto il marito Ibrihim, per poi fiondarsi sul primo aereo per Istanbul.. Però lo vedi che è felice, no? Fa ciò per cui è nata. Fa la giornalista. E lo fa sul serio, perché è una reporter di quelle vere, di quelle che la verità la cercano.. Che la verità la raccontano.. Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio, ama sempre dire Serena.

La “giornalista” Serena.. Serena Shim.
E’ bellissima, vero? Uno strano mix di Occidente ed Oriente, con quegli occhi sinceri, aperti, che riflettono tutto il calore del Libano, la sua terra d’origine..

Da questa foto la si intuisce meglio, tutta la sua soddisfazione. Così rilassatamente appoggiata alla telecamera, con quel microfono in mano e quel sorriso tra l’orgoglioso e il divertito, di chi fa quel che sa fare, di chi fa ciò che è…

Qui è al lavoro, guarda..

Il velo le pesa parecchio, lo si capisce chiaramente, ma lo porta con eleganza e rispetto. Come dici? I suoi occhi? Sì, forse sono un po’ più tristi, hai ragione. Proprio come i suoi biondi capelli anche il suo sguardo, in effetti, pare leggermente velato.. La malinconia? La nostalgia?

La lontananza da Ibrihim?

No, accidenti: forse è paura!Guarda questa foto: sembra proprio paura, la sua! Serena qui ti guarda dritto dentro l’anima.. Comunica ansia, disagio.. Facci caso.. Dietro di lei mitragliette, fucili.. Uomini in uniforme che sembrano controllarla, che – quasi minacciosi – paiono spiarne movimenti e parole.. Serena Shim non è per nulla tranquilla, qui, è vero.. Che si sia pentita, così lontana dai suoi piccoli..?

E poi c’è questa. Qui il terrore glielo si legge negli occhi.

E’ il telegiornale del 17 ottobre del 2014. L’annunciatrice le ha appena chiesto, a bruciapelo, perché mai i servizi segreti turchi l’accusino di colpo di essere una spia siriana. Lei si difende come può, ma è spaventata a morte. Dice di saper bene che la Turchia passa per la più grande prigione di giornalisti del mondo. Dice che ha sempre fatto il suo lavoro con coscienza ed onestà, nel pieno rispetto della verità… E formula un’ipotesi. Proprio con quello sguardo atterrito che vedi, proprio con quelle labbra spalancate che hai sotto gli occhi… Proprio nel momento in cui è stata immortalata qui, Serena sostiene di esser stata la prima ad accorgersi del marcio che ruota attorno a quella guerra. Quella sporca guerra che l’hanno spedita a documentare, nel pieno della battaglia di Kobane. Perché, vedi, un tempo le guerre facevano schifo, sì. Ma almeno capivi chi combattesse contro chi. E capivi più o meno il perché. Ma questa roba, davvero, è tutta marcia. Incomprensibile, schifosa e marcia. E questa immagine, ti dicevo, è la fotografia di una denuncia.

La voce si fa stridula e tremolante.. Serena, qui, sta dicendo in diretta di esser stata la prima (lei, per etica professionale, usa il plurale: dice “noi”. Anzi, per esser precisi dice: “Siamo stati tra i primi, se non i primi”) ad accorgersi del marcio. Perché lei li ha visti, quegli uomini dell’ISIS, passare il confine turco ed entrare in Siria a bordo dei camion del WFO. Sì, sì: hai capito bene. La WFO: World Food Organization. L’organizzazione delle Nazioni Unite che si batte per sconfiggere la fame nel mondo, insomma. E che, a quanto pare, già che c’è ogni tanto sui suoi camion dà un passaggio a qualche terrorista.. Lei li ha visti sbarcare in Siria, quei terroristi, al confine con la Turchia, in prossimità della città di Suruç, proprio dove si trova il suo hotel. Li ha visti e riconosciuti. E qui glielo sta proprio dicendo. Lo denuncia in diretta, l’ingenua! Perché lei è una giornalista vera, capisci? Serena sa bene che non dovrebbero minacciarla.. Che anzi, al contrario, dovrebbero premiarla, per uno scoop così.
Invece lo dice chiaro, Serena Shim: “Ho paura..”

Non ho foto più recenti, di lei. C’è questa, se vuoi. Ma è uno schifo.

E’ la sua macchina, o quel che ne resta. Risale al 19 ottobre, due giorni dopo la sua denuncia suicida in Tv.. Stava tornando in hotel alla fine della sua giornata di lavoro. Un camion l’ha travolta. Ha travolto lei e chi si trovava al volante della sua automobile. Il camionista Şükrü Salan, invece, lì per lì è scappato. Poi si è costituito e lo hanno interrogato. Tutto qui. Guarda bene.. Lo vedi, la postazione è sorvegliata dai soldati. La mamma di Serena, Judith Poe, ricorda che non hanno fatto avvicinare nessun altro, nemmeno dei vigili o dei poliziotti. C’era solo l’esercito, intorno alle lamiere contorte dell’auto di Serena. Intorno al suo cadavere di mamma ventinovenne.

Ecco, questa è Judy Irish. Messa male, vero? Era lei al volante dell’auto. Si tratta della cameraman, ma anche della cugina, di Serena Shim. Pare che subito dopo lo schianto, mentre ancora il camionista si dava alla macchia, Judy sia stata portata in ospedale d’urgenza. Serena, invece, no. Il suo corpo è sparito nel nulla per giorni. Le indagini? Sì, le hanno fatte in Turchia. Il risultato ufficiale è che tutta la colpa è di Judy. Andava troppo veloce, hanno dichiarato.

 

E gli Stati Uniti? Niente. Nessuna indagine, nessuna inchiesta. Normalmente, quando muore in giro uno dei loro fanno un casino…! Niente. Niente di niente. Qualche giornale si è limitato a parlare di morte sospetta. La madre di Serena ha fatto il diavolo a quattro. Su Twitter, su YouTube… Serena è morta per la verità. L’hanno uccisa perché sapeva troppo! Ma niente. Niente di niente.

Ibrihim, il marito di Serena, è stato avvisato ufficialmente solo una settimana dopo. Lo ha chiamato l’Ambasciata USA. Nel frattempo Serena era già stata seppellita. Il 22 ottobre era già sotto terra. Sepolta a Beirut, la sua città d’origine.

Ecco, non ho altro da dirti. Non ho altre immagini di lei.
Mi viene in mente soltanto più questo. Quando accendi la Tv, quando leggi i giornali, ogni tanto pensa a Serena. Chissà.. Potrebbe magari venirti qualche dubbio su quello che ti raccontano.
Soprattutto, su quello che non ti raccontano.


Cfr. anche, a tal proposito, P. Ratto, Solo per il Petrolio su IN-CONTRO/STORIA, al capitolo Una guerra a tutto gas. Perché l’ISIS?


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Le Shoah senza Memoria

Pietro Ratto, 27 gennaio 2015

C'è un genocidio di serie A e molti genocidi di serie B. Una Shoah che in nessun modo può venir ridiscussa e che va costantemente richiamata alla memoria, e decine di altre Shoah che chiunque, soprattutto chi le ha orchestrate, può mettere in discussione, ridimensionare, perfino negare, senza rischiare di perdere il posto di lavoro, la cattedra o, addirittura, la libertà. Decine di genocidi che, al contrario del cosiddetto Olocausto, sembra quanto mai consigliabile dimenticare.

La tabella che segue vuole invece rinfrescare la memoria di un mondo che soffre di amnesia pilotata, un mondo sempre più globalizzato e sempre più concorde nel rimuovere gli orrori scomodi e ribadire continuamente quelli meno scomodi.

La tabella che segue ci riporta alla memoria alcuni di questi genocidi di serie B.

  

Pietro Ratto, 27 gennaio 2015: "Giornata della Memoria"

 

(*) Il notiziario delle ore 12 dell'emittente radiofonica tedesca S2 Aktuelle, il 10 ottobre 1996 riportava la seguente notizia: «Sacerdoti e suore anglicani, ma soprattutto cattolici, sono gravemente accusati di aver preso parte attiva all’assassinio di indigeni. In particolare, il comportamento d’un religioso cattolico ha tenuto desto per mesi l’interesse della pubblica opinione, non solo nella capitale ruandese Kigali. Era parroco nella chiesa della Sacra Famiglia, ed è accusato di aver ucciso dei tutsi nei modi più atroci. Sono rimaste incontestate deposizione di testimoni secondo cui il religioso, col revolver alla cintola, fiancheggiava bande saccheggiatrici di Hutu. Nella sua parrocchia, in effetti, era avvenuta una sanguinosa strage di Tutsi che avevano cercato scampo in quel tempio. Perfino oggi, due anni dopo, vi sono molti cattolici a Kigali che, per la complicità a loro avviso dimostrata d’una parte dei sacerdoti, non mettono più piede nelle chiese della città. Quasi non v’è chiesa nel Rwanda in cui fuggitivi e profughi - donne, bambini, vecchi - non siano stati brutalmente picchiati e massacrati al cospetto della croce. Vi sono testimonianze in base alle quali i religiosi hanno rivelato i nascondigli dei Tutsi, lasciandoli in balìa delle milizie Hutu armate di machete.

Nel frattempo, si son date prove schiaccianti del fatto che, durante il genocidio in Rwanda, anche monache cattoliche si sono macchiate di gravi colpe. In questo contesto, si fa costante menzione di due benedettine, rifugiatesi intanto in un monastero belga per sottrarsi al corso della giustizia ruandese. Secondo testimonianze concordi di superstiti, una aveva chiamato i sicari hutu, introducendoli da migliaia di tutsi che avevano cercato rifugio nel suo convento. Con la forza, i morituri erano stati cacciati dal chiostro e tosto soppressi in presenza della suora. Anche la seconda benedettina aveva collaborato direttamente con le bande assassine delle milizie hutu; anche di questa suora testimoni oculari affermano che avesse assistito freddamente, senza reagire in alcun modo, a come i nemici venivano macellati. Alle due donne si contesta addirittura (in base a precise testimonianze) di aver fornito ai killer il petrolio con cui le vittime vennero bruciate vive»

Dal canto suo, la BBC, nel corso del suo notiziario BBC News del 19 aprile 1998, diffondeva: "A court in Rwanda has sentenced two Roman Catholic priests to death for their role in the genocide of 1994, in which up to a million Tutsis and moderate Hutus were killed. Pope John Paul said the priests must be made to account for their actions. Different sections of the Rwandan church have beeen widely accused of playing an active role in the genocide of 1994"

Si veda anche: K. H. Deschner, Opfer des christlichen Glaubens Teil 2, Schwarze Seele


(1) Cfr. H. Ellerbe, The Dark Side of Chritian History, Morningstar Books, 1995 o N. Cohn, Europe’s Inner Demons: An Inquiry Inspired by the Grat Witch Hunt, Frogmore, 1976

 (2) K. H. Deschner, Opus Diaboli, Reinbek, Hamburg 1987

 (3) Cfr. D. Stannard, American Holocaust, Oxford University Press 1992 o L. Parinetto, Il ritorno del Diavolo, Mimesis, 1996

 (4) Si veda ad esempio, il documentario di D. Read The Burning Times, 1990. Probabilmente, a questo proposito, sarebbe più corretto parlare di sterminio che di genocidio. Bisogna però tener presente che anche gran parte degli ebrei coinvolti dalla Soluzione finale della Germania di Hitler erano della stessa nazionalità dei loro persecutori. Inoltre, secondo autorevolissimi padri della Chiesa come S. Agostino, gli eretici e - in generale coloro che disprezzano Dio - sono da considerarsi un popolo a parte: il popolo della Città del Diavolo, contrapposto a quello della Città di Dio.

A questi dati, infine, bisognerebbe aggiungere quelli relativi alle vittime delle Crociate. Ma a proposito di ciò non esistono stime ufficiali, anche se molti storici parlano di diversi milioni. Hans Wollschläger, nel suo Le Crociate armate su Gerusalemme, arriva a quantificarle in 22 milioni. Tra queste, anche migliaia di ebrei.

 (5) S. Dubnow, Storia degli ebrei in Russia e Polonia, Jewish Society, Philadelphia, 1916

 (6) Anche qui, alcuni studiosi (per esempio R. Secher), parlano di genocidio. Più adeguato, forse, considerarlo uno sterminio, oppure una violenta repressione rivoluzionaria? Fatto sta che le vittime erano di connotazione marcatamente cattolica e che la loro ribellione fu fomentata dai vertici del cosiddetto Clero refrattario.

Cfr. R. Secher, Il genocidio vandeano, Effedieffe, 1989, oppure l'intervento di Jean-Francois Revel su Le Point n. 728 (18 agosto 1988)

 (7) Cfr. D. Stannard, American Holocaust, Oxford University Press 1992

 (8) Cfr. P. Forbath, The River Congo: The Discovery, Exploration and Exploitation of the World's Most Dramatic Rivers, Harper, 1977

 (9) Cfr. N. Werth - S. Courtois, Libro nero del Comunismo: crimini, terrore, repressione, Mondadori, 1998

 (10) Cfr. J. Brent, Inside the Stalin Archives, Atlas & Company, 2008

 (11) Cfr. StatoPotenza.ue

 (12) Sulle reali proporzioni e la natura stessa di tutta questa controversa vicenda, cfr. P. Ratto, Alex è in galera, su questo stesso sito

 

 

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I messaggi segreti nel Rinascimento

La geniale crittografia di Leon Battista Alberti

Pietro Ratto, 20 ottobre 2013

I codici segreti sono sempre stati di importanza fondamentale, per la comunicazione di messaggi riservati, sin dall’antichità. Era in effetti questione della massima importanza scambiare informazioni riservate con Stati alleati senza che il nemico potesse intercettarle. Svariati codici crittografati risultano già elaborati ed ampiamente utilizzai nell'Antico Egitto e lo storico romano Svetonio, nella sua Vita dei Cesari, riporta ad esempio il seguente codice segreto, utilizzato da Giulio Cesare in persona:

Una frase come "partiremo all'alba" con questo tipo di semplice cifratura, ignorando l'apostrofo, si sarebbe tradotta :

MUOQFOBHLUGGUGVU

Quella riportata da Svetonio era un tipico esempio di crittografia mono-alfabetica (ossia ricavata su un solo alfabeto), per altro basata sullo spostamento di posizione tra le lettere del codice in chiaro e quelle del codice cifrato.

Nel Medioevo non si contano i Principi ed i Sovrani che fanno ampio uso di agenti segreti al fine di carpire informazioni preziose per poter ottenere vantaggi sui propri rivali. Spesso questo ruolo era rivestito da insospettabili cantori e musici, che avevano più di altri l'opportunità di girare il mondo e che, quindi, si prestavano volentieri a questo genere di servizio nei confronti dei potenti. Pietro II d'Aragona (1174-1213), ad esempio, aveva scelto come agente segreto il trovatore Raimon de Miraval, vissuto a cavallo tra il XII ed il XIII secolo, mentre un'importante spia di Enrico VIII d'Inghilterra (1491-1547) era nientemeno che il musicista fiammingo Pierre Alamire (1470-1536). Durante la Guerra dei Cent'anni svolse un notevole e ben retribuito lavoro lo 007 Frank de Hale di Aquitania, di professione siniscalco, incaricato dagli inglesi si racimolare più informazioni possibile sulle intenzioni e le strategie segrete dei nemici francesi.

Fondamentale, quindi, elaborare sempre nuovi e più sofisticati meccanismi di cifratura delle comunicazioni riservate. L'ambasciatore spagnolo a Londra Rodrigo de Puebla, per esempio, aveva escogitato un sistema di crittografia basato sulla sostituzione di parole con numeri. Per esempio, 136 significava "Inghilterra", 97 voleva dire "truppe" e 39 semplicemente "non". Con questo codice cifrato Isabella di Castiglia (1451-1504) scrisse una famosa lettera nel 1491¹.

 

Un importantissimo contributo all'evoluzione della crittografia fu quello del grande Leon Battista Alberti (1404-1472), architetto, urbanista, pittore, scultore, matematico e crittografo. A questo autentico genio genovese dobbiamo, tra l’altro, la messa a punto definitiva della Prospettiva. Per non parlare del suo Definitor, un incredibile sistema per codificare immagini in termini alfanumerici così da poterle traslare o ricopiare (anche a fini scultorei, per passare da un modello ad una sua fedele rappresentazione scolpita).

Il Definitor di L. B. Alberti

Un disco ed un’asta graduati, a cui era appeso un filo a piombo. Tramite questo congegno era possibile codificare ogni punto del modello attraverso coordinate polari ed assiali per poi riprodurlo, ad esempio scolpendolo nel marmo

 Un autentico assaggio della moderna digitalizzazione.

Quanto alla crittografia, Leon Battista Alberti partì dalla constatazione secondo cui ogni lingua possiede una sua particolare configurazione di lettere che si presentano più frequentemente di altre (in Italiano le prime quattro vocali). Tale caratteristica, detta statistica, si ripropone in qualsiasi frase di una certa lunghezza. Alberti capì che ciò poteva rendere piuttosto debole qualsiasi cifratura. Comprese quindi l’importanza di ricorrere a codici poli-alfabetici. Inoltre si rese conto che i  meccanismi atti a produrre messaggi in codice avevano il difetto di risultare spesso troppo statici, di non rinnovarsi, vanificando così il loro  stesso utilizzo non appena scoperti. Escogitò, allora, l’idea di progettare una crittografia poli-alfabetica e dinamica, capace di cambiare continuamente².

 

Su commissione di Papa Pio II (1405-1464) nel 1466 l'Alberti costruì una macchina in legno dotata di due ruote concentriche. In quella più esterna incise le lettere in chiaro, disposte in 23 caselle, aggiungendo i primi quattro numeri nelle ultime quattro caselle e tralasciando due lettere poco frequenti, la h e la q. Nella ruota più interna dispose l’alfabeto cifrato, inserendo 23 lettere ma omettendo la V, equiparata alla U.

 Resa graficamente, il meccanismo si presentava così:

L’idea geniale di Alberti, però, consisteva nell'utilizzo di una permutazione del codice cifrato e di una "coppia di azzeramento" costituita da un carattere del codice in chiaro ed uno del codice cifrato, entrambe precedentemente concordate tra mittente e destinatario.

Ecco un esempio: 

Supponendo che mittente e ricevente avessero concordato la seguente permutazione:

 CDABEFGHKILMNZOPQRSUTYX

 e la seguente coppia di azzeramento:

(a, L)

 che comportava un'iniziale traslazione della suddetta permutazione, partendo dalla L collocata sotto la a.

La macchina di Alberti, quindi, cominciava a lavorare sulle seguenti accoppiate:

Posta la stringa considerata sopra a titolo di esempio (“partiremoallalba”), vi venivano inseriti a caso qua e là uno o più numeri da 1 a 4, per esempio:

part2irem4oall3alb2a

Poi si iniziava a codificare tutte le lettere fino al primo numero, incluso (2):

XLCAH

successivamente si spostava la lettera di azzeramento L sotto il 2 in modo da variare la corrispondenza dei codici in questo modo:

La nuova coppia di azzeramento era a quel punto (a, Z). Continuando a cifrare, fino al secondo numero incluso, si aveva:

... TBRXN

poi, si eseguiva nuovamente l’azzeramento, questa volta con la Z sotto il numero 4, così come indicato

La nuova coppia di azzeramento era (a, O). Si procedeva con la cifratura:

 ... AOXXN

 poi, il nuovo azzeramento, questa volta con la O sotto il numero 3, così come indicato

Nuova coppia di azzeramento: (a, Q). Poi, ancora la cifratura:

 ... QDRM

 e il nuovo azzeramento, questa volta con la Q sotto il numero 2, così come indicato

in modo da codificare l'ultima lettera, la a, che diventava:

 ... U

La sequenza crittografata completa era quindi:

 XLCAHTBRXNAOXXNQDRMU

Il ricevente, a quel punto, decodificava questa stringa partendo dall’azzeramento inizialmente convenuto (a, L) e risalendo in tal modo al messaggio originale, opportunamente “scremato” dei numeri³.

 Un sistema, quello dell'Alberti, in grado di proteggere efficacemente la segretezza del messaggio riservato, dato che, non conoscendo permutazione e coppia di azzeramento concordati da mittente e destinatario, il malcapitato decriptatore si trovava a dover affrontare un numero di tentativi pari a 23! x 23

 


(1) Si veda a tal proposito E. J. Valero, Spie delatori e agenti segreti nel Medioevo, in Storica, Edizioni RBA Italia, Num. 53, luglio 2013

 

(2) Cfr. L. B. Alberti, Opuscoli morali, Libro VI: La Cifra, Cosimo Bartoli Editore, Venezia, 1568, Archivi Vaticani. Cfr. anche F. Eugeni e D. Eugeni, Il codice di Leon Battista Alberti, in Ratio Mathematica, Eiris, Num. 7, 1994, pag. 179

 

(3) Cfr. anche D. Vecchioni, Spie. Storie degli 007 dall'antichità all'era moderna, Olimpia, 2007 e S. Singh, Codici & Segreti. La storia affascinante dei messaggi cifrati dall'antico Egitto a Internet, Rizzoli, 2001

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La Rivoluzione del Kaiser

Pietro Ratto, 25 agosto 2012

1.  I SOLDI DEL REICH

16 novembre 1917. I compagni Polivanov e Zalkind, alti funzionari del Commissariato per gli Affari Esteri dell'appena nato regime bolscevico, firmano un documento indirizzato al Presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo, Lenin. Sul documento si legge: "Secondo la risoluzione presa alla riunione dei commissari del popolo compagni Lenin, Trotskij, Podvojskij, Dybenko, Volodarskij, abbiamo eseguito quanto segue:

1) nell’archivio del ministero della Giustizia dall’incartamento sul “tradimento” dei compagni Lenin, Zinoviev, Kamenev, Kollontaj, ecc. abbiamo tolto l’ordine della banca imperiale germanica n. 7433 del 2 marzo 1917 con l’autorizzazione di un pagamento ai compagni Lenin, Zinoviev, Kamenev, Trotskij, Sumenson, Kozlovskij, ecc. per la propaganda di pace in Russia.

2) Sono stati controllati tutti i registri della Nya Banken di Stoccolma contenenti i conti dei compagni Lenin, Trotskij, Zinoviev, ecc., aperti dietro l’ordine della banca imperiale germanica n. 2754".

Vladimir Il'ič Ul'janov, soprannominato LENIN, artefice della Rivoluzione d'Ottobre

Poche righe piuttosto inquietanti, che alludono a tradimenti e a bonifici bancari tedeschi. La questione, in realtà, non è sconosciuta. Da tempo si parla di finanziamenti germanici volti a "convincere" la Russia ad uscire dal conflitto permettendo così all'esercito tedesco di concentrarsi sul fronte più "caldo", quello occidentale, che vedeva impegnati gli uomini del Kaiser contro l'odiata Francia.

Non è cosa nuova, ma Lenin aveva sempre negato. Non poteva davvero ammettere un qualche accordo, tanto più di matrice economica, tra l'imperialismo borghese e militarista tedesco e il pacifismo bolscevico. Ora, però, ricevute bancarie ed estratti conto rinvenuti da alcuni giornalisti del periodico tedesco Der Spiegel negli archivi militari russi e tedeschi ed in quelli di alcune banche svizzere toglierebbero ogni dubbio.

Certo, quel rocambolesco rientro in Russia, completatosi il 3 aprile 1917, di un Lenin fino a quel momento esule in Svizzera, aveva fatto discutere per anni gli studiosi. Ben protetto all'interno di un vagone piombato partito da Zurigo e transitato per tutta la Germania sotto gli occhi di centinaia di consenzienti soldati tedeschi, il futuro animatore della Rivoluzione di Ottobre si era preso il lusso - insieme al compagno Karl Radek - di spostarsi in terra nemica e di ritornare nella sua patria al fine di dare il via alla propaganda bolscevica con le sue famose Tesi di Aprile. James Joice, a proposito di questa sua avventurosa rimpatriata, avrebbe definito Lenin una "sorta di cavallo di Troia" della rivoluzione.

Karl Radek (1885-1939)

Rivoluzionario della prima ora, finirà i suoi giorni in un campo di lavoro, ucciso dalle purghe staliniste.

Il 17 di quel mese un telegramma era partito da Stoccolma. Il capo dei servizi segreti tedeschi avvisava Berlino: "L’ingresso di Lenin in Russia è riuscito.

Sta lavorando esattamente come richiesto".

Ad organizzare e finanziare il viaggio di Lenin fu un personaggio alquanto enigmatico, tal Parvus Helphand, per l'anagrafe Alexander Israel Helphand, democratico socialista russo-tedesco che, secondo lo storico George Vernadsky (Cfr. Lenin, il dittatore rosso, Yale university Press, del 1932), fece da intermediario tra la Germania e Lenin trasferendo diversi milioni di rubli dall'una all'altra parte. 

A finanziare e portare in Russia Trotskij, invece, ci pesò la banca J.P Morgan di Rockefeller così come rivela Harold Nicolson nel suo Dwight Morrow del 1935. La J.P Morgan, che finanziò in più occasioni i rivoluzionari russi così come la stessa Federal Reserve Bank (Cfr. Robert Maddox, La guerra sconosciuta con la Russia, Presidio Press, 1977), pagò tutte le spese della permanenza in esilio, in un hotel di lusso a New York, di Trotskij e famiglia. Poi organizzò il suo rientro a Mosca del 26 marzo 1917 - provvedendo anche a liberarlo quando, il 13 aprile, venne intercettato ed arrestato ad Halifax dai servizi segreti canadesi, grazie a forti pressioni dal primo ministro inglese Lloyd George sul politico canadese McKenzie King, che grazie al suo interessamento fu poi nominato Direttore del Dipartimento di Ricerca della Rockefeller Fondation, incarico da 30 mila dollari ll'anno, ottenendo in seguito la carica di Primo ministro - avviando così la Rivoluzione.

Eustace Mullins - nel suo discusso The new Order, Ezra Pound Institute, 1985 - sostiene che a Wall Street, al numero 120 della Broadway, nei primi anni Venti fosse stata collocata una sede della Federal Reserve specificamente finalizzata al finanziamento dei Partito bolscevico, impegnato nella difficile costruzione dell'URSS.

 

Lenin prezzolato dai servizi segreti germanici e dalle banche americane per dar corso ad un Rivoluzione comunista atta a togliere di mezzo la Russia dal conflitto. Le prove che i giornalisti dello Spiegel citano paiono proprio impietose. Se ne evince che per ben quattro anni il solo Ministero degli Esteri tedesco versò nelle casse sovietiche 26 milioni di marchi (circa 75 milioni di euro attuali). Ma i finanziamenti totali furono molto più ingenti, e si concretizzarono in armamenti, esplosivi e, naturalmente, molti, molti soldi. Anzi, il periodico tedesco sostiene che già nel settembre 1914, a guerra appena iniziata, "due personaggi particolarmente influenti" avessero ricevuto dal Kaiser un anticipo di 50 mila marchi d'oro per mettere in piedi in Russia un'insurrezione che, una volta verificatasi, avrebbe ottenuto un'ulteriore copertura tedesca di altri due milioni di marchi.

Il Kaiser Guglielmo II

(1859-1941)

Da sinistra (e da storici come Vladimir Buldakov o Roy Medvedev), la questione viene minimizzata. La cosa si sapeva già, dicono i sostenitori di Lenin, affermando che il padre della Rivoluzione di Ottobre non stipulò alcun accordo coi tedeschi e che si trattò soltanto di una momentanea "convergenza di interessi", che permise al capo dei bolscevichi di "sfruttare" i proventi del capitalismo occidentale a vantaggio del comunismo. In altre parole: la politica non ha nulla a che fare con la morale.

Ma non la vedono così, come una semplice operazione di opportunismo politico giustificato dalla "Ragion di Stato", studiosi come Viktor Kuznetsov, che nel suo libro Il mistero del rivolgimento d’ottobre. Lenin e la congiura tedesco-bolscevica, cita documenti incontrovertibili, anche se sconosciuti più ai russi che agli storici occidentali e parla di un vero e proprio "peccato originale" della Rivoluzione leninista.

Scandalo o no? In fin dei conti tutto dipende dall'idea di politica in cui crediamo.

 

2. LE BANCHE E LA GRANDE GUERRA

 Ma è davvero quello l'unico obiettivo nei confronti della Russia, farla uscire dal conflitto? Si tratta davvero di mire esclusivamente militari, da parte delle sole forze dell'Alleanza? Può aver, l'Imperatore Guglielmo II, concepito e messo in atto da solo tutto ciò? Lo studioso e giornalista Gian Paolo Pucciarelli nel suo Il ruolo delle banche Internazionali all'origine del primo conflitto mondiale ci fornisce un quadro ben più inquietante della situazione, a partire dai decenni precedenti a quel fatidico 1914. Pucciarelli parte da un articolo pubblicato sul Quarterly Journal of Economics di Washington nell'aprile 1887, in cui ad un certo punto si legge: "Le finanze europee sono a tal punto compromesse dall'indebitamento generale che i governi dovrebbero chiedersi se una guerra, malgrado i suoi orrori, non sia preferibile al mantenimento di una precaria e costosa pace". Una guerra, insomma, come unica soluzione per far fronte al gigantesco e non più sostenibile debito pubblico accumulato fino a quel momento da tutte le potenze europee. Pucciarelli sottolinea come tale debito fosse il risultato dei complessi meccanismi adottati dal Sistema Bancario Internazionale al fine di indebitare fortemente i vari governi per poi dichiararne l'insolvenza, nel momento in cui i prelievi fiscali interni non si fossero rivelati più in grado di far fronte ai prestiti bancari ottenuti.

Il tesissimo clima politico internazionale di inizio secolo, poi - evidenziato anche dai continui "incidenti diplomatici" dell'epoca e dalla diffusa consuetudine di inserire in ogni governo europeo la carica di Ministro della Guerra, per altro puntualmente affidata a un generale - fece il resto. Un contesto come quello, d'altra parte, necessitava di continue spese per nuovi armamenti, al cui ricorso, spesso, le stesse banche centrali obbligavano i rispettivi Stati, a garanzia dei prestiti erogati.

La stessa soluzione indicata dal Sistema Bancario Internazionale, quella che consisteva in una guerra in grado di permettere alle nazioni vittoriose di porre rimedio ad una crisi altrimenti irrisolvibile, per le banche centrali si sarebbe tradotta in un doppio profitto: gli interessi derivanti dai prestiti per gli armamenti e quelli poi maturati grazie ai fondi per la successiva ricostruzione delle città, sventrate dalle bombe.

Alla guida di tutto, ancora una volta, l'onnipotente famiglia dei banchieri Rothschild, la cui agenzia londinese aveva realizzato un'importante alleanza con il sovrano inglese Giorgio V a discapito del Kaiser Guglielmo II, tra altro nipote dell'ex sovrano britannico Edoardo VII. Alleanza che, per giunta, da tempo esercitava forte influenza anche sugli Stati Uniti, con la Banca di Inghilterra in grado di influire sull'economia americana tramite i Morgan ed i Rockefeller, veri e propri agenti della Rothschild House di Londra.

Amschel Mayer Rothschild (1744 - 1812)

Fu lui a fondare l'omonima dinastia di banchieri ebrei, collocando i suoi figli maschi in altrettante agenzie istituite nelle più importanti capitali d'Europa.

Inghilterra contro Germania (per motivi coloniali e rivalità sui mari), Germania contro Francia (in virtù del feroce revanscismo nutrito da entrambi i Paesi dai tempi della Guerra Franco-Prussiana). Inghilterra contro Impero Ottomano (per i ricchissimi giacimenti petroliferi in Medio oriente, ancora in mano ai turchi - si veda a tal proposito il saggio Solo per il Petrolio pubblicato su questo stesso sito). 

Per quanto poi attiene alla nostra nazione, Pucciarelli ci ricorda come l'Italia si trovasse letteralmente nelle mani dei Rothschild, dato che, secondo diversi storici, i soldi dei banchieri tedeschi avevano finanziato il suo stesso processo di Unificazione. Ma a completare in modo davvero inquietante questo difficile quadro internazionale Pucciarelli introduce il tema della Russia. Secondo lo studioso, infatti, il progetto di una rivoluzione bolscevica con conseguente regime sovietico atto, prima con Lenin e poi con Stalin, a sopprimere ogni legge di mercato abbattendo la proprietà privata e il libero commercio e vietando la nascita di qualsiasi realtà imprenditoriale, sarebbe stato concepito dalle alte sfere della finanza occidentale proprio al fine di isolare per molti decenni l'ex impero zarista, altrimenti troppo competitivo, sui mercati internazionali, a causa dei prezzi molto bassi in grado di praticare per via della sua bassissima domanda interna di carburanti (in contrasto con i ricchissimi giacimenti petroliferi presenti nel proprio sottosuolo, come nel caso dell'ambitissimo sito di Baku), causata dalla sua forte arretratezza in campo industriale.

Il piano dei Rothschild e del Sistema Bancario internazionale, insomma, per Pucciarelli prevedeva tra gli obiettivi immediati "il crollo del regime zarista, il sequestro del tesoro dei Romanov (conservato nelle casse della Rothschild Bank dopo la messa in mora di Nicola II) e l'eliminazione di un pericoloso concorrente (lo stesso Zar), nella corsa al Petrolio nel Golfo Persico". 

Un piano, insomma, per rastrellare più ricchezze a breve termine e per garantire l'uscita di scena del forte concorrente russo per molti decenni a venire.

Nicola II Romanov,

ultimo Zar di Russia, ucciso dai bolscevichi a Ekaterinburg il 17 luglio 1918

 

In effetti già lo zar Alessandro II aveva contratto debiti con Casa Rothschild per finanziarsi la guerra contro l'Impero Ottomano, nel 1877. L'anno precedente i potenti banchieri, grazie al loro acquisto per conto della Corona inglese della quota egiziana della Società per il Canale di Suez (50% dell'intero pacchetto azionario), avevano creato speciali istituti - poi definiti Accepting Houses -  atti a gestire il mercato delle obbligazioni emesse per Stati debitori (come nel fortunatissimo caso dei 132 miliardi di marchi d'oro, pari a 32 miliardi di dollari, delle spese di guerra al cui risarcimento sarebbe stata condannata la Germania nel 1919). Alessandro II non era però riuscito a saldare il debito, originando così una spirale di indebitamento, che aveva coinvolto anche i suoi successori Alessandro III e Nicola II, dovuta a continui ricorsi ai banchieri tedeschi in cambio del finanziamento di nuovi armamenti e di nuove guerre, come lo sfortunato conflitto contro il Giappone. Ma ad ogni scadenza gli zar risultavano sempre più insolventi, necessitando di nuovi e più ingenti prestiti - a garanzia dei quali il tesoro dei Romanov fu appunto versato nelle casse della Rothschild House - nel contesto di quello che Pucciarelli definisce "il gigantesco tranello di cui sarebbero state vittime lo stesso Zar ed il popolo russo".

Tranello culminato con la Rivoluzione d'Ottobre e la conseguente uscita di scena dell'ingombrante impero Russo, per molti e molti anni, dallo scenario dei mercati internazionali.

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