Watergate: Lo scandalo che coprì lo scandalo.
Pietro Ratto, 26 gennaio 2024
Howard Hughes era un uomo eccentrico. Geniale regista e produttore cinematografico, oltre che ricchissimo uomo d’affari. Un personaggio assolutamente anti convenzionale. Che conciliava (nemmeno tanto bene), la passione per le donne con la misofobia: la paura di entrare a contatto con i germi. Ma che celava qualche segreto, legato proprio alla sua ricchezza.
Sì, perché di soldi Hughes ne faceva un sacco. Coi suoi film da incassi stellari (come Gli angeli dell’inferno e Il mio corpo ti scalderà), con la sua azienda aeronautica Hughes Aircraft, la sua compagnia cinematografica RKO Pictures o la società aerea Trans World Airlines acquisita nel 1939. E se col denaro poteva permettersi belle donne e un tenore di vita lussuoso, con quello stesso denaro poteva anche controllar la politica. Le sue aziende facevano di lui uno dei maggiori appaltatori del Ministero della Difesa americana, per esempio. Una posizione a cui Hughes non intendeva minimamente rinunciare.
Il Presidente Nixon, però, non faceva altro che pensare a lui. Stessa fobia per i microbi, stessa dedizione alle droghe, stessa smania di potere. Nixon pensava a Hughes. Spesso. Non da sempre. Soprattutto dal gennaio 1957, diciamo. Da quando, cioè, l’eccentrico regista aveva prestato al fratello minore, Donald Nixon, 250 mila dollari per salvare il suo Drive-in a Whittier, in California. Il ristorante “Nixon’s” era comunque fallito nel giro di un anno. Ma quel passaggio di denaro aveva messo in serie difficoltà l’allora vicepresidente di Eisenhower. Fino al punto da fargli perdere le elezioni contro John F. Kennedy nel 1960. Perché la notizia di quel prestito, naturalmente, era venuta fuori proprio durante la campagna elettorale. E per Richard Nixon era stata una vera e propria Waterloo.
La salute di Hughes, nel frattempo, aveva cominciato a peggiorare. Quella sua sifilide, contratta in gioventù, gli martellava la testa con pensieri ossessivi e paure. Costringendolo a ritirarsi in una suite all’ultimo piano del Desert Inn di Las Vegas: un intero grattacielo acquistato e opportunamente svuotato da tutti i suoi inquilini, le cui scale il ricco e fobico imprenditore aveva preteso fossero cosparse di antibiotici. Da quell’eremo, senza più metter fuori il naso, controllava il suo impero e non solo. E Nixon lo temeva.
Nel 1968, ormai, Howard Hughes era un uomo malato. Ma continuava a visitare i pensieri di Nixon, eletto Presidente a novembre. D’altra parte, come dimenticare quella sibillina frase che l’eccentrico uomo d’affari usava ripetere al suo braccio destro, Bob Maheu, tutte le volte in cui si presentava qualche difficoltà? “Ricordati sempre Bob - gli diceva - che non c'è persona al mondo ch’io non possa comprare o distruggere”.
Lobbying. Questioni di lobbying, dopotutto. Come sempre. Appena salito al potere, Nixon era stato informato del fatto che il suo consulente finanziario - il banchiere Charles Gregory “Bebe” Rebozo - aveva ricevuto un regalino di centomila dollari in contanti. Da girare affettuosamente al Presidente. Con i migliori saluti di Howard Hughes. Maheu era andato personalmente a consegnar la bustarella a casa Rebozo. Il banchiere l’aveva agguantata furtivo, era scomparso un attimo nella stanza attigua e poi era tornato sorridente, a mani vuote. Missione compiuta, insomma.
Ma Nixon continuava a pensarci. Si chiedeva quanto potessero danneggiarlo, queste attenzioni di Hughes. Danneggiarlo politicamente, s’intende. Era chiaro. Il produttore cinematografico, in cambio, chiedeva trattamenti di favore per le sue compagnie aeree. E per la sua catena di casinò. Ma tutto questo, per Nixon, era pericoloso. Molto pericoloso.
I giornalisti del broadcast della CBS 60minutes, hanno fatto quel che Mark Felt, la gola profonda dei due reporter del Washington Post, suggeriva a proposito dello Scandalo Watergate: seguire i soldi. E i soldi di quella tangente, per lo meno una parte, portano dritti dritti alla villa di Nixon a Key Biscayne. 46 mila dollari, precisamente. Spesi tutti per renderla più bella e lussuosa. Con tanto di campo da golf e tavolo da biliardo.
Nixon, quindi, non ci dormiva la notte. Il ricordo di quei regali lo ossessionava.
Le cose per lui andarono ancor peggio dopo, nel 1971: alle soglie della nuova campagna elettorale. Quando venne a sapere che a capo dello staff del Comitato del candidato democratico McGovern era stato nominato Larry O’Brien.
Apriti cielo. Larry O’Brien, proprio lui! Lobbysta numero uno di Hughes, assunto personalmente dal solito Bob Maheu almeno quattro anni prima. Sapeva, O’Brien, di quella bustarella a Rebozo? Probabilmente sì. E come avrebbe potuto utilizzare quella pericolosissima informazione, ora che lavorava per il nemico? L’interrogativo non abbandonava la mente del Presidente nemmeno un secondo, durante quella terza sfida elettorale della sua vita. Bisognava capire. Farlo seguire. Spiarlo. Soprattutto all’interno del complesso edilizio Watergate, divenuto la sede del Democratic National Committee, la principale organizzazione governativa del Partito Democratico.
Fu questo il motivo di quelle cimici disseminate per gli uffici del DNC al Watergate? Il motivo per cui cinque uomini, il 17 giugno 1972, furono spediti in quei locali dai repubblicani a fotografar documenti riservati per conto del Presidente? Fu questa la ragione dello scandalo che ne seguì e che nel giro di due anni travolse lo stesso Nixon?
Certo: Il Presidente voleva sapere. Capire se O’Brien fosse al corrente di quel brutto affare e intendesse puntar quell’arma contro di lui. Ma questa non era forse l’unica ragione.
Il 30 luglio 1969, il Presidente Nixon aveva fatto un viaggio quanto mai inatteso (1). Era volato improvvisamente a Saigon per incontrare il leader sudvietnamita Van Thieu. La questione era molto delicata, e bisognava parlarne. A quattr’occhi. Dall’autunno precedente, infatti, Nixon aveva capito che in Vietnam la Guerra rischiava di concludersi improvvisamente. Che i due schieramenti stavano per arrivare a un accordo, a Parigi. E non poteva permetterlo. Nella maniera più assoluta. Nel corso della sua campagna elettorale, infatti, aveva promesso ai suoi elettori di risolver quella guerra, così odiata dall’opinione pubblica, una volta salito al potere. E questi invece, con lo zampino di Lyndon Johnson e dell’URSS, stavano facendo pace da soli, senza di lui. Sottraendogli così la principale carta da giocare per sconfiggere il democratico Hubert Humphrey! Per questo motivo Nixon aveva affidato al suo capo staff Haldeman il compito di far pressione su Van Thieu - avvalendosi della collaborazione della corrispondente di guerra e attivista cinese Madame Chennault, presidentessa del Comitato delle Donne Repubblicane per Nixon e vedova di un eroe di guerra con molti contatti importanti in Oriente - per affossare i Trattati di pace facendo leva sull'ambasciatore sudvietnamita Bùi Diễm. Un notevole contributo in questo senso era giunto anche dall’immancabile Henry Kissinger, fino a poco tempo prima segretario del Governatore di New York Nelson Aldrich Rockefeller e poi passato improvvisamente dalla parte di Nixon - nonostante in più occasione lo avesse pubblicamente disprezzato - dopo che Rockefeller (2) aveva perso contro di lui le primarie del Partito Repubblicano. Era stato proprio Kissinger, da Parigi, a informare il futuro presidente dei “pericolosi” passi in avanti che le trattative di pace tra Vietnam del Nord e Vietnam del Sud stavano compiendo. E a indurre lo stesso Nixon a far sapere a Van Thieu, tramite la Chennault, che un accordo ben più vantaggioso lo avrebbe potuto ottenere soltanto bloccando il dialogo in corso e attendendo la sua salita alla Casa Bianca. Van Thieu aveva accettato, e la trattativa si era interrotta.
Naturalmente, però, Nixon non aveva alcuna soluzione in tasca, per quella terribile guerra. E il mondo intero se ne accorse appena divenne Presidente, assistendo impotente all’unica opzione venutagli in mente: l’ennesima raffica di bombardamenti su Vietnam del Nord e Cambogia. Se ne accorse anche Lyndon Johnson, che aveva capito chiaramente come il neo-Presidente avesse boicottato la pace in quelle martoriate zone a proprio esclusivo vantaggio, sacrificando ancora migliaia e migliaia di vittime (3). E se ne accorse lo stesso Van Thieu, diventato subito un individuo pericoloso, potenzialmente pronto a ricattare la nuova amministrazione statunitense. Era quello, dunque, il motivo di quel viaggio improvviso a Saigon? Offrire qualcosa al dittatore sud-vietnamita in cambio del suo silenzio? Guarda caso Van Thieu, nel 1975, si sarebbe ritirato dalla politica travolto da innumerevoli accuse di corruzione e violazione dei diritti umani, potendo però godere della protezione americana. Fino in fondo alla sua vita.
Dunque, tutto chiaro. Nel Watergate, il 17 giugno 1972, quelle spie intrufolatesi negli uffici del Partito democratico dovevano carpire informazioni riservate. Informazioni atte a tutelare Nixon da possibili minacce costituite da un O’Brien informato delle tangenti di Hughes e da un Lyndon Johnson al corrente del suo boicottaggio nei confronti della pace in Vietnam. È così? Sì, forse sì. Ma non è tutto. Quella circostanza - o meglio lo scandalo che ne derivò - doveva servire anche a qualcos’altro. A coprirne un altro, ancor più grave.
Il 24 marzo 1971 scoppiò quella che poteva rivelarsi una vera e propria bomba. Il Washington Post (4) pubblicò infatti un articolo in cui venivano citati più di mille documenti riservati, inviati alle redazioni di svariati quotidiani dal Citizens Committee to Investigate the FBI - un gruppo di attivisti nato all’inizio del 1970 - che comprovavano numerosissime violazioni del Primo Emendamento della Costituzione perpetrate dallo stesso Federal Bureau of Investigation perlomeno dal 1956. Un’operazione chiamata Counter Intelligence Program (COINTELPRO). Che nel mirino aveva le principali organizzazioni “anti-sistema”, colpite da vere e proprie azioni illegali dell’FBI. Comunisti, femministe, pacifisti, ambientalisti e associazioni come Black Power e American Indian Movement. Per decenni, in pratica, la polizia federale era stata incaricata di spiare e contrastare qualsiasi tipo di oppositore, su mandato di tutti i Presidenti americani succedutisi fino a quel momento. Spionaggio e destabilizzazione di ogni forma di dissenso. Altro che Democrazia. I documenti tiravano in ballo le azioni più turpi, da parte dell’FBI. Come le lettere inviate a Martin Luther King che lo invitavano a suicidarsi, o le sue foto in compagnia di svariate donne fatte recapitare alla moglie e ai giornali. O come la pianificazione dell’omicidio del leader dei Black Panther Fred Hampton.
Naturalmente la questione venne insabbiata dai media. E molti giornali si rifiutarono di approfondirla. Fu aperta un’indagine, sì, ma ai danni dei cittadini che avevano compiuto l’effrazione. E tutto finì lì.
E lo scandalo Watergate? Fu un punto di svolta, secondo il filosofo Noam Chomsky che tanto si è interessato al caso. Perché per la prima volta il COINTELPRO fu usato da un Presidente contro il partito rivale. Durante una campagna elettorale, per giunta. Facendo spiare direttamente i propri antagonisti politici.
A questo punto, i mass media americani si trovarono costretti a dover “scegliere” lo scandalo meno ingombrante. Il male minore a cui dar risalto per oscurare il peggiore. Dimostrando così, ancora una volta, di esser succubi del potere, proprio nel momento stesso in cui i due giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, venivano immortalati come autentici paladini della verità.
E non è certo un caso che quel Mark Felt che guidò i due reporter alla “soluzione” dell’affaire Watergate fosse proprio a capo dello stesso Counter Intelligence Program. Depistando in tal modo la stampa, per dirigerla sul “binario giusto”. Una circostanza che, a pensarci, dà i brividi.
L’informazione di sistema, dunque, in quell’estate del 1972 si trovò a “scegliere” tra due scandali, se così si può dire.
E tra COINTELPRO e Watergate, naturalmente “scelse” il secondo.
(1) Cfr. P. Ratto, Quell’inatteso 30 luglio di 51 anni fa, Pandora TV, 30.07.2020, all’indirizzo: https://bit.ly/3SWzsOL
(2) Cfr. P. Ratto, Rockefeller e Warburg. I grandi alleati dei Rothschild, Arianna editrice, Cesena, 2019, pagg. 131-132
(3) A scoprire queste informazioni fu lo storico John Farrel, nel 2017, perlustrando gli archivi della Richard Nixon Presidential Library e scovando gli appunti di Haldeman a riguardo. Si veda a tal proposito anche l’articolo apparso sull’ANSA il 3 gennaio 2017, all’indirizzo: https://bit.ly/3zBZLTA
(4) Cfr. l’articolo che, sullo stesso Washington Post, ricorda i tratti salienti di questa vicenda: T. Jackman, The FBI break-in that exposed J. Edgar Hoover’s misdeeds to be honored with historical marker, 1.09.2021, all’indirizzo: https://wapo.st/3DS3LBC