Mariagrazia De Luca Mariagrazia De Luca

I fatti vadano al diavolo! Il Revisionismo e la promozione della Pace

Harry Elmer Barnes, 2 novembre 2018

(traduzione di Andrea Carancini)


Durante gli ultimi quarant’anni, o giù di lì, il revisionismo è diventato un termine da battaglia. Per i cosiddetti revisionisti, esso significa una ricerca onesta della verità storica e lo sbugiardamento di quei miti ingannevoli che costituiscono una barriera per la pace e la buona volontà delle nazioni. Agli occhi degli anti-revisionisti, questo termine sa di cattiveria, di spirito di vendetta, e di voglia dissacrante di calunniare i benefattori del genere umano.

In realtà, il revisionismo non significa niente di più o di meno che lo sforzo di correggere i giudizi storici alla luce di una quantità di fatti più esauriente, di un clima politico più sereno, e di un atteggiamento più obbiettivo. Tutto questo accade sin dall’epoca in cui Lorenzo Valla (1407-1457) smascherò la falsa “Donazione di Costantino” – che costituiva una delle pietre miliari della rivendicazione papale del potere temporale – quel Lorenzo Valla che in seguito richiamò l’attenzione sui metodi inaffidabili di Tito Livio nel trattare la storia romana antica. In realtà, l’impulso alla revisione storica risale a molto tempo prima del Valla, ed è proseguito nelle epoche successive. Esso è stato utilizzato nella storia americana molto prima che il termine entrasse, in seguito alla Prima Guerra Mondiale, nell’uso comune.

Il revisionismo è stato applicato molto frequentemente ed efficacemente per correggere i giudizi storici sulle guerre perché la verità è sempre la prima vittima della guerra, perché le interferenze e le distorsioni emotive nelle opere storiche in tempo di guerra sono pesanti, e perché sia l’esigenza che l’opportunità di correggere i miti storici sono evidenti soprattutto in relazione alle guerre.

Il revisionismo venne applicato molti anni fa alla Rivoluzione Americana. A cominciare dagli scritti di uomini come George Louis Beer, venne mostrato che la politica commerciale inglese verso le colonie non fu così dura e selvaggia come era stata dipinta da George Bancroft e da altri esponenti dei primi storici ultra-patriottici. Altri ancora dimostrarono che le misure inglesi imposte alle colonie, dopo la fine della guerra con i francesi e con gli indiani, erano compatibili con il sistema costituzionale inglese. Infine, Clarence W. Alvord evidenziò che l’Inghilterra era più preoccupata del destino della Mississippi Valley di quanto lo fosse per i disordini relativi alla Legge sulla Stampa, al Massacro di Boston, e alla Festa del Tè di Boston.

Anche la guerra del 1812 venne sottoposta ad analoghe puntualizzazioni revisioniste. Henry Adams rivelò che Timothy Pickering e i federalisti estremamente ostili alla guerra esercitarono un ruolo decisivo nell’incoraggiare gli inglesi a continuare la loro oppressiva politica commerciale, una politica che aiutò i “falchi” americani a portare in guerra il paese. Essi falsarono la politica commerciale e navale di Jefferson ad un livello quasi proditorio. Più recentemente, Irving Brant, nella sua importante biografia di Madison, ha mostrato che Madison in realtà non venne spinto in guerra contro le sue personali convinzioni da Clay, da Calhoun e dai “falchi”, ma prese la decisione di fare la guerra in base alle sue convinzioni personali.

La Guerra Messicana è stata trattata dai revisionisti in modo specifico. Per molto tempo, gli storici che cercavano di correggere le passioni belliciste del 1846 criticarono Polk e il partito della guerra come dei guerrafondai irresponsabili, spinti dall’ambizione politica, che piombarono senza giustificazioni su un piccolo paese inerme. Poi, nel 1919, arrivò Justin H. Smith il quale, nel suo The War With Mexico, mostrò che da parte di Santa Ana e dei messicani c’erano state arroganza, ostilità e provocazioni in abbondanza.

 

La guerra sbagliata

Mentre il termine “revisionismo” è stato poco usato in relazione allo svolgimento della guerra vera e propria, le cause della Guerra Civile [americana] hanno costituito il campo di una ricerca e di una messa a punto revisioniste molto più estese, anche rispetto a quanto venne fatto poi riguardo alle cause delle due Guerre Mondiali. Questo divenne chiaro nel 1946 grazie alla straordinaria sintesi, fatta dal prof. Howard K. Beale, degli studi revisionisti sull’avvento della Guerra Civile. Il frutto di questi studi eruditi dimostrò che la Guerra Civile, analogamente alla definizione data dal generale Bradley della Guerra di Corea, fu “la guerra sbagliata, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato”. Le teste calde di entrambe le parti portarono alla guerra, quando un giudizioso autocontrollo avrebbe potuto facilmente evitare la catastrofe. Il professor William A. Danning e i suoi studenti della Columbia University applicarono in modo rigoroso il revisionismo al periodo postbellico della Guerra Civile e alle vendicative misure di ricostruzione, pilotate attraverso il Congresso, di Charles Sumner e di Thaddeus Stevens. La loro opinione venne divulgata dal libro The Tragic Era, di Claude Brower.

Gli storici revisionisti affrontarono presto la propaganda riguardante la Guerra Ispano-Americana, che era stata fomentata da Hearst e Pulitzer, e che venne sfruttata nel 1898 dalla fazione favorevole alla guerra presente nel partito repubblicano. James Ford Rhodes dimostrò come McKinley, pur avendo ottenuto il totale assenso degli spagnoli alle sue richieste, nascose al Congresso la loro capitolazione chiedendo la guerra. Ulteriori ricerche hanno rivelato che non vi sono assolutamente prove definitive del fatto che gli spagnoli affondarono la corazzata Maine, e hanno mostrato che Theodore Roosevelt iniziò la guerra in modo decisamente illegale, con un ordine abusivo all’ammiraglio Dewey di attaccare la flotta spagnola a Manila mentre il ministro Long era fuori del suo ufficio. Julius H. Pratt e altri hanno smascherato l’irresponsabilità guerrafondaia dei “falchi” del 1898, “falchi” quali Theodore Roosevelt, Henry Cabot Lodge e Albert J. Beveridge, e hanno individuato la responsabilità primaria dell’ammiraglio Mahan per la filosofia espansionista su cui si fondò l’ascesa dell’imperialismo americano.

Quindi, molto prima che l’Arciduca austriaco venisse assassinato dai congiurati serbi il 28 Giugno del 1914, il revisionismo aveva una storia lunga e significativa ed era stato utilizzato in tutte le guerre importanti in cui gli Stati Uniti erano entrati. Applicato all’estero, alla guerra franco-prussiana, dimostrò che la causa scatenante era da attribuire alla Francia, piuttosto che a Bismarck e ai prussiani. Ma fu la Prima Guerra Mondiale che fece entrare il termine “revisionismo” nell’uso comune. Questo accadde perché molti volevano utilizzare gli studi storici sulle cause della Guerra come base per una revisione del Trattato di Versailles, che era stato redatto in base alla totale accettazione della teoria dell’esclusiva responsabilità austriaco-tedesca per lo scoppio della Guerra Europea all’inizio dell’Agosto del 1914.

A quell’epoca, i nuovi sistemi di comunicazione, il giornalismo di massa e la grande maestria nelle tecniche di propaganda permisero agli antagonisti di eccitare l’opinione pubblica e l’odio di massa come mai in precedenza nella storia delle guerre. Il libro Five Weeks [Cinque settimane], di Jonathan French Scott, rivelò il modo in cui la stampa aveva fomentato gli odi nel Luglio del 1914. L’intensità delle passioni negli Stati Uniti è stata recentemente ricordata in modo notevole da H. C. Peterson in Opponents of War19171918 [Nemici di guerra, 1917-1918]. Come C. Hartley Grathan, il sottoscritto, e altri ancora fecero notare, gli storici si aggregarono alla propaganda con grande zelo e impetuosità. Venne creduto quasi universalmente che la Germania era interamente responsabile non solo dello scoppio della guerra nel 1914 ma anche dell’entrata in guerra dell’America nell’Aprile del 1917. Chiunque osasse dubitare pubblicamente di questo dogma popolare rischiava guai seri, e Eugene Debs venne fatto mettere in prigione dall’uomo che aveva proclamato che la Guerra era fatta per rendere il mondo più sicuro per la democrazia. Il crimine di Debs fu quello di aver detto che la Guerra aveva una motivazione economica, esattamente quello che lo stesso Wilson aveva dichiarato in un discorso il 5 Settembre del 1919.

Non c’è spazio qui per entrare nel merito degli studi revisionisti sulle cause della Prima Guerra Mondiale. Possiamo solo illustrare la situazione citando qualcuno dei miti più notevoli, e il modo in cui vennero liquidati dai revisionisti.

 

Il mito del Consiglio della Corona

L’accusa più devastante portata contro la Germania fu che il Kaiser aveva riunito, il 5 Luglio del 1914, un Consiglio della Corona dei principali funzionari di governo, ambasciatori e finanzieri, rivelando loro che stava per gettare l’Europa in guerra, e dicendo di tenersi pronti per il conflitto. I finanzieri avrebbero chiesto due settimane di proroga, per poter chiedere la restituzione dei prestiti e per vendere le obbligazioni. Il Kaiser accolse la richiesta e se ne andò in vacanza il giorno successivo in una crociera molto pubblicizzata. Questa sarebbe stata concepita per dare all’Inghilterra, alla Francia e alla Russia un falso senso di sicurezza mentre la Germania e l’Austria-Ungheria si sarebbero tenute pronte a balzare su un’Europa impreparata e ignara. La prima formulazione completa di quest’accusa apparve nell’Ambassador Morgenthau’s Story, che venne scritta da un ghostwriter come Burton J. Hendrick, un importante giornalista americano.

Il professor Sidney B. Fay, il principale revisionista americano che si è occupato dello scoppio della guerra nel 1914, riuscì a provare dai documenti disponibili che questa leggenda del Consiglio della Corona era un mito completamente inventato. Alcune delle persone che si riteneva fossero presenti alla riunione del Consiglio non erano a Berlino, all’epoca. Il vero atteggiamento del Kaiser riguardo al 5 Luglio fu totalmente diverso da quello dipinto nella leggenda, e non vi fu nessuna manovra finanziaria, come era stato invece insinuato. Ma passò molto tempo prima che venisse rivelato il modo in cui Morgenthau era venuto a conoscenza di questa storia. Egli era conosciuto per essere un uomo d’onore, e neppure i critici più severi della leggenda lo accusarono di aver deliberatamente inventato e diffuso una menzogna.

Molti anni dopo, Paul Schwarz, che era il segretario particolare dell’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il barone Hans von Wangenheim, rivelò i fatti. Von Wangenheim aveva un’amante a Berlino e, durante i primi giorni della crisi del 1914, ella gli chiese di tornare immediatamente a Berlino per definire con lei certe questioni importanti. Egli accettò e, per nascondere alla moglie la vera ragione del suo viaggio, le disse che il Kaiser lo aveva improvvisamente convocato a Berlino. Al suo ritorno, parlò a sua moglie del fantasioso Consiglio della Corona, che si era inventato. Poco dopo questa storia, con sua moglie al fianco, von Wagenheim incontrò Morgenthau, allora ambasciatore americano a Costantinopoli, in un ricevimento diplomatico. Morgenthau aveva sentito del viaggio di von Wagenheim a Berlino e lo spronò a raccontargli quello che era successo. In quelle circostanze, von Wagenheim poteva solo ripetere la leggenda che aveva raccontato a sua moglie. Fino a che punto l’alcol potè allentare il suo riserbo e quanto Morgenthau e Hendrick poterono amplificare quello che von Wagenheim aveva davvero detto a Morgenthau, non si sa e probabilmente non si saprà mai.

Questa storia fantasiosa, inventata di sana pianta, indica la necessità della storiografia revisionista e dimostra fino a che punto degli eventi gravi e tragici possano dipendere dalle invenzioni più lampanti. Poiché il libro di Morgenthau non apparve prima del 1918, il suo racconto del fittizio Consiglio della Corona ebbe una grande influenza alla fine della guerra sulla propaganda Alleata contro la Germania. Venne utilizzato nella campagna di Lloyd George del 1918, che chiedeva l’impiccagione del Kaiser, e dagli artefici più vendicativi del Trattato di Versailles. E’ sicuramente possibile che senza una propaganda del genere questi ultimi non sarebbero riusciti a inserire nel Trattato la clausola della colpevolezza. Poiché gli storici concordano che fu il Trattato di Versailles a spianare la strada alla Seconda Guerra Mondiale, lo sciagurato alibi di von Wagenheim del Luglio del 1914 può aver avuto una qualche relazione diretta con il sacrificio di milioni di vite e con le astronomiche spese di guerra fatte a partire dal 1939, con la possibilità che la conseguenza ultima potrebbe essere lo sterminio di gran parte del genere umano mediante una guerra nucleare.

Un’altra notizia che venne utilizzata per infiammare l’opinione pubblica contro i tedeschi fu la loro invasione del Belgio. La propaganda Alleata presentò questa cosa come la ragione principale per l’entrata in guerra dell’Inghilterra e come la prova definitiva dell’accusa che i tedeschi non rispettavano il diritto internazionale o i diritti delle piccole nazioni. Gli studiosi revisionisti provarono che [anche] gli inglesi e i francesi avevano preso in considerazione per qualche tempo l’idea di invadere il Belgio nell’eventualità di una guerra europea, e che dei funzionari inglesi avevano viaggiato per il Belgio esaminando attentamente il terreno per valutare tale eventualità. Inoltre, i tedeschi si offrirono di rispettare la neutralità del Belgio in cambio della neutralità inglese rispetto alla Guerra. Infine, John Burns, uno dei due membri del Gabinetto inglese che avevano rassegnato le dimissioni quando l’Inghilterra decise di entrare in guerra nel 1914, mi disse personalmente nell’estate del 1927 che la decisione del Gabinetto in favore della guerra era stata presa prima che venisse detta una sola parola sulla questione belga. L’anno seguente, il Memorandum sulle Dimissioni del famoso John Morley, l’altro membro del Gabinetto che si era dimesso nel 1914 per protesta contro la politica di guerra, confermò pienamente la versione di Burns.

 

I racconti di atrocità

Una terza imputazione fondamentale che produsse odio contro i tedeschi nella Prima Guerra Mondiale fu l’accusa che avevano commesso atrocità contro le popolazioni civili di una brutalità senza paragoni, in particolare in Belgio – in genere vennero accusati di aver mutilato bambini, donne e persone inermi. Si disse che avevano utilizzato i cadaveri dei soldati tedeschi e Alleati per produrre fertilizzanti e sapone, e di essersi comportati in altre circostanze come bestie inumane. Il rinomato pubblicista inglese Lord James Bryce venne indotto a prestare il proprio nome per avvalorare questi racconti di atrocità. Dopo la Guerra, un gran numero di libri vagliarono questi resoconti, in particolare i libri Falsehood in Wartime [Falsità in tempo di guerra] di Sir Arthur Ponsonby, e Atrocity Propaganda di James Morgan Read. La Prima Guerra Mondiale non fu una scampagnata, ma nessuno studioso informato crede più che ci fosse del vero in gran parte delle presunte atrocità, o che i tedeschi furono più colpevoli di altri in fatto di atrocità.

Studiosi e pubblicisti che erano stati ridotti al silenzio durante la guerra cercarono presto di alleggerirsi la coscienza e di dire le cose come stavano, dopo la fine delle ostilità. In realtà, Francis Neilson anticipò molte basilari conclusioni revisioniste nel suo How Diplomats Make War [Come i diplomatici fanno la guerra], che venne pubblicato nel 1915 e che può essere considerato come il primo importante libro revisionista sulle cause della Prima Guerra Mondiale. Il How the War Came [Come è arrivata la guerra] di Lord Loreburn, un aspro atto di accusa contro i diplomatici inglesi, venne pubblicato nello stesso periodo in cui veniva redatto il Trattato di Versailles.

Il primo studioso americano che sfidò la propaganda di guerra fu il professore Sidney B. Fay, dello Smith College, che pubblicò una serie di tre importanti articoli sulla American Historical Review, a cominciare dal Luglio del 1920. Furono questi articoli che suscitarono all’inizio il mio interesse per i fatti in questione. Durante la Guerra, avevo accettato la propaganda; in realtà, ne avevo scritto un po’ anch’io, sia pure di malavoglia. Mentre scrivevo, tra il 1921 e il 1924, alcune recensioni e dei brevi articoli che affrontavano le vere cause della Guerra, iniziai ad essere totalmente coinvolto nella battaglia revisionista quando Herbert Croly, del New Republic, mi spinse a recensire dettagliatamente, nel Marzo del 1924, il libro del professor Charles Downer Hazen, Europe Since 1815 [L’Europa a partire dal 1815]. Questa recensione suscitò una tale polemica che George W. Ochsoakes, direttore del New York Times Current History Magazine, mi spinse a esporre una sintesi delle conclusioni revisioniste sul numero di Maggio del 1924. Fu davvero questo a lanciare la battaglia revisionista negli Stati Uniti.

Anche le più grandi case editrici e i migliori periodici cercarono vogliosamente del materiale revisionista da pubblicare. Le Origins of the World War, del professor Fay, le Roots and Causes of the Wars [Le radici e le cause delle guerre] di J. S. Ewart, e il mio Genesis of the World War, furono i principali libri revisionisti pubblicati nel 1924 negli Stati Uniti da autori americani. I revisionisti americani trovarono degli alleati in Europa: Georges Demartial, Alfred Fabre-Luce, e altri, in Francia; Freidrich Stieve, Maximilian Montgelas, Alfred von Wegerer, Hermann Lutz, e altri, in Germania; e G. P. Gooch, Raymond Beazley, e G. Lowes Dickinson, in Inghilterra. Partendo dalle cause della guerra in Europa nel 1914, altri studiosi, in particolare Charles S. Tansill, Walter Millis, e C. Hartley Grattan, dissero la verità sull’entrata in guerra degli Stati Uniti. Mauritz Hallgren produsse il definitivo atto di accusa contro la diplomazia interventista americana, da Wilson a Roosevelt, nel suo A Tragic Fallacy [Un tragico errore].

All’inizio, la presa di posizione dei revisionisti fu alquanto rischiosa. Il professor Fay non fu in pericolo, perché scrisse su una rivista scientifica che non era letta dal grande pubblico. Ma quando incominciai ad affrontare l’argomento su dei media letti almeno dallo strato intellettuale superiore dell’”uomo della strada”, fu un altro discorso. Ricordo di aver tenuto una conferenza a Trenton, nel New Jersey, agli inizi del Revisionismo, e di essere stato minacciato fisicamente da alcuni fanatici che erano presenti. Essi vennero però intimiditi e dissuasi dal responsabile della serata, un ex governatore del New Jersey molto rispettato. Anche nell’autunno del 1924, un uditorio abbastanza intellettuale a Amherst, nel Massachusetts, divenne turbolento e si calmò solo quando Ray Stannard Baker si dichiarò fondamentalmente d’accordo con le mie osservazioni.

A poco a poco, l’umore del paese cambiò ma all’inizio esso era animato più dal risentimento contro i nostri ex alleati che dall’impatto degli scritti revisionisti. Furono le voci sullo “Zio Shylock” del 1924-27 che cambiarono le carte in tavola. Questa indicazione dell’implicita ingratitudine degli Alleati per il soccorso americano nella Guerra, rese l’opinione pubblica desiderosa di leggere e accettare la verità relativa alle cause, alla condotta, ai meriti, e ai risultati della Prima Guerra Mondiale. Inoltre, con il passare del tempo, le forti emozioni del periodo bellico si raffreddarono. Alla metà degli anni ’30, quando apparve il libro Road to War [La strada verso la guerra] di Walter Millis, venne accolto favorevolmente da una gran massa di lettori americani e fu uno dei libri di maggior successo del decennio. Il revisionismo l’aveva finalmente spuntata.

E’ sicuramente interessante che, nel quadro della violenta ostilità contro il revisionismo che si è manifestata dopo il 1945, sia iniziato uno sforzo preciso, da parte di certi storici e giornalisti, di screditare la letteratura revisionista degli anni 1920-1939, e di ritornare ai miti del 1914-1920. Questa tendenza è stata sfidata e confutata in modo devastante dall’eminente studioso revisionista della Prima Guerra Mondiale Hermann Lutz nel suo libro sull’unità franco-tedesca (1957), che tiene conto dei materiali più recenti sulla questione.

 

Genesi del termine

Come abbiamo già spiegato brevemente, la letteratura storica che cercò di esporre la verità relativa alle cause della Prima Guerra Mondiale, venne conosciuta con il nome di revisionismo. Avvenne questo perché il Trattato di Versailles era stato redatto in base alla tesi dell’esclusiva responsabilità austro-tedesca per l’avvento della guerra nel 1914. Alla metà degli anni ’20, gli studiosi avevano accertato il fatto che la Russia, la Francia e la Serbia erano più responsabili della Germania e dell’Austria. Quindi, sia dal punto di vista logico che fattuale-materiale, il Trattato doveva essere rivisto secondo i fatti portati alla luce. Non accadde nulla del genere, e nel 1933 entrò in scena Hitler per attuare la revisione del Trattato con la forza, con il risultato di far scoppiare un’altra, più devastante, guerra mondiale nel 1939.

Poiché il revisionismo, a prescindere dal suo contributo alla causa della verità storica, non riuscì a evitare la Seconda Guerra Mondiale, molti hanno guardato allo sforzo di accertare la verità sulle responsabilità della guerra come totalmente inutile dal punto di vista pratico. Ma un verdetto del genere non è definitivo. Se la situazione generale, politica ed economica, in Europa, dal 1920 in poi, non fosse stata così pesante nello scatenare le passioni e nell’inibire il raziocinio, è probabile che il verdetto dei revisionisti sul 1914 avrebbe portato a dei cambiamenti nel Diktat di Versailles. Negli Stati Uniti, meno afflitti da ondate emotive, il revisionismo esercitò un’influenza notevole, tutta a vantaggio della pace. Fu in parte responsabile dei freni imposti alla Francia al tempo dell’invasione della Ruhr, volti ad alleviare il duro sistema dei
risarcimenti, come pure dell’indagine Nye sull’industria degli armamenti e sulle sue nefaste ramificazioni, e della nostra legislazione a favore della neutralità.

Il fatto che, nonostante i molti mesi di potente e irresponsabile propaganda a favore del nostro intervento nella Seconda Guerra Mondiale, oltre l’80% del popolo americano fosse contrario all’intervento ancora alla vigilia di Pearl Harbor, dimostra che l’impatto del revisionismo sull’opinione pubblica americana era stato profondo, costante e salutare. Se il presidente Roosevelt non fosse riuscito a istigare i giapponesi ad attaccare Pearl Harbor, la campagna revisionista della fine degli anni ’20 avrebbe potuto salvare gli Stati Uniti dalle tragedie dei primi anni ’40 e dalle calamità – che potrebbero rivelarsi anche più grandi – che sono emerse dal nostro intervento nella Seconda Guerra Mondiale e che ancora permangono sopra le nostre teste.

 

Il ruolo dei mass media

Molto prima che la Seconda Guerra Mondiale scoppiasse all’inizio del Settembre del 1939 era chiaro che, quando sarebbe arrivata, avrebbe presentato per i revisionisti un problema anche più drammatico e formidabile di quanto non era stato per la Prima Guerra Mondiale. La scena era pronta per una quantità e una varietà di odi mistificatori molto più forti degli anni precedenti il 1914, e la capacità di eccitare le passioni e di diffondere leggende si era nel frattempo notevolmente accresciuta. I molti progressi tecnici del giornalismo, le redazioni dei giornali più nutrite, in particolare di “esperti” di politica estera, e la maggiore importanza data agli affari esteri, tutto rendeva certo che la stampa avrebbe esercitato un ruolo molto più efficace nell’influenzare le masse, rispetto al periodo 1914-18. In realtà, anche nel 1914, come Jonathan F. Scott e Oron J. Hale hanno evidenziato, la stampa fu forse una causa della guerra potente quanto la follia dei capi di stato e dei loro diplomatici. Nel 1939 e da allora in poi, era destinata a esercitare un’influenza anche più potente e malefica.

Le tecniche della propaganda si erano enormemente raffinate ed erano pressoché totalmente prive di qualunque remora morale. I propagandisti, dal 1939 in poi, avevano a loro disposizione non solo quanto era stato appreso durante la Prima Guerra Mondiale – in fatto di menzogne rivolte all’opinione pubblica – ma anche i grandi progressi fatti nelle tecniche di disinformazione a scopo sia civile che militare. Un importante funzionario inglese di intelligence come Sidney Rogerson scrisse persino un libro, pubblicato nel 1938, in cui disse ai suoi compatrioti come trattare gli americani nel caso di una Seconda Guerra Mondiale, avvertendoli che non potevano semplicemente utilizzare i metodi che Sir Gilbert Parker e altri avevano impiegato con tanto successo dal 1914 al 1918 per abbindolare l’opinione pubblica americana. Egli suggerì le nuove leggende e la strategia necessarie. L’anno successivo iniziarono a venire applicate.

Nel 1939 c’era un cumulo di odi arretrati molto più grande a disposizione dei propagandisti. Ma per quanto il Kaiser venisse sbeffeggiato e insultato durante la guerra, era stato tenuto invece in grande considerazione prima del Luglio del 1914. Nel 1913, all’epoca del 25° anniversario della sua ascesa al trono, degli eminenti americani come Theodore Roosevelt, Nicholas Murray Butler e l’ex presidente Taft si prodigarono di elogi nei confronti del Kaiser. Butler disse che se fosse nato negli Stati Uniti, sarebbe arrivato alla casa Bianca senza la formalità di un’elezione, e Taft dichiarò che il Kaiser era il singolo individuo più autorevole a favore della pace del mondo intero. Nel 1939 non c’erano analoghi sentimenti di affetto e di ammirazione nei confronti di Hitler e di Mussolini. Butler aveva, è vero, definito Mussolini il più grande statista del 20° secolo, ma questo fu negli anni ’20. La propaganda inglese contro il Duce durante l’incursione in Etiopia aveva posto fine all’ammirazione della maggior parte degli americani nei suoi confronti. L’odio accumulato nei paesi democratici contro Hitler nel 1939 aveva già superato quello nutrito contro ogni altra figura della storia moderna. I conservatori americani e inglesi odiavano Stalin e i comunisti, e questi ultimi vennero in seguito accomunati alla Germania e a Hitler dopo il Patto russo-tedesco del 1939. Questo odio contro i russi arrivò al calor bianco quando invasero la Polonia orientale nell’autunno del 1939, e la Finlandia nell’inverno successivo. Le differenze razziali e lo spauracchio del colore della pelle resero facile odiare i giapponesi e, dopo l’attacco a Pearl Harbor – a proposito del quale i fatti veri rimasero tabù fino a dopo la Guerra – l’odio per i giapponesi crebbe così tanto che anche importanti ufficiali della Marina americana, come l’ammiraglio Halsey, potevano riferirsi ai giapponesi come a degli antropoidi letteralmente subumani.

Con queste premesse, era ovvio che gli odi potessero imperversare senza “limiti né confini”, per usare l’espressione di Wilson, e che le menzogne potessero nascere e prosperare con voluttà senza nessuno sforzo di controllare i fatti, ammesso che ve ne fossero. Ogni paese importante costituì la sua agenzia ufficiale per ingannare l’opinione pubblica per tutta la durata [della guerra] e la sostenne generosamente con fondi quasi illimitati. Era più che evidente che sarebbe stato un compito sovrumano da parte dei revisionisti lottare con tutto ciò, una volta iniziate le ostilità.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, i russi avevano intrapreso i primi passi importanti per inaugurare il revisionismo. I comunisti volevano screditare il regime zarista e accollargli la responsabilità della prima Guerra Mondiale, e così pubblicarono i voluminosi documenti contenenti gli accordi segreti franco-russi dal 1892 al 1914. Questi, insieme a ulteriore materiale francese, dimostrarono che per lo scoppio della guerra nel 1914 erano responsabili principalmente Francia, Russia e Serbia. I documenti russi vennero seguiti dalla pubblicazione dagli archivi di altri paesi, e ho già menzionato che molti importanti libri revisionisti apparvero nei paesi europei.

Dopo la seconda Guerra Mondiale, la stragrande maggioranza degli scritti revisionisti sono stati prodotti negli Stati Uniti. I russi non avevano nessuno Zar da incolpare nel 1945. Stalin voleva che rimanesse intatta la leggenda che era rimasto sorpreso e tradito da Hitler con l’attacco nazista del 22 Giugno del 1941. L’Inghilterra vedeva il suo impero sgretolarsi, e i leader inglesi erano consapevoli della responsabilità primaria dell’Inghilterra per lo scoppio della guerra nel 1939; quindi venne fatto ogni sforzo per scoraggiare in Inghilterra gli scritti revisionisti. La Francia era dilaniata dagli odi molto più che all’epoca della Rivoluzione Francese, e oltre 100.000 francesi vennero massacrati in maniera legale o quasi-legale durante la “liberazione”. Solo il famoso giornalista Sidney Huddlestone, un inglese espatriato residente in Francia, il rinomato pubblicista Alfred Fabre-Luce e l’implacabile Jacques Benoist-Mechin produssero in Francia qualcosa di revisionista. Germania e Italia, per anni sotto il tallone dei conquistatori, non erano in grado di promuovere studi revisionisti. Anche quando questi paesi furono liberi, l’odio per Hitler e per Mussolini che perdurava dopo la guerra scoraggiò il lavoro revisionista. Solo Hans Grimm e Ernst von Salomon produssero in Germania qualcosa che somigliava al revisionismo, e le loro opere non erano dedicate alla storia diplomatica. Il solo libro apparso in Germania che può essere considerato letteralmente come un volume revisionista è la recente opera di Fritz Hesse Hitler e gli inglesi. Questo libro sviluppa la tesi già conosciuta che Hitler perse la guerra soprattutto a causa della sua anglomania e della sua riluttanza a usare tutta la sua forza militare contro gli inglesi quando la vittoria era ancora possibile. In Italia, l’eminente studioso – e storico della diplomazia – Luigi Villari, scrisse un libro importante sulla politica estera di Mussolini, che è una delle opere fondamentali del revisionismo dopo la seconda Guerra Mondiale, ma dovette pubblicare il libro negli Stati Uniti. La stessa cosa accadde al suo libro sulla “liberazione” dell’Italia dopo il 1943.

 

Il blackout storico

Negli Stati Uniti, il revisionismo ebbe una partenza precoce e un certo sviluppo, per quanto riguarda la produzione di libri importanti. Ma questa relativa profusione di letteratura revisionista fu sovrastata dagli ostacoli quasi insuperabili incontrati nel far conoscere – e far leggere – tale letteratura al pubblico. In altre parole, una quantità senza precedenti di libri revisionisti fu accompagnata da un “blackout storico” ancora più formidabile, che riuscì a occultare alla grande ai lettori queste opere.

Le ragioni di una produttività relativamente maggiore, da parte dei revisionisti, negli Stati Uniti dopo il 1945 non sono difficili da scoprire. C’erano stati oltre quattro anni di dibattito sulla situazione europea e mondiale, tra il discorso allo Chicago Bridge del presidente Roosevelt dell’Ottobre del 1937 e l’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 Dicembre del 1941. La maggior parte degli uomini che scrissero libri revisionisti dopo il 1945 avevano preso parte a questo grande dibattito, avevano raccolto materiale sulle questioni relative, e conoscevano bene le cose vere e le menzogne raccontate dagli interventisti. Erano ansiosi [i revisionisti] di uscire allo scoperto con libri che sostenessero la loro vecchia posizione non appena la fine delle ostilità lo rendesse possibile. Pearl Harbor li aveva ridotti al silenzio solo per la durata della guerra. Inoltre, gli Stati Uniti erano rimasti incolumi dalle devastazioni della guerra, erano in buone condizioni economiche al momento del VJ Day [il giorno della vittoria] e non avevano perso nessun possedimento coloniale. Quattro anni di animato dibattito prima di Pearl Harbor e quasi quattro anni di animose menzogne e di odi dopo quella data avevano raffreddato almeno in parte l’attitudine all’odio degli americani in quel periodo, rispetto alla situazione esistente in Europa e in Asia. Vi fu almeno un piccolo e breve momento di sollievo, fino a quando gli odi non vennero ravvivati quando Truman inaugurò la Guerra Fredda nel 1947.

 

Alcuni libri revisionisti

Abbiamo lo spazio per menzionare solo i risultati – notevoli – conseguiti dai revisionisti negli Stati Uniti. Il libro As We Go Marching [Mentre marciamo] di John T. Flynn venne pubblicato nel 1944, i suoi opuscoli pionieristici su Pearl Harbor nel 1944 e nel 1945, e il suo The Roosevelt Myth [Il mito di Roosevelt] nel 1948. Il Pearl Harbor di George Morgenstern apparve nel 1947; i due volumi di Charles Augustin Beard sulla politica estera di Roosevelt uscirono nel 1946 e nel 1948; e il libro Mirror for AmericansJapan [Uno specchio per gli americani: il Giappone] uscì nel 1948. L’America’s Second Crusade [La seconda crociata americana] di William Henry Chamberlin venne pubblicato nel 1950; il Design for War [Il piano per la guerra] di Fredric R Sanborn uscì dai torchi nel 1951; il Back Door to War [La porta di servizio verso la guerra] di Charles C. Tansill fece la sua apparizione nel 1952; l’opera collettanea, Perpetual War for Perpetual Peace [La guerra permanente per la pace permanente] che venne pubblicata a mia cura, e che presenta la migliore antologia delle conclusioni revisioniste sulla seconda Guerra Mondiale, uscì nell’estate del 1953; e il Secretary Stimson [Il Ministro Stimson] di Richard N. Current venne pubblicato nel 1954. The Final Secret of Pearl Harbor, dell’ammiraglio R. A. Theobald, apparve nel 1954; il The Myth of the Good and Bad Nations [Il mito delle nazioni buone e cattive] di Rene A. Wormser uscì lo stesso anno; la Admiral’s Kimmel’s Story, dell’Ammiraglio H. E. Kimmel venne pubblicata nel 1955; il libro Inside the State Department [Dentro il Dipartimento di Stato] di Bryton Barron venne pubblicato nel 1956; The Enemy at His Back [Con l’appoggio del nemico] di Elizabeth C. Brown venne pubblicato nel 1957.

Oltre a questi libri scritti da revisionisti americani, c’è uno straordinario elenco di volumi scritti da europei, che dovevano confrontarsi in patria con un blackout storico anche più soffocante, nonché assicurarsi degli editori rispettabili negli Stati Uniti. Tali furono i libri di Sisley Huddlestone, come Popular Diplomacy and War [La diplomazia di successo e la guerra], e FranceThe Tragic Years [Francia: gli anni tragici]; la critica sferzante ai processi sui crimini di guerra da parte di Lord Hankey e di Montgomery Belgion; il notevole libro di F. J. P. Veale, Advance to Barbarism [Avanzata verso la barbarie], che criticò sia i barbari bombardamenti a saturazione contro civili che i processi sui crimini di guerra; lo smascheramento devastante della germanofobia da parte di Russell Grenfell nel suo Unconditional Hatred [Odio incondizionato]; il brillante studio biografico di Emrys Hughes su Winston Churchill; e i volumi di Villari sulla politica estera di Mussolini e la liberazione d’Italia da parte degli Alleati. Vi fu un certo numero di altri libri ai margini del revisionismo vero e proprio, tra i quali The High Cost of Vengeance [Il prezzo alto della vendetta] di Freda Utley – che parla della follia e della barbarie degli Alleati in Germania dopo il VE Day – è uno dei più notevoli e rappresentativi. Insieme ad esso, possono essere menzionati libri come Conqueror’s Peace [La pace del conquistatore] di Andy Rooney e Bud Hutton, And Call it Peace [E la chiamano pace] di Marshall Knappen, They Thought They Were Free [Pensavano di essere liberi] di Milton Mayer, e American Military Government in Germany di Harold Zink.

 

Quello che sappiamo ora

Non solo vennero pubblicati negli Stati Uniti dal 1945 in poi molti più libri revisionisti formidabili che nell’analogo periodo dopo il 1918, ma i fatti rivelati da queste recenti ricerche revisioniste furono molto più sensazionali di quelli prodotti dagli studiosi revisionisti dopo la prima Guerra Mondiale. Dal 1937 in poi, Stalin aveva lavorato duro per una guerra di logoramento e di distruzione reciproca tra i paesi capitalisti – tra i paesi nazisti e fascisti e quelli democratici – tanto quanto fecero Sazonov e Izvolski nel 1914 per scatenare una guerra franco-russo-inglese contro la Germania e l’Austria. Hitler, lungi dallo sferrare in modo precipitoso una guerra aggressiva contro la Polonia dando seguito a richieste brutali e irragionevoli, fece uno sforzo molto più grande per evitare la guerra durante la crisi dell’Agosto del 1939 di quanto aveva fatto il Kaiser durante la crisi del Luglio del 1914. E le richieste di Hitler alla Polonia furono le più ragionevoli da lui fatte ad un paese straniero per tutta la durata del suo regime. Esse erano molto più concilianti persino di quanto Streseman e la Repubblica di Weimar erano stati disposti a prendere in considerazione. La Polonia fu molto più irragionevole e intransigente nel 1938-39 di quanto lo era stata la Serbia nel 1914. Mussolini cercò nel 1939 di dissuadere Hitler dall’entrare in guerra, e fece ripetuti sforzi per convocare delle conferenze di pace dopo che la guerra era iniziata. Lungi dal dare alla Francia “una pugnalata nella schiena” nel Giugno del 1940, fu virtualmente trascinato in guerra dagli atti ostili di strangolamento economico da parte dell’Inghilterra. La Francia era restia a entrare in guerra nel 1939, e solo le pressioni estreme del Foreign Office inglese sollecitarono Bonnet e Daladier ad aderire in modo riluttante il 2-3 Settembre del 1939 alla bellicosa politica inglese.

Mentre nel 1914 la responsabilità inglese per la prima Guerra Mondiale si riassunse soprattutto nella debolezza e nella doppiezza di Sir Edward Grey – una responsabilità più in negativo che in positivo – gli inglesi furono i responsabili quasi esclusivi sia dello scoppio delle ostilità fra tedeschi e polacchi che della Guerra in Europa agli inizi di Settembre del 1939. Lord Halifax, il ministro degli esteri inglese, e Sir Howard Kennard, l’ambasciatore inglese a Varsavia, furono anche più responsabili della Guerra in Europa del 1939 di quanto lo furono Sazonov, Izvolski e Poincare per quella del 1914. Il discorso di Chamberlain davanti al parlamento la notte del 2 Settembre del 1939 fu una falsificazione altrettanto menzognera della posizione tedesca di quanto lo era stato il discorso parlamentare di Sir Edward Grey il 3 Agosto del 1914.

 

La tesi contro Roosevelt

Come per l’entrata in guerra dell’America nella seconda Guerra Mondiale, la tesi contro il Presidente Roosevelt è molto più impressionante e compromettente di quella contro Woodrow Wilson, il quale, dopo l’Agosto del 1914, mantenne almeno qualche parvenza di neutralità per un certo periodo. Roosevelt “fece entrare in guerra gli Stati Uniti con le menzogne”. Si spinse tanto lontano da arrischiare azioni illegali, quali far scortare navi che trasportavano materiale bellico, per istigare la Germania e l’Italia a entrare in guerra contro gli Stati Uniti. Non essendovi riuscito, passò al tentativo, coronato da successo, di entrare in guerra dalla porta di servizio costituita dal Giappone. Respinse le ripetute e sincere proposte dei giapponesi, che anche secondo Hull salvaguardavano tutti gli interessi vitali dagli Stati Uniti in Estremo Oriente; con lo strangolamento economico dell’estate del 1941 costrinse i giapponesi ad attaccare Pearl Harbor; fece dei passi per impedire che i comandanti di Pearl Harbor – il Generale Short e l’Ammiraglio Kimmel – avessero a disposizione degli apparecchi di decifrazione per scoprire un attacco giapponese; impedì a Short e a Kimmel di ricevere i messaggi giapponesi decifrati che Washington aveva intercettato e che indicavano che la guerra poteva arrivare in qualsiasi momento, e ordinò al Generale Marshall e all’Ammiraglio Stark di non mandare nessun avvertimento a Short e a Kimmel prima delle ore 12 del 7 Dicembre, quando Roosevelt sapeva che ogni avvertimento sarebbe giunto troppo tardi ad evitare l’attacco giapponese delle ore 13, ora di Washington.

Roosevelt ha anche una grande responsabilità, sia diretta che indiretta, per lo scoppio della guerra in Europa. Iniziò a fare pressioni sulla Francia affinché tenesse testa a Hitler già durante la rioccupazione tedesca della Renania, nel Marzo del 1936, alcuni mesi prima di tenere i suoi discorsi fortemente isolazionisti nella campagna [presidenziale] del 1936. Queste pressioni sulla Francia, e anche sull’Inghilterra, continuarono fino all’avvento della guerra, nel Settembre del 1939. Queste pressioni acquistarono mole e vigore dopo il Discorso della Quarantena dell’Ottobre del 1937. Mentre si avvicinava la crisi, tra Monaco e lo scoppio della guerra, Roosevelt fece pressioni sui polacchi affinché respingessero ogni richiesta della Germania, e spronò gli inglesi e i francesi a sostenere i polacchi in modo incondizionato. Dagli archivi sequestrati ai polacchi e ai francesi, i tedeschi raccolsero non meno di cinque volumi di materiale consistente quasi esclusivamente di pressioni bellicose di Roosevelt sui paesi europei, soprattutto Francia e Polonia. Gli Alleati in seguito se ne impadronirono. Solo una piccola parte di essi venne pubblicata, in particolare quella sequestrata dai tedeschi in Polonia nel 1939, e pubblicata come Libro Bianco Tedesco. E’ molto probabile che il materiale riguardante le pressioni di Roosevelt sull’Inghilterra possa ammontare a più di cinque volumi. Non vi è nessuna certezza che l’Inghilterra sarebbe entrata in guerra nel Settembre del 1939, se non fosse stato per l’incoraggiamento di Roosevelt e per le sue assicurazioni che, in caso di guerra, gli Stati Uniti vi sarebbero entrati a fianco dell’Inghilterra non appena egli fosse riuscito a convertire l’opinione pubblica americana in favore dell’intervento. Ma quando la crisi divenne acuta dopo il 23 Agosto del 1939, Roosevelt inviò numerosi messaggi, a scopo propagandistico, in cui spronava i suoi interlocutori a evitare la guerra per mezzo dei negoziati.

Nonostante la voluminosa letteratura revisionista apparsa dopo il 1945 – e il suo contenuto sensazionale – non c’è ancora praticamente nessuna conoscenza da parte dell’opinione pubblica, a circa 13 anni di distanza dal V4 Day, dei fatti portati alla luce dai revisionisti. L’”uomo della strada” è propenso oggi ad accettare la leggenda del “Giorno dell’Infamia” di Roosevelt esattamente come lo era l’8 Dicembre del 1945. Un membro di un dipartimento di studi storici di un importante paese orientale mi ha scritto di recente di non aver mai sentito parlare di correnti revisioniste relative alla seconda Guerra Mondiale, fino a quando non lesse il mio articolo sulla rivista Modern Age della primavera del 1958. Nel 1928, la maggior parte degli uomini di cultura americani avevano una passabile conoscenza dei fatti riguardanti l’avvento della guerra nel 1914 e sull’entrata in guerra degli americani nel 1917. Quali sono le ragioni dello strano contrasto, nel progresso delle conoscenze, tra il periodo posteriore al 1918 e quello posteriore al 1945? Limiteremo il nostro esame delle ragioni di questa mancanza di conoscenze agli Stati Uniti.

Una delle ragioni principali del perché il revisionismo ha fatto pochi progressi, dal 1945 in poi, nell’attrarre l’attenzione del pubblico è che il paese non ha mai avuto il tempo di tirare il fiato dopo la guerra. Abbiamo fatto notare in precedenza che qui, dopo il 1945, la situazione non era così tesa come in Europa e in Giappone, ma era comunque molto più tesa di quanto non fosse negli anni ’20. Già nella campagna congressuale ed elettorale del 1918 vi fu una spaccatura nello schieramento politico favorevole alla guerra. Nella campagna del 1920, erano cominciate le disillusioni sulla guerra, e cominciò a farsi valere una tendenza all’isolamento rispetto ai conflitti europei. Gli Stati Uniti si rifiutarono di firmare il Trattato di Versailles, o di entrare nella Lega delle Nazioni. Dopo il 1918 vi fu un periodo di calma di circa 20 anni. Fino al 1941, la stragrande maggioranza del popolo americano voleva rimanere fuori dalla Guerra Europea, e Roosevelt ebbe grandi difficoltà a sbarazzarsi della legge sulla leva, varata in tempo di pace, e a ottenere la revoca della legislazione sulla neutralità.

Niente di tutto questo successe dopo il 1945. Nel Marzo del 1946, Winston Churchill proclamò la Guerra Fredda nel suo discorso a Fulton, in Missouri, tenuto con la benedizione del presidente Truman, e l’anno dopo Truman diede effettivamente inizio alla Guerra Fredda. Questa portò, nel 1950, allo scoppio di una guerra “calda” in Corea. La tecnica orwelliana di fondare il potere politico, e una fasulla prosperità economica, sulla guerra fredda è entrata in auge nel 1950, per poi godere di un potere illimitato sull’opinione pubblica. Una guerra calda procura emozioni in abbondanza, per quanto pericolose e maldstre, ma una guerra fredda deve essere costruita con la propaganda e la mitologia, e si deve basare su un’agitazione artificiale ottenuta con una propaganda pianificata. Le torture del romanzo 1984, per come vengono somministrate dal “Ministero dell’Amore” non si sono però dimostrate necessarie negli Stati Uniti. L’opinione pubblica americana si è dimostrata più sensibile al lavaggio del cervello mediante propaganda di quanto Orwell potesse immaginare, per quanto egli stesso fosse un esperto di propaganda della BBC. Il “bispensiero” orwelliano ha permesso alle Amministrazioni Truman e Eisenhower di varare e di rafforzare politiche reciprocamente contraddittorie, e la tecnica “anticrimine” del sistema semantico orwelliano impedisce all’opinione pubblica, e a molti dei suoi leader, di elaborare qualsiasi programma o proclama. Una politica di guerra permanente per una pace permanente non appare irragionevole o illogica all’opinione pubblica americana. Così, finora, la propaganda portata avanti dal nostro “Ministero della Verità”, con il sostegno quasi unanime della nostra stampa, è stata sufficiente a conservare alla Guerra Fredda il sostegno popolare.

E’ ovvio che un’opinione pubblica così manipolata ed eccitata non si preoccuperà seriamente dei fatti e degli scritti volti a screditare la guerra e a fornire una base solida per una pace effettiva. Sarebbe come aspettarsi che gli sceicchi del deserto si concentrino su dei libri dedicati alla pallanuoto o alle corse dei motoscafi. L’opinione pubblica è diventata quasi impenetrabile a queste questioni. Alla metà degli anni ’20, il fatto che gli Alleati schernissero lo Zio Sam come “Zio Shylock” per la miseria di 12 miliardi di dollari di debiti di guerra rese gli americani così furiosi da essere desiderosi di ascoltare le conclusioni dei revisionisti. Alla metà degli anni ’50, si ebbero gesti così apertamente offensivi e ingrati come “Yanks Go Home”, dopo che gli Stati Uniti avevano speso decine di migliaia di vite e 65 miliardi di dollari di aiuti all’estero, e l’opinione pubblica sembrava approvare. Deputati come John Taber, che per anni aveva cercato di bocciare il maggior numero possibile di stanziamenti volti a creare una vita migliore qui da noi, proclamò che gli aiuti all’estero erano così importanti da trascendere i criteri di moderazione, parsimonia ed economia che avevano guidato così a lungo l’utilizzo degli stanziamenti all’interno dei nostri confini.

 

I terribili anni Cinquanta

Un’altra spiegazione dell’ostilità o dell’indifferenza dell’opinione pubblica verso il revisionismo a partire dal 1945 va rintracciata nell’atmosfera intellettuale nettamente diversa degli anni ’20 rispetto a quella del periodo posteriore al 1945. Le condizioni negli anni ’20 e all’inizio degli anni ’30 furono le più propizie alla formazione di un pensiero indipendente e impavido rispetto a quelle di ogni altro decennio della storia americana moderna. Questo fu il periodo di Mencken e di Nathan, che arrivarono all’altezza della popolarità di un H. G. Wells. Era un periodo in cui il Mind in the Making [La mente in via di formazione] di James Harvey Robinson poteva diventare un bestseller, e Thorstein Veblen era il più rinomato economista americano. Dal 1945, siamo entrati in un periodo di unanimismo intellettuale senza confronti, dai tempi del massimo potere e della massima unità della Chiesa Cattolica al culmine del medioevo. Tra le pressioni esercitate dal regime orwelliano della guerra fredda, e quelle egualmente potenti del mondo civile o commerciale, l’individualità e l’indipendenza intellettuale sono quasi scomparse. In quest’era del 1984 [il romanzo di Orwell], di “The Organization Man” [persona che vive per l’azienda in cui lavora], di “The Man in the Grey Flannel Suit” [L’uomo col vestito di flanella grigia], dei “persuasori occulti”, e di “Madison Avenue”, anche il normale studente americano di college non è più incline al pensiero indipendente di quanto lo fosse un contadino cattolico durante il papato di Innocenzo III.

Un’altra ragione della resistenza senza precedenti incontrata dal revisionismo dopo la seconda Guerra Mondiale è il fatto che i liberal e i radicali, che furono le truppe d’assalto e l’avanguardia del revisionismo negli anni ’20, sono stati dal 1945 di gran lunga i primi nemici di ogni accoglimento dei fatti e delle conclusioni avanzati dai revisionisti. Costoro sono stati, nei mesi e negli anni tra il 1939 e il 1941, il partito della guerra in Inghilterra, in Francia, e negli Stati Uniti e non hanno mai ritrattato. Anche se la maggior parte dei liberali di primo piano avevano sostenuto con grande entusiasmo la guerra di Wilson dopo il 1917, essi rimasero totalmente disillusi dal Trattato di “Pace” e guidarono dopo il 1919 la riscossa revisionista. Specialmente degni di nota furono Herbert Croly e i suoi colleghi redattori del New Republic, che ritrattarono alla grande. Oswald Garrison Villard e la maggior parte dei suoi colleghi di The Nation non sentirono il bisogno di ritrattare, perché non avevano mai sostenuto in alcun modo l’intervento americano del 1917.

 

I fatti vadano al diavolo!”

Una delle ragioni principali del perché i liberal e i radicali non sono riusciti a rivedere le loro opinioni e i loro atteggiamenti precedenti [alla seconda Guerra Mondiale] è che il loro odio per Hitler e per Mussolini era troppo grande per permettere loro di accettare qualunque fatto, quantunque ben fondato, che potesse in qualche modo diminuire le colpe di cui questi due uomini vennero accusati dal 1939 in poi – o anche dal 1935. In tal caso, “i fatti vadano al diavolo”. Non vi fu da parte loro, prima della guerra, altrettanto odio per Stalin da far dimenticare. L’odio per Hitler era particolarmente forte presso certi gruppi minoritari che erano stati particolarmente entusiasti del revisionismo successivo alla prima Guerra Mondiale.

In realtà, l’avversione a registrare qualunque fatto storico che possa presentare l’attività diplomatica di Hitler e di Mussolini in una luce un po’ più favorevole rispetto al tempo di guerra sembra essersi estesa alla maggior parte dei revisionisti odierni, anche a quelli di impronta conservatrice. Dopo la prima Guerra Mondiale, la maggior parte degli studi storici revisionisti riguardavano lo scenario europeo dell’Agosto del 1914. Vi furono solo tre libri revisionisti importanti dedicati all’entrata in guerra dell’America: quelli di Tansill, Grattan e Millis, mentre ce n’erano una ventina o più sulla situazione europea pubblicati in Europa e negli Stati Uniti. Il primo libro definitivo sull’entrata in guerra dell’America, l’America Goes to War [L’America va in guerra] di Tansill, non apparve prima del 1938, dieci anni dopo le Origins of the World War di Fay.

Dopo la seconda Guerra Mondiale, tutti i libri revisionisti scritti da autori americani riguardavano principalmente l’entrata americana in guerra. Non c’è stato nessun libro revisionista o qualche articolo revisionista importante che abbiano detto la verità sul 1939. L’approccio più vicino [al 1939] è l’abile e informata trattazione dello scenario europeo nel Back Door to War di Tansill, ma questo libro è dedicato soprattutto all’entrata americana in guerra. Sia l’avversione verso la minima attenuazione delle accuse belliche contro Hitler e Mussolini, che la paura delle risultanze, sembrano aver impedito persino ai revisionisti – sia negli Stati Uniti che in Europa – di affrontare in modo sistematico la crisi del 1939 a quasi venti anni di distanza dai fatti..

Alla luce del fatto che, all’inizio di quest’articolo, ho riassunto le conclusioni dei revisionisti sulle responsabilità per lo scoppio della guerra nel 1939, ci si può legittimamente domandare come posso conoscere la questione se sull’argomento non è stato pubblicato nessun libro definitivo. Tutto quello che ho detto viene sostenuto dal Back Door to War del professor Tansill. Ma è stata anche completata di recente una dettagliata trattazione della crisi del 1939 da parte di uno studioso straordinariamente preparato. Questo libro è dello stesso livello dell’opera monumentale sul 1914 del professor Fay. Ho letto il manoscritto con grande attenzione e scrupolo. Come opera di erudizione, ha riscosso l’approvazione dei più illustri dipartimenti di storia odierni di tutto il mondo. Rimane il problema della pubblicazione [Probabilmente qui Barnes si riferisce a Le Origini della seconda guerra mondiale, di A. J. P. Taylor].

I gruppi anti-interventisti del 1937 e degli anni successivi, come America First, erano principalmente conservatori e per la maggior parte accolsero favorevolmente le prime pubblicazioni revisioniste. Ma presto si allinearono alla Guerra Fredda grazie ai vantaggi per gli affari – nell’industria, nel commercio e nella finanza – che un esorbitante programma di riarmo aveva fornito. In seguito, ebbero paura e si rifiutarono di dare qualsiasi aperto sostegno, finanziario o in altra forma, a un movimento intellettuale che minava totalmente i presupposti della guerra fredda, così come aveva fatto con la mitologia interventista del 1939-41. Quindi il revisionismo, a partire dal 1947, non solo è rimasto impopolare o ignorato, ma è stato anche segnato dalla povertà. D’altro canto, le fondazioni ricche hanno finanziato in abbondanza i libri anti-revisionisti. Sono stati dati circa 150.000 dollari per contribuire alla pubblicazione dei libri di Langer e di Gleanson, che costituiscono lo sforzo più notevole per coprire le responsabilità della diplomazia di Roosevelt e di Churchill.

Altri fattori hanno contribuito all’ostruzionismo quasi incredibile subìto dal revisionismo a partire dal 1945. Le eccessive politiche e misure di “sicurezza” adottate sotto il regime della guerra fredda hanno aumentato di molto la paura e i timori dei funzionari pubblici, degli studiosi, e dell’opinione pubblica in generale. Poiché il revisionismo ha coerentemente messo in discussione l’intero edificio della politica ufficiale americana a partire da Pearl Harbor, aderirvi era rischioso. E’ diventato pericoloso lavorare per la pace, a meno che non lo si faccia facendo la guerra. La stampa, naturalmente, preferisce il sistema di riferimento a tinte forti di una Guerra Fredda all’erudizione prosaica del revisionismo. Negli anni ’20, la stampa era affine al revisionismo perché esso appoggiava l’orientamento prevalente della nostra politica riguardo ai risarcimenti, ai debiti di guerra, all’isolazionismo, al disarmo, alla neutralità e simili. Oggi, il revisionismo mette in discussione l’onestà, l’intelligenza e l’integrità dei fondamenti della nostra politica estera, con le devastanti rivelazioni che esso fa dei risultati disastrosi, a partire dal 1937, delle nostre bellicose ingerenze internazionali.

Particolarmente difficile è riuscire a far sì che i libri revisionisti vengano pubblicati in condizioni tali da suscitare l’interesse e la conoscenza del pubblico, e che vengano presentati ai lettori in modo onesto ed efficace. Vi sono solo due case editrici, e relativamente piccole, che hanno pubblicato con continuità libri revisionisti: la Henry Regnery Company di Chicago, e la Devin-Adair Company di New York. Solo altri cinque piccoli editori hanno pubblicato un libro revisionista – un solo libro a testa, tranne la Yale University Press, che ha fatto uscire entrambi i volumi di Beard, perché di Beard il direttore era amico intimo e grande ammiratore. Le case editrici universitarie considerano rischioso indulgere in opere revisioniste; W. T. Couch, l’esperto direttore della University of Chicago Press, venne licenziato soprattutto perché pubblicò un volume revisionista così outsider come l’ammirevole libro di A. Frank Reel, The Case of General Yamashita. Dopo Pearl Harbor, nemmeno uno dei grandi editori commerciali degli Stati Uniti ha fatto uscire un solo libro sostanzialmente e letteralmente revisionista. Tutto ciò è in netto contrasto con l’atteggiamento degli editori verso i libri revisionisti negli anni ’20 e all’inizio degli anni ’30. Allora, gli editori più grandi erano bramosi di avere quei libri. La classica opera del professor Fay venne pubblicata dalla Macmillan Company, e la monumentale opera in due volumi di John S. Ewart venne pubblicata da Doran. Alfred Knopf pubblicò negli anni ‘20 la mia Genesis, oltre a una vera e propria biblioteca di libri revisionisti, ma nel 1953 si rifiutò persino di prendere in considerazione un libro revisionista lieve e moderato come lo studio erudito del professor Current sulla carriera pubblica del Ministro Henry L. Stimson.

C’è un certo numero di ovvie ragioni del perché i grandi editori oggi stanno alla larga dai libri revisionisti. In primo luogo, sono cittadini americani e, per ragioni già esaminate, come la maggior parte dei loro compatrioti, a essi non piace abbandonare le convinzioni, le emozioni, gli odi e i pregiudizi che avevano prima e durante la guerra; alla maggior parte di costoro i revisionisti e il revisionismo proprio non piacciono. Inoltre, sapendo che il revisionismo è notoriamente impopolare, capiscono che i libri revisionisti probabilmente non venderebbero; quindi, le pubblicazioni revisioniste sono un business relativamente scarso. Inoltre, quegli editori che potrebbero a titolo personale concordare con il revisionismo e ai quali andrebbe di pubblicare qualche libro revisionista, anche se dovessero ricavarne scarso profitto o persino una piccola perdita, non possono proprio considerare un libro revisionista in base ai suoi meriti o per sé stesso. Devono tenere conto del suo effetto potenziale sul mercato editoriale complessivo, e sul pubblico che compra i libri. La perdita che potrebbero sostenere semplicemente pubblicando un libro revisionista potrebbe essere insignificante in confronto a quello che potrebbero perdere a causa della cattiva impressione che una tale pubblicazione potrebbe fare o alle ritorsioni che potrebbero venire.

 

La paura dei club del libro

Essi temono in particolare le possibili ritorsioni da parte dei vari club del libro, poiché tutti quelli potenti sono strettamente controllati da quei gruppi e da quegli interessi che oggi sono totalmente ostili al revisionismo. L’America’s Second Crusade di William Henry Chamberlin è la trattazione revisionista della seconda Guerra Mondiale davvero adatta ad essere venduta e letta a livello popolare. E’ paragonabile esattamente al Road to War di Walter Millis dedicato alla nostra entrata nella prima Guerra Mondiale. Il libro di Millis venne a suo tempo selezionato come Libro-del-Club e venduto a centinaia di migliaia di copie. Il responsabile di una delle più grandi case editrici del mondo conosceva e apprezzava Chamberlin, ammirava il suo libro, e personalmente gli sarebbe piaciuto di pubblicarlo. Ma riteneva, abbastanza comprensibilmente, di non poterlo fare, tenendo conto dei suoi azionisti. Come disse, se avesse pubblicato il libro di Chamberlin, probabilmente la sua azienda non sarebbe riuscita ad avere un altro Libro-del-Club per altri dieci anni. Il libro di Chamberlin venne pubblicato da Henry Regnery.

E’ istruttivo fare un raffronto del suo destino [editoriale] con quello del Road to War di Millis. La libreria Macy’s, di New York, ordinò cinquanta copie del libro di Chamberlin e ne restituì quaranta come invendute. Se fosse dipeso dai suoi meriti, ne sarebbero state vendute sicuramente cinquemila o seimila. Un anno dopo la data di pubblicazione, non c’era nemmeno una copia del libro alla New York Public Library o in una delle sue diramazioni. I libri revisionisti sono virtualmente boicottati, quando parliamo delle vendite al circuito delle biblioteche pubbliche. La donna che negli Stati Uniti esercita sulle ordinazioni librarie un’influenza più grande di chiunque altro è violentemente anti-revisionista. Ella, tramite i suoi consigli ai bibliotecari in cerca di assistenza sui libri da comprare, si adopera in modo da ignorare o diffamare i libri revisionisti.

Anche quando i libri revisionisti finiscono nei negozi, i commessi si rifiutano frequentemente di metterli in mostra e, in qualche caso, arrivano persino a mentire sulla loro disponibilità. Nel reparto librario di un grande magazzino americano, una donna voleva acquistare una copia del libro revisionista più letto. La commessa le disse con aria sicura che l’ordinazione era esaurita e che non c’erano più copie disponibili. La cliente sospettò che stava mentendo e fece fare un’ispezione al direttore. Si scoprì che c’erano oltre cinquanta copie nascoste sottobanco e che la commessa lo sapeva. Il direttore del magazzino fu così indignato che ordinò al reparto di mettere in particolare rilievo il libro fino a quel momento rimasto nascosto.

Le riviste importanti sono tanto riluttanti a pubblicare articoli revisionisti quanto le grandi case editrici a pubblicare qualsiasi libro revisionista. Anche questo è in totale contrasto con la situazione degli anni ’20, quando i direttori dei migliori periodici erano desiderosi di avere articoli autorevoli da parte dei revisionisti. Ma nessun articolo sostanzialmente revisionista è stato più stampato su un periodico a larga diffusione dai tempi di Pearl Harbor. La ragione dell’allergia editoriale agli articoli revisionisti è la stessa che affligge i responsabili delle grandi case editrici relativamente ai libri revisionisti.

Per quanto possa sembrare incredibile, non solo gli editori ma anche i tipografi hanno cercato di eliminare materiale revisionista. Quando presentai a una tipografia di New York un sobrio opuscolo, basato su ricerche approfondite e volto a esporre i fatti basilari della carriera militare e politica del Maresciallo Petain, lo stampatore si rifiutò di di stampare l’opera a meno che non fosse stata approvata dalla censura di uno dei più potenti, e violentemente antirevisionisti, gruppi di minoranza del paese. Al che, portai la copia a un’importante tipografia della zona nord di New York che non era influenzabile da tale forma di pressione. L’episodio ricorda la censura preventiva che esisteva ai tempi di Copernico.

 

Il destino delle recensioni

Gli impedimenti imposti ai libri revisionisti non sono limitati alle difficoltà di pubblicazione e di distribuzione. Quando questi libri vengono pubblicati, di solito vengono ignorati, nascosti, o calunniati. Raramente ricevono segnalazioni soddisfacenti o recensioni oneste, anche se è ovvio che l’opinione del recensore possa essere sfavorevole. Come è stato consigliato ai suoi operatori da una delle principali organizzazioni responsabili del blackout, è preferibile ignorare totalmente un libro se si vuole rovinare la sua distribuzione e la sua influenza. Anche una recensione malignamente sleale avrebbe l’effetto di richiamare almeno una certa attenzione per il libro e potrebbe suscitare qualche curiosità e interesse. Ignorarlo completamente farà più di qualsiasi altra cosa per relegarlo nell’oblio. Sotto la direzione di Guy Stanton Ford, la politica dichiarata della American Historical Review fu quella di non recensire volumi “controversi”, ma dopo un attento esame venne fuori che “controverso” significava “revisionista”. I più controversi libri antirevisionisti in commercio ricevettero risalto e recensioni favorevoli, come quelle accordate di solito a libri considerati importanti.

Quando i libri revisionisti vengono effettivamente catalogati e recensiti, di solito viene data loro una posizione marginale, spesso nella sezione delle note. Questo fu il caso del libro di Luigi Villari Italian Foreign Policy under Mussolini [La politica estera italiana sotto Mussolini]. Sebbene fosse un libro di fondamentale importanza nel campo della storia diplomatica – il solo volume autorevole apparso sull’argomento e l’autore considerato la più rinomata autorità vivente della materia – il libro venne relegato nella sezione delle note dell’American Historical Review. I limiti di spazio non mi permettono di citare qui in dettaglio il destino dei principali libri revisionisti nelle pubblicazioni erudite, nella sezione dei periodici destinata alle recensioni librarie, e nei giornali. Ho esaminato a fondo questa questione nel primo capitolo di Perpetual War for Perpetual Peace.

L’essenza della situazione è che non importa quanti libri revisionisti vengono pubblicati, quanto alta sia la loro qualità, o quanto sensazionali siano le loro rivelazioni: tutto ciò non avrà effetto sull’opinione pubblica americana fino a quando quest’ultima non conoscerà l’esistenza, la natura e l’importanza della letteratura revisionista. Che essa non sia ancora riuscita a rendersene conto è ovvio, e gli ostacoli dimostratisi finora tanto efficaci non si sono ridotti in modo significativo. E’ per questa ragione che gli storici e i pubblicisti onesti accoglieranno favorevolmente l’evidente desiderio dei redattori di Liberation di aprire le sue colonne a una discussione sul revisionismo e alla rivelazione della sua importanza per la salute pubblica del paese. E’ il primo passo che è stato preso in questa direzione da un giornale liberale dai tempi di Pearl Harbor.

 

Favoritismi

Finora ho descritto quasi esclusivamente gli sforzi privati o non-ufficiali di nascondere la verità relativa alle cause e ai risultati della seconda Guerra Mondiale. La censura ufficiale è stata non solo implacabile ma anche per molti versi più sconcertante. Coloro che pubblicano documenti ufficiali non dovrebbero essere condizionati da considerazioni di profitti o perdite. Più di dieci anni fa, Charles Augustin Beard deprecò la procedura seguita dal Dipartimento di Stato, per la sua tendenza a permettere agli storici favorevoli alla politica estera ufficiale di usare i documenti governativi abbastanza liberamente, e di negare tale accesso a chiunque fosse sospettato di simpatie revisioniste. Questa protesta portò a un qualche rilassamento momentaneo della censura, e fu un caso fortunato che il professor Tansill riuscì a condurre buona parte delle sue ricerche in quel momento. Ma ben presto la censura e le restrizioni tornarono a pieno regime.

Quando andarono al potere nel 1953, i repubblicani promisero una drastica riforma di questo abuso, ma non riuscirono ad attuare le loro assicurazioni e, sotto il Ministro Dulles, lo scandalò aumentò in proporzioni molto più grandi che sotto il potere dei democratici. Lo stesso consulente per le questioni storiche, G. Bernard Noble, ebbe prorogato il proprio incarico e a dire il vero fu anche promosso a Direttore della Sezione Storica del Dipartimento di Stato. Era un democratico, uno studioso Rhodes, e conosciuto come uno dei più frenetici sostenitori del nostro intervento nella seconda Guerra Mondiale – tra tutti i politologi americani – e un nemico implacabile del revisionismo.

Nel Maggio del 1953, il Dipartimento di Stato promise che tutti i documenti delle conferenze internazionali tenute durante la seconda Guerra Mondiale sarebbero stati pronti per essere pubblicati nel giro di un anno e che tutti gli altri documenti del periodo dal 1939 in poi sarebbero stati presto pubblicati.

Non venne fatto nulla fino alla primavera del 1955, quando i documenti della Conferenza di Yalta vennero finalmente pubblicati. Era evidente, e lo fu presto a tutti, che tali documenti erano stati ingarbugliati e censurati in modo lampante. Due competenti membri dello staff storiografico del Dipartimento, Bryton Barron e Donald Dozer, protestarono contro questa soppressione e manipolazione dei documenti. Noble costrinse Barron ad andare anticipatamente in pensione senza stipendio e licenziò Dozer. Quest’ultimo venne reintegrato dalla Commissione del Servizio Civile ma Noble riuscì a licenziarlo una seconda volta, e questa volta in via definitiva. Barron era stato incaricato della catalogazione del materiale riguardante la Coferenza di Yalta, e Dozer di quello delle Conferenze del Cairo e di Teheran. Da quella volta è stata presentata solo un’altra pubblicazione, e cioè certi documenti incompleti riguardanti il 1939. Stiamo parlando dell’anno scorso e anche in questo caso si tratta di documenti censurati e ingarbugliati.

In tutto questo tempo, sono stati raccolti e messi a disposizione per essere pubblicati circa 37 volumi riguardanti la nostra politica estera a partire dal 1939. Ma nessuno di questi è stato inviato allo stampatore e, nella primavera del 1958, il Dipartimento di Stato ha banalmente annunciato di non aver proposto la pubblicazione di nessuno di questi volumi nel prossimo futuro. Come spiegazione ha detto che la loro pubblicazione potrebbe potenzialmente offendere delle persone tra i nostri alleati della NATO. Per dare a questa sorprendente procedura una qualche apparenza di autorità storica, il Dipartimento di Stato ha nominato, nel 1957, un comitato selezionato per consigliare il Dipartimento sui testi da pubblicare. I membri di tale comitato, che non ha tra le proprie fila nessuno storico revisionista, hanno assicurato che sarebbero stati dati i giusti consigli. Il presidente non era altri che il professor Dexter Perkins, effettivamente un piacevole e affabile politologo, ma anche un esponente di quella mezza dozzina di preminenti e implacabili nemici della storiografia revisionista di questo paese. Il comitato ha ammesso in modo ossequioso che la pubblicazione dei 37 volumi che giacciono sugli scaffali aspettando gli stampatori governativi non sarebbe politicamente opportuna.

Quando Barron è apparso davanti ad una commissione del Senato per protestare contro le censure e i ritardi, gli sono stati permessi solo undici minuti per testimoniare, anche se ai testimoni che sostenevano la censura ufficiale è stato permesso di parlare a lungo. Come ha detto uno dei più bravi editorialisti del paese, decisamente a ragione: “Un tale record di occultamenti e di doppiezza è senza precedenti. Il suo solo termine di paragone è la “buca della memoria” del 1984 di George Orwell, dove un regime totalitario del futuro si sbarazzava di tutti i documenti e i fatti che non rientravano nella linea ufficiale del partito”. Tutto ciò non è certo coerente con il ruolo assunto dagli Stati Uniti quale guida delle “Nazioni Libere”, o con la nostra aspra condanna dei russi per aver sottoposto a censura i loro documenti ufficiosi.

Vi sono, naturalmente, alcuni cruciali documenti ufficiosi riguardanti l’inizio della seconda Guerra Mondiale che il governo non si è mai neppure sognato di pubblicare e che sono così esplosivi che nemmeno agli storici impegnati nel coprire le responsabilità governative è stato permesso di usarli. Si tratta dei cosiddetti “Documenti Kent”, e cioè i circa 2.000 messaggi segreti scambiati illegalmente in codice tra Churchill e Roosevelt dal Settembre del 1939 in poi. Lo stesso Churchill ci ha detto francamente che questi documenti contengono buona parte delle informazioni vitali sulla collaborazione tra lui e Roosevelt nel loro sforzo congiunto di fare entrare in guerra gli Stati Uniti. Quando il più imponente tentativo storiografico di coprire le responsabilità di Churchill e Roosevelt stava per iniziare, Churchill ha minacciato l’autore principale di portarlo in tribunale se avesse utilizzato questi “Documenti Kent”.

La soppressione dei documenti relativi alle responsabilità della seconda Guerra Mondiale si estende, naturalmente, ben oltre tutte le attività e i rapporti anglo-americani. Quando i comunisti e i socialisti della Russia, della Germania e dell’Austria pubblicarono dopo il 1918 i loro archivi per screditare i vecchi regimi imperiali, questo costrinse gli inglesi e i francesi a fare lo stesso. Alla fine, gli studiosi avevano virtualmente tutti i fatti a disposizione.

Niente del genere è stato possibile dopo la seconda Guerra Mondiale. Le Potenze Alleate vittoriose, principalmente l’Inghilterra e gli Stati Uniti, catturarono gli archivi tedeschi e italiani, tranne qualcuno dei più vitali documenti italiani che i comunisti italiani distrussero, con la connivenza degli inglesi, quando catturarono e uccisero Benito Mussolini. Oggi, la Germania e l’Italia non potrebbero pubblicare tutti i documenti che li riguardano, anche se lo volessero, perché non li hanno più. Alcuni sono tornati in Italia, e i tedeschi hanno promesso di fornire i propri. Ma si può stare certi che non verrà incluso nessun materiale che riguardi seriamente gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Ogni pubblicazione è stata perciò limitata finora a quello che le autorità americane e inglesi hanno ritenuto opportuno divulgare, e non vi sono prove che tale materiale sia stato presentato più integralmente e più onestamente di quanto è stato fatto con i documenti della conferenza di Yalta. Né ci si può aspettare che i tedeschi e gli italiani pubblichino nulla che possa in qualche modo modificare l’esecrazione bellica di Hitler e di Mussolini. A differenza della Repubblica di Weimar, il governo di Adenauer è fermamente ostile alla storiografia e alle pubblicazioni dei revisionisti. Lo stesso è vero per il governo italiano.

La conseguenza principale di tutte queste censure ufficiali è che il verdetto dei revisionisti relativo alle responsabilità della seconda Guerra Mondiale è molto meno drastico di quello che sarà se e quando tutti i documenti saranno disponibili. Se i documenti che sono stati soppressi in così grande quantità e con tale accuratezza fossero in grado di diminuire il già duro atto di accusa contro i leader del tempo di guerra, la logica elementare e la strategia sosterrebbero la supposizione che sarebbero già stati pubblicati da molto tempo, per cambiare o eliminare i duri giudizi già espressi nelle opere revisioniste.

C’è un paradosso che va notato, relativamente allo status e ai risultati del revisionismo dopo le due Guerre Mondiali. Dopo la prima Guerra Mondiale il verdetto dei revisionisti, quanto alle responsabilità della guerra, fu ampiamente accettato dagli studiosi e dagli uomini pubblici intelligenti, ma poco venne fatto per rivedere il sistema postbellico europeo basato sulle menzogne e la propaganda belliche. Se fossero stati compiuti i passi logici per rivedere i trattati postbellici quando c’era ancora la repubblica tedesca, è improbabile che Hitler sarebbe mai riuscito a conquistare il potere in Germania, che ci sarebbe mai stata una seconda Guerra Mondiale, o che saremmo arrivati alla Guerra Fredda. Dopo la seconda Guerra Mondiale, mentre i fatti portati alla luce dai revisionisti quanto alle responsabilità della guerra sono stati ignorati – in realtà sono virtualmente sconosciuti alle opinioni pubbliche degli Alleati vittoriosi – c’è stata una revisione quasi completa della politica ufficiale verso i nostri ex nemici. Sia la Germania che il Giappone sono stati quasi costretti a riarmarsi, e sono stati dati loro grandi aiuti economici in modo che essi possano ora fungere da alleati contro il nostro ex alleato, l’Unione Sovietica. Si può immaginare l’indignazione se, diciamo nel 1925, avessimo insistito che la Germania e l’Austria dovevano riarmarsi fino ai denti, e avessimo espresso la nostra intenzione di permetterglielo!

Una situazione come quella che ha avuto luogo dopo il 1945 potrebbe essere possibile solo in un’epoca di “bis-pensiero” e di “anticrimine” orwelliani. Abbiamo speso circa 400 miliardi di dollari per distruggere la Germania e il Giappone e, dopo la loro distruzione, abbiamo versato ancora più miliardi per ripristinare il loro potere militare. Se fosse concepibile che potessimo combattere una terza guerra mondiale senza sterminare tutti i contendenti, potremmo prevedere una situazione dove, dopo aver distrutto la Russia, andremmo a darle dei miliardi per ricostruire la sua forza bellica per difenderci contro la Cina e l’India.

Una lezione che il revisionismo può insegnarci è che dovremmo apprendere da esso l’atteggiamento in grado di proteggerci contro la ripetizione delle follie e delle tragedie. L’eminente filosofo John Dewey disse a un mio amico che se il suo atteggiamento verso la prima Guerra Mondiale non fosse stato tanto sbagliato (quale è stato espresso dal suo libro German Philosophy and Politics) avrebbe potuto cadere preda della propaganda che ci ha portato alla seconda Guerra Mondiale. Ma le opinioni pubbliche sembrano meno capaci di apprendere dall’esperienza di un filosofo pragmatista. Esse sembrano dare ragione alla classica osservazione di Hegel che la sola lezione che la storia ci insegna è che dalla storia non impariamo nulla. In un’età di bombe all’idrogeno, di missili guidati intercontinentali, di armi chimiche e batteriologiche terrificanti, e di tecnologia militare in cui basta premere un bottone, dovremo far meglio dell’umanità al tempo di Hegel se vi sarà una qualche prospettiva di sopravvivenza o se riusciremo a raggiungere un grado di pace, di sicurezza e di benessere tali da giustificare la sopravvivenza. Ma l’opinione pubblica americana non può certo imparare lezioni dal revisionismo se non sa neanche che esiste, a prescindere dai suoi contenuti e dalle sue implicazioni.

A meno che, e fino a quando, non riusciremo a superare il blackout storico, ora sostenuto anche dalla politica ufficiale, e a permettere ai popoli della terra di conoscere i fatti concernenti le relazioni internazionali durante l’ultimo quarto di secolo, non ci può essere una vera speranza di pace, di sicurezza e di prosperità che i progressi della scienza e della tecnologia rendono possibili. Il benessere del genere umano, se non della sua stessa sopravvivenza, dipende letteralmente dal trionfo del revisionismo.

 


H. E. Barnes, 1958

Tratto da andreacarancini.it

 

Scopri di più
Mariagrazia De Luca Mariagrazia De Luca

Che Roma sia italiana!

Quella scomoda e sconosciuta mozione del 27 marzo 1861

Pietro Ratto, 25 agosto 2017

Il 27 marzo 1861 la neonata Camera dei Deputati del Regno d’Italia approvava una mozione storica proposta dal parlamentare Carlo Bon Compagni di Mombello (1804-1880). I libri di testo, a scuola, spesso non ne parlano. E i pochi che lo fanno liquidano l’evento come un “discorso di Cavour” di un certo valore “culturale”. 

Quella mozione, in realtà, fu qualcosa di più. Recitava: “La Camera, udite le dichiarazioni del Ministero, confida che, assicurata la dignità, il decoro e l'indipendenza del pontefice e la piena libertà della Chiesa, abbia luogo di concerto con la Francia l'applicazione del non intervento, e che Roma, capitale acclamata dall'opinione nazionale, sia congiunta all'Italia.” Un'Italia appena nata ma con le idee già molto chiare, insomma. Un'Italia che voleva Roma.

Non un semplice discorso di Cavour, quindi, ma una mozione di un ex Guardasigilli, ex Ministro dell’Istruzione e più volte Presidente della Camera a lui molto vicino. Una mozione appoggiata dalle infiammate parole dello stesso Camillo Benso e “approvata alla quasi unanimità”, così come si legge nel verbale della Camera relativo a quella seduta, la numero 24 dell’anno 1861. Esattamente dieci giorni dopo la nascita del Regno d’Italia.

Roma era ancora capitale dello Stato Pontificio. Una decisione di questo tipo, presa dal Parlamento italiano, costituiva un’autentica, gravissima provocazione. Certo, da molti anni ormai un certo ambiente politico anticlericale piemontese riteneva "sorpassata" la concezione di un "potere temporale" da parte di un Papa, ma mai ci si era spinti fino a quel punto.

Non si conoscono le reazioni immediate di Pio IX. Sta di fatto che il successivo 15 aprile, tramite il suo Segretario di Stato Giacomo Antonelli, il Papa si pronunciò in modo molto deciso contro l’auto-proclamazione di Vittorio Emanuele II a Re d’Italia. “Un Re cattolico, ponendo in oblio ogni principio religioso, sprezzando ogni diritto, calpestando ogni legge, dopo avere spogliato a poco a poco il Capo augusto della Chiesa Cattolica della più grande e florida parte dei suoi legittimi possedimenti, oggi assume il titolo di Re d‘Italia. Con ciò egli vuol porre il suggello alle usurpazioni sacrileghe da lui già compiute, e che il suo governo ha già manifestato di completare a spese del patrimonio della Santa Sede.

Quantunque il Santo Pontefice abbia solennemente protestato ad ogni nuova impresa con cui si recava offesa alla sua sovranità, e viene oggi meno l’obbligo di fare una nuova proposta contro l’atto col quale si prende un titolo, lo scopo del quale è quello di legittimare l’ iniquità di tanti atti anteriori. Sarebbe superfluo ricordare la santità del possesso del Patrimonio della Chiesa ed il diritto del Sovrano Pontefice su questo Patrimonio, diritto incontestabile riconosciuto in ogni tempo e da tutti i governi , e da cui ne deriva che il Santo Padre non potrà mai riconoscere il titolo di Re d’ Italia, cui si arroga il Re di Sardegna, giacché tale titolo lede la giustizia e la sacra proprietà della Chiesa. Non solo non può riconoscerlo, ma ancora protesta nel modo più assoluto e più formale contro una simile usurpazione".

 

In questo quadro, quindi, va considerato ad esempio il successivo tentativo di Garibaldi di prendere Roma. L’Eroe dei due Mondi non agì a titolo personale, contro il parere di Torino, comportandosi come una specie di scheggia impazzita, come spesso i testi scolastici ci raccontano. Garibaldi si industriò a mettere in atto quanto stabilito dal Parlamento stesso, per quanto quei politici avessero preso la cosa molto alla leggera, rimandando a data da destinarsi l’effettiva concretizzazione del loro complicato - e forse un po' demagogico - progetto.

Soltanto così, soltanto tenendo conto di ciò, si capiscono le manifestazioni di protesta che si verificarono nelle piazze di Torino dal 21 al 23 settembre 1864, all’indomani dell’annuncio pubblico della Convenzione di Settembre. Un accordo, quest’ultimo, che l’allora Capo del Governo Marco Minghetti aveva intessuto nell’estate di quell’anno con Napoleone III lasciandone all’oscuro sia il Parlamento che il Re. Il Presidente del Consiglio, infatti, con quell’accordo stipulato definitivamente il 15 settembre 1864, aveva incassato il consenso dell’Imperatore di Francia a ritirare le sue truppe dai territori papali a patto che, in cambio, l’esercito italiano si prendesse l’impegno di proteggere lo Stato Pontificio da qualsiasi incursione straniera. In pratica, l’Italia si impegnava a far l’esatto contrario di quanto deciso con la mozione Bon Compagni. E visto che l’imperatore non sembrava convinto, visto che la mozione Bon Compagni la conosceva bene, come garanzia l’inviato di Minghetti - l’ambasciatore italiano nonché cugino dell’imperatore francese Gioacchino Napoleone Pepoli - aveva pensato di rilanciare, proponendo  lo spostamento della capitale a Firenze come soluzione definitiva alla questione romana. L'Italia necessitava di una capitale più difendibile e più centrale? Dal canto suo la Francia proteggeva Pio IX e pretendeva il pieno rispetto dei confini dello Stato Pontificio? Bene, allora gli italiani si sarebbero "accontentati" di Firenze. Firenze in cambio di Roma, una volta per sempre.

Anche questo, spesso, non viene ricordato. Lo spostamento della sede del Governo italiano a Firenze non venne stabilito in maniera provvisoria. Né, come i libri di scuola insegnano, fu deciso soltanto per controllare e proteggere meglio la Città eterna. Fu soprattutto la soluzione che Pepoli propose per metter fine, così come pretendeva Napoleone, alle mire italiane sui possedimenti papali. Ed a quelle di tutti i parlamentari che soltanto tre anni prima avevano approvato la mozione Bon Compagni.

E non basta. La condizione dello spostamento della capitale da Torino a Firenze venne a lungo mantenuta segreta. Nel corso dell’estate del 1864 Re e Parlamento vennero informati sulle trattative poco per volta dal Minghetti, che tacque sulla “questione Firenze” limitandosi a spiegare l’accordo come uno scambio tra l’uscita dei militari francesi da Roma e l’impegno italiano a salvaguardare le proprietà del Papa. Soltanto poche settimane prima della stipula definitiva della Convenzione, Vittorio Emanuele venne informato dal premier del suo imminente trasferimento a Firenze. Si arrabbiò moltissimo, il Re. Fece di tutto per evitarlo. Ma alla fine si piegò, temendo di mettersi in cattiva luce con l’Imperatore. E si rassegnò a far baracca e burattini.

Quanto ai cittadini, il patto venne svelato soltanto a firma avvenuta, grazie soprattutto alla Gazzetta del Popolo, l’unico quotidiano torinese all’epoca in grado di mostrarsi indipendente dal potere costituito. E la gente scese in piazza, a protestare contro la violazione di quella mozione approvata tre anni prima. Protestarono giustamente, insomma, quei cittadini. E non certo solo per questioni di orgoglio. Protestarono con determinazione contro un sopruso. A Torino, soprattutto; dove l’esercito aprì il fuoco sparando a freddo su centinaia di persone che manifestavano pacificamente imbracciando la bandiera italiana. Fa parte delle cose che non ci raccontano, ma fu un vero e proprio massacro. Un evento particolarmente vergognoso.

I carabinieri, soprattutto, spararono. Sparano a più non posso, sulla gente inerme. Persino sui soldati chiamati dal Governo per tener sotto controllo la situazione. Il Colonnello del 17esimo Fanteria Cesare Colombini venne ferito alla tempia, ma persero la vita tre suoi militari: i soldati Lecci (vent’anni) e Bergamini (ventitré anni) e il caporale Belfiore (anch’egli ventitreenne). Ma a rimetterci furono soprattutto i cittadini, la gente comune.

In tutto, i morti furono 55 ed i feriti addirittura 133, di cui ben 16 sotto i diciott’anni. La più giovane vittima si chiamava Carlo Alberto Rigola, faceva l'apprendista tipografo e aveva quindici anni. Gli spararono dritto in petto.

Il più anziano ad essere ucciso fu invece un vetraio di 75 anni, Ignazio Bernarolo. Morì il 25 settembre, dopo un agonia di tre giorni, all'Ospedale maggiore di San Giovanni.

La carneficina venne condotta con tecniche raffinate e moderne. Incluso il ricorso a squadre di infiltrati che, in accordo con la polizia, diedero vita ad azioni violente al solo scopo di far passare una pacifica manifestazione di protesta per un criminale tentativo di insurrezione.

Manco a dirlo, nonostante le numerosissime testimonianze e le gravi evidenze accumulate da una successiva Commissione d'inchiesta, quel massacro rimase impunito. Fu Ricasoli a frenare sul nascere la discussione alla Camera, fissata per il 23 gennaio 1865. Motivazione? C'erano questioni più urgenti su cui legiferare. E la cosa morì così.

Tutte informazioni ben poco divulgate, così come le vere motivazioni della protesta. Non si trattò solo di torinesi che non volevano perdere i privilegi (anche di natura economica) del vivere e lavorare in una capitale, così come i libri raccontano. Si trattò soprattutto di italiani, di cittadini del nuovo Regno, convinti sostenitori di quella prospettiva di riconoscer Roma come capitale della loro giovane Patria, così come democraticamente stabilito in Parlamento in quel 27 marzo 1861. Una prospettiva improvvisamente tramontata a causa di biechi e oscuri giochi di potere, di ingerenze straniere, di forti e subdole pressioni clericali esercitate attraverso i numerosi ministri cattolici, Luigi Federico Menabrea in testa.

Si trattava di italiani. Che finirono sotto il fuoco delle forze dell’ordine urlando “Roma, Roma!”. Di persone convinte dei loro diritti e non ancora rassegnate all’idea che i politici possano "far quel che vogliono". Un’idea, questa, evidentemente molto più "subìta" tra i cittadini della democratica repubblica di oggi che tra i sudditi di un Regno di centocinquanta anni fa.

 


Cfr. anche F. Ambrosini, Giornate di sangue a Torino, Editrice Il Punto

 TORNA ALLA HOME

Scopri di più
di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca

Simonino santo. Anzi, no!

Pietro Ratto, 14 agosto 2017

È la notte del 23 marzo 1475. Il piccolo Simone, due anni e mezzo appena, figlio del parrucchiere Andrea, improvvisamente scompare.
I genitori, disperati, lo cercano per tutta Trento e per le campagne circostanti. Ma niente da fare, il piccolo non si trova, non si trova più.
Mai settimana santa è stata più sofferta. Più intrisa di dolore e di penitenza. Soltanto la mattina della domenica, mentre tutte le campane salutano meste la nuova Pasqua, dopo estenuanti ricerche Simone viene ritrovato. Morto, abbandonato alle fresche braccia di una spumeggiante roggia che porta alla città le tormentate acque dell'Adige. Il fatto è, però, che non si tratta di un canale qualsiasi. Quella, infatti, è la Roggia degli ebrei; quella che si snoda proprio vicino alla Sinagoga e alla comunità in cui vivono trenta giudei ashkenaziti. Tre famiglie in tutto. Quelle degli usurai Angelo e Samuele e quella del medico Tobia.
Il sospetto non ha tempo di crescere che è già certezza. Gli ebrei vengono immediatamente fatti arrestare dal Principe Vescovo di Trento, convinto da sempre che le loro comunità sian tutte controllate dal diavolo. E che ogni anno, a quell'epoca, impastino il loro pane azzimo con il sangue di indifesi fanciulli cristiani, proprio come il piccolo Simone. C'è anche un predicatore, a quel tempo, che gira per la città fomentando le ire della gente contro i perfidi ebrei "deicidi". Si chiama Bernardino da Feltre, e i suoi discorsi conquistano il cuore e la rabbia di tutti.
Alla fine, si decide di incriminarne quindici. Il più giovane ha quindici anni, il più vecchio novanta. Torturati per mesi, alla fine confessano tutti. "Sì, abbiamo ucciso il bambino. Sì, siamo stati noi. Basta che smettiate di farci soffrire".

Così, adesso, li possiamo vedere qui a fianco, ritratti in un medaglione appeso in facciata al maestoso palazzo edificato sulle ceneri della loro Sinagoga, immediatamente rasa al suolo. Possiamo vederne quattro, tutti cinicamente intenti a sgozzare Simone. Tre uomini e una donna: Bruna, l'unica che, contro tutte le previsioni, resiste a ogni tortura morendo sotto i ferri degli inquisitori. Tutti gli altri, rei confessi, sono mandati a morte in seguito alle loro ammissioni.
Simone diventa subito un martire cristiano. Il vescovo, grande cultore di reliquie e sommo sostenitore dell'inquisizione, lo proclama in fretta e furia beato. E ne diffonde rapidamente il culto. Tutto ciò, nonostante le perplessità di papa Sisto IV, talmente poco convinto dal risultato di quelle frettolose indagini da inviare un suo legato. Che in poco tempo si mette dalla parte degli ebrei e denuncia molteplici irregolarità in tutta l'inchiesta, ma che viene boicottato fino al punto di dover scappare da Trento e rifugiarsi a Rovereto. Niente da fare, il Principe Vescovo Giovanni Hinderbach è irremovibile. Simonino dev'esser fatto santo. E tutti gli ebrei di Trento, immediatamente cacciati.

Passano i secoli. Ne passano cinque, scanditi da innumerevoli processioni di agguerriti fedeli e da ricorrenti esposizioni degli strumenti di tortura utilizzati dai perfidi ebrei, nel corso del loro storico infanticidio. Poi la frittata vien rivoltata.
Risale infatti al 1965 la cosiddetta "Svolta del Simonino", quella che si verifica quando l'arcivescovo di Trento Alessandro Maria Gottardo fa pubblica ammenda, e dichiara che no: non ci sono prove circa l'effettiva responsabilità di quei quindici ebrei massacrati dall'Inquisizione. E ritira il culto del Simonino, le cui spoglie vengono fatte sparire dalla Chiesa di San Pietro, in cui abusivamente riposavano da cinquecento anni. Simone non è più beato, perché è stato ucciso dalla gente sbagliata. Naturalmente, nessuno restituisce vita e dignità alla disgraziata comunità ebraica. E la faccenda sembra chiusa così.
Quarant'anni dopo, la nuova svolta. Lo storico italo-israeliano Ariel Toaff scrive a chiare lettere che è vero: di quell'eccidio giudeo le prove non ci sono proprio. Ma che non è da escludersi che alcune comunità ashkenazite si siano in passato dedicate a qualche sanguinaria pratica di quel tipo. I suoi colleghi si affrettano a smentirlo: le cruente confessioni a cui lo storico si riferisce per poter affermare cose così gravi non avrebbero nulla di vero e sarebbero state estorte dall'Inquisizione grazie alle solite, terribili torture. Ma Toaff controbatte: se non accettate quel tipo di confessioni, allo stesso modo non dovreste dar per buone nemmeno quelle con cui i malcapitati, contestualmente, dichiaravano ai loro torturatori di esser sempre rimasti segretamente ebrei nonostante la loro ufficiale conversione al Cristianesimo. E la discussione si ferma lì.

Così, dopo centinaia e centinaia di anni, nulla ancora sappiamo di ciò che accadde al piccolo Simone, in quel giovedì santo del 1475. Ancor meno sappiamo del dolore infinito che straziò i suoi genitori.
L'unica certezza che ci resta è che la Storia, l'intricata narrazione della nostro passato, è tanto affascinante quanto inquietante.
E soprattutto, mai certa e definitiva.

 

Medaglione del XVIII secolo che ritrae il martirio di Simonino da Trento, sulla facciata di Palazzo Salvadori.

Il bassorilievo riproduce la scena  scolpita nel legno agli inizi del Cinquecento dal maestro Niklaus Weckmann

Scopri di più
di Angelo Paratico Mariagrazia De Luca di Angelo Paratico Mariagrazia De Luca

Leonardo da Vinci Un intellettuale cinese nel Rinascimento italiano 

Il libro di Angelo Paratico, agosto 2017

Dopo anni di indagine storica, Angelo Paratico svela il mistero della vita di Leonardo.

Grazie a nuovi elementi di prova emersi dagli archivi di Stato di Firenze,

porta alla luce ciò che è sempre stato davanti ai nostri occhi.

 

 C’è un ritratto a olio di Leonardo alla National Gallery di Washington, conosciuto come Ginevra de’ Benci, nel quale, per una serie di ragioni, la cupa signora che fissa sofferente l’osservatore non può essere la diciottenne Ginevra, imminente sposa e conosciuta in tutta Firenze per la sua rinomata bellezza. I conoscitori di Leonardo sanno che i tratti del viso di questa donna sono molto simili a quelli dell’unico autoritratto conosciuto dell’autore, visibile nella Adorazione dei Magi.

La Ginevra de’ Benci del quadro non può che essere Caterina, la madre cinese di Leonardo, l’unica donna che egli abbia mai amato. La vita di Leonardo da Vinci rimane un enigma, nonostante i documenti emersi dagli archivi antichi e le migliaia di pagine dei suoi quaderni personali. Egli nacque fuori dal matrimonio, e non voluto, frutto di un incontro casuale tra un notaio della Repubblica fiorentina, Ser Piero da Vinci, e una schiava domestica cinese, la quale serviva in casa di un cliente del padre di Leonardo, un tale Ser Vanni.

Il notaio fece subito allontanare Caterina da Firenze, e la portò a partorire a Vinci, quindi la diede in sposa a un suo umile tuttofare, detto l’Accattabriga. Caterina era solo una bambina quando fu catturata dai predoni mongoli e poi venduta in un mercato di schiavi a Venezia.

A quel tempo, gli schiavi orientali erano del tutto comuni in Toscana, al contrario di quanto si ritiene oggi.

Ginevra Datini, la figlia del mercante per eccellenza del Rinascimento Francesco Datini, nacque anch’essa da una schiava tartara, di nome Lucia, che lavorava nella casa del ricco mercante. Questo fatto sorprendente non sarebbe mai venuto alla luce senza il ritrovamento fortuito, nel 19° secolo, di un vero e proprio tesoro di lettere e libri contabili nascosti in una partizione segreta nel suo palazzo di Prato.

Ma vi sono decine di altri indizi e di prove che confermano le radici orientali di Leonardo. Egli era mancino, aveva l’abitudine di iniziare i suoi quaderni dall’ultima pagina, era un vegetariano, aveva una visione quasi buddista del mondo; i suoi dipinti mostrano paesaggi che sono chiaramente derivati da pittori cinesi vissuti secoli prima. Quello alle spalle della Gioconda è tipicamente cinese, e Mona Lisa non ha le sopracciglia, proprio come le schiave cinesi descritte in Italia all’epoca.

 

Angelo Paratico

Leonardo da Vinci. Un intellettuale cinese nel Rinascimento italiano, Gingko Edizioni, 2017

Scopri di più
di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca

Alex è in galera

Pietro Ratto, 16 novembre 2016

Dal 17 giugno 2015 Boris Krljić si trova in carcere. Lì per lì l’accusa era di spacciare cannabis, ma di fatto, da quella galera svizzera, il giovane non è più uscito. Il problema è che Boris non è un tipo qualsiasi. E’ uno studioso, uno storico indipendente e un giornalista freelance. E questo è ancora niente. Ricorrendo allo pseudonimo di Alexander Dorin, Boris ha alzato un polverone terribile in merito al cosiddetto genocidio di Srebrenica dell’11 luglio 1995, quando, secondo la versione ufficiale, ottomila bosniaci furono massacrati dalle truppe serbe del generale Ratko Mladic.

Ebbene. Alexander Dorin, insieme a Zoran Jovanovic, nel settembre 2009 ha pubblicato un libro a dir poco esplosivo: Srebrenica, come sono andate veramente le cose (titolo originale: Srebrenica, storia di un razzismo da salotto), uscito in Italia nel 2012 per ZambonCon l’introduzione, per giunta, di uno studioso e docente universitario tanto autorevole quanto "controcorrente" come Aldo Bernardini.

Un saggio, questo, che rimette in discussione l’intera vicenda sia relativamente al numero delle vittime (a detta dei due coraggiosi autori non più di duemila), sia rispetto alla reale natura di quel massacro, in merito al quale - affermano i due autori - non bisognerebbe parlare di genocidio, essendosi invece trattato della pur tragica conseguenza di una battaglia tra le due forze in gioco. Duemila musulmani uccisi dai serbi mentre cercavano di effettuare uno sfondamento verso la città di Tuzla.

La questione, come si può immaginare, è però molto più spinosa, dato che, nel loro libro, Dorin e Jovanovic accusano senza mezzi termini l’allora Presidente USA Bill Clinton e il leader bosniaco Alija Izetbegović, di aver letteralmente inventato quel genocidio per poter giustificare il violentissimo bombardamento messo in atto dalla NATO nell’agosto ’95, proprio al fine di porre termine alla guerra in Bosnia permettendo agli americani di estendere la loro influenza su quei territori, e di trascinare alla sbarra l'odiato leader serbo-bosniaco Radovan Karadzic e il suo "braccio armato" Mladić.

Le accuse che emergono da quelle pagine sono pesantissime, anche perché saltano fuori documenti riservati che all’interpretazione lasciano ben poco spazio. Lo stesso Tribunale dell’Aia di fronte al quale i responsabili del cosiddetto genocidio compaiono nelle vesti di criminali di guerra, ne esce come una pura e semplice emanazione della Nato.

 Ebbene: nonostante tutto ciò, la notizia non è questa. Qui non si tratta “soltanto” di parlar di un libro, di una versione girata “a testa in giù” di un cruentissimo e determinante evento dell’estate di vent’anni fa, versione per altro molto ben delineata dallo stesso Dorin nel corso di un’intervista shock rilasciata nell’agosto 2009¹. No: la notizia è che Alexander, da più di un anno, è in prigione; messo letteralmente fuori combattimento, senza - per giunta - che nessuno ne parli. Dorin è stato lasciato completamente solo, abbandonato a se stesso, chissà in quali condizioni oltretutto, proprio soltanto per l’amore che nutre, e che ha sempre nutrito, nei confronti della verità. Per il servizio che ha voluto dare all'informazione, quella vera.

E a dirla tutta, la notizia non è soltanto quella. Ce n'è ancora un pezzo ancor più inquietante, se è possibile. Il giornalista Zoran Jovanovic, l’altro autore di quel libro esplosivo, è già deceduto. In circostanze non chiare, sembra. E’ morto il 13 luglio del 2013, a sessantun anni, Zoran; a una decina di ore di distanza dal suo clamoroso annuncio. Quello con cui avvisava il mondo del web d’essere entrato finalmente in possesso di un paio di filmati in grado di provare, in modo schiacciante e definitivo, quella loro scomoda e pericolosissima tesi.

 


(1) Il 15 agosto 2009 Alexander Dorin ha rilasciato alla stampa quotidiana di Belgrado la seguente intervista:

 Su cosa basate le vostre asserzioni secondo cui il "massacro" di Srebrenica sarebbe stato inventato da Izetbegovic e Clinton?

 Si dovrebbe tenere a mente che persino i media americani scrissero parecchio sul fatto che gli Stati Uniti stessero armando da anni le forze di Izetbegovic. L'amministrazione Clinton era molto ostile verso i serbi - i generali di Clinton erano persino coinvolti nell'operazione croata "Tempesta", finalizzata all'espulsione e l'eliminazione dei serbi dalla Repubblica della Krajina serba e da parti occidentali della Bosnia-Herzegovina.

Allo stesso tempo, uno dei signori della guerra di Srebrenica - Hakija Meholjic - da tempo asserisce che, dal 1993 in poi, Clinton offrì ad Izetbegovic un massacro fabbricato contro i musulmani di Srebrenica, come manovra atta a porre fine alla guerra civile in Bosnia-Herzegovina [a vantaggio dei musulmani bosniaci].

 

Cosa ci dice tutto ciò?

 Ci dice che hanno avuto due anni per avviare quella manovra, il tempo durante il quale Izetbegovic e Clinton venivano mitizzati ed elevati alla posizione di eroi attraverso i più influenti media occidentali. Le "vittime di Srebrenica" votano..

 

Questo libro offre prove aggiuntive?

 Il libro presenta inoltre le prove che dimostrano che i duemila musulmani che persero la vita a Srebrenica, caddero in battaglia. Volendo sostenere la versione del "genocidio" ma non disponendo di un numero di corpi sufficiente per affermare che fossero stati uccisi circa ottomila musulmani, inserirono nell'elenco delle vittime di Srebrenica molti soldati musulmano-bosniaci di fatto morti molto prima della conquista di Srebrenica, o uccisi in altre battaglie durante la guerra civile, dal 1992 al 1995. La lista delle presunte vittime di Srebrenica contiene addirittura nomi di uomini ancora vivi.

 

Intendete appunto quelli che più tardi avrebbe votato alle elezioni...?

 Esatto. Nelle elezioni bosniache del 1996, le liste elettorali contenevano circa 3.000 musulmani bosniaci che figuravano tra le "vittime di Srebrenica". Ciò sottolinea ulteriormente il fatto che il cosiddetto Tribunale dell'Aia non abbia ancora nessuna prova del "genocidio di Srebrenica". Ma che, invece, si basa sulle affermazioni del croato Drazen Erdemovic, che è stato provato esser totali menzogne, come ha dimostrato nel suo ultimo libro il giornalista bulgaro Germinal Civikov.

 

Il Tribunale dell'Aia non la pensa così...?

 L'ex portavoce della NATO Jamie Shea nel 1999 ha dichiarato che, senza la NATO, non vi sarebbe nessun Tribunale dell'Aia. Ha asserito che la NATO ed il Tribunale dell'Aia sono "alleati ed amici". Tra gli altri, l'esempio che conferma la sua affermazione è il caso del [Colonnello] Vidoje Blagojevic, condannato ad un lungo periodo di prigione a causa dei fatti di Srebrenica, anche se assolutamente innocente. Così, la NATO punisce i suoi avversari attraverso il Tribunale dell'Aia mentre, allo stesso tempo, protegge i suoi alleati. La storia della guerra civile jugoslava è stata scritta dagli aggressori.

 

Perché hanno fatto pressioni sui serbi?

 I serbi non si sono mai alleati con nazioni imperialiste. Nei secoli passati, i serbi combatterono contro tutti gli aggressori e le forze fasciste. E invece che ottenere rispetto e gratitudine, sono stati ricompensati con le sanzioni e le bombe della comunità internazionale e con una meticolosa e totale demonizzazione da parte dei media occidentali. Il mondo di oggi è dominato dai criminali e dagli psicopatici che si definiscono democratici.

 

Cosa vi ha spinti a studiare i fatti di Srebrenica?

 Da quattordici anni interi faccio ricerche su Srebrenica e sul presunto genocidio che l'esercito serbo-bosniaco avrebbe commesso contro i musulmani bosniaci perché, già verso la fine della guerra in Bosnia-Herzegovina, è divenuto chiaro che l'occidente non abbia intenzioni oneste verso le nazioni di quel paese. Non potevo accettare il pensiero che al mondo, di quella guerra, venisse imposta una descrizione che si accorda soltanto con gli interessi della NATO. Sfortunatamente, questo è precisamente ciò che è accaduto

 

Perché lei è restio a promuovere personalmente il suo libro?

 A questo punto, dopo una scrupolosa ricerca che mi ha impegnato per molti anni, da quando ho scoperto prove irrefutabili su quello che è realmente successo a Srebrenica, prove di cui la gran parte della gente è inconsapevole, ho deciso che non voglio attirare l'attenzione su me stesso. E' il libro che è importante, il libro dice tutto.

 

"Srebrenica - La storia del razzismo da salotto" sarà presto pubblicato in tedesco. Sarà tradotto in serbo o in qualche altra lingua?

 L'editore del mio libro, Kai Homilius di Berlino, intende pubblicarlo in lingua serba ed inglese. Abbiamo deciso di farlo uscire prima in tedesco, dal momento che il pubblico di lingua tedesca non ha veramente nessuna idea della propaganda su cui è costruito il mito di Srebrenica. L'edizione tedesca del libro sarà pubblicata attorno alla metà del prossimo mese.

Alexander Dorin

Zoran Jovanovic

Scopri di più
di Giuseppe A. Spadaro Mariagrazia De Luca di Giuseppe A. Spadaro Mariagrazia De Luca

L’albero del Bene - San Francesco teologo cataro: paralipomena

Giuseppe A. Spadaro, 17 maggio 2015

Perché la tesi che San Francesco d’Assisi fosse segretamente un cataro suscita tanto stupore e sconcerto? Come scrivevamo nell’Introduzione a L’albero del Bene, due sono i principali ostacoli che si frappongono al riconoscimento dell’eresia catara in Francesco: 1°, una erronea valutazione del cristianesimo storico; 2°, l’ignoranza del vero pensiero cataro. Circa il primo ostacolo, si dimentica troppo spesso che, come affermava Ernesto Buonaiuti, "il cristianesimo genuino è nel suo midollo tremendamente dualista". In questi ultimi tempi il Clero tenta di accreditare il cristianesimo come religione della vita, trascurando la I Epistola di Giovanni (epistola canonica!) che, ai versetti 2, 15/16 recita:"Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel mondo: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre ma dal mondo". Sull’insanabile contrapposizione fra Dio creatore del mondo e il mondo creato da Dio, torneremo parlando del Cantico delle creature.

Circa il secondo ostacolo, l’ignoranza del vero pensiero cataro, essa è talmente diffusa, che perfino Chiara Frugoni, Ordinaria di Storia del Medioevo, consultata circa la nostra tesi, il 1° febbraio 2005 ci fece la seguente disarmante ammissione: "Lei sui Catari ne sa senz’altro più di me […] Io mi sono un po’ persa, non mi è chiaro in che cosa credessero i Catari che Francesco poteva conoscere […] Se ci sono degli elementi catari perfino nel Vangelo, allora chiunque può essere Cataro". A dissipare tale ignoranza, nell’Introduzione a L’albero del Bene elencavamo in cinque punti la dottrina dei Catari: 1°, il loro libro sacro era il Vangelo, ma essi si avvalevano anche di apocrifi. 2°, l’Inferno era per loro questa vita, ma in funzione purgatoria. 3°, sull’autorità di Lc. 12, 58-59 essi credevano nella reincarnazione (il carcere), da cui non ci si libera finché non si sia “pagato fino all’ultimo centesimo”. 4°, le anime umane non sono create da Dio al momento del concepimento, ma sono spirituale progenie di un Angelo caduto, Adamo. 5°, negando l’onnipotenza di Dio nel temporale, essi lo sollevavano dalla responsabilità di fare il male due volte, permettendolo prima e punendolo poi.

 

Vale dunque la pena di ricordare il giudizio di F. Zambon (“La cena segreta”, Adelphi 1997): "Le Bibbie in uso presso i Catari non differivano granché da quella ortodossa: al massimo potevano presentare alcune lezioni proprie delle lezioni latine anteriori alla Vulgata geronimiana". Era piuttosto l’interpretazione che davano i Catari, a fare una differenza non solo formale ma sostanziale e dottrinaria. Il Figliuol prodigo era Adamo che, lasciata la casa del Padre, dissipa la sua eredità. Il Fattore infedele era Lucifero che, incontrato l’altro servo (Adamo), lo fa rinchiudere nella prigione (il corpo) finché non abbia pagato fino all’ultimo centesimo. Ebbene, il marchio del catarismo nel Sacrum commercium beati Francisci cum Domina Paupertate è costituito dall’interpretazione della parabola del Buon Samaritano. Dopo il peccato Adamo si trova nudo:"Et nudus vere erat, quod, de Jerusalem in Jericho descendens, incidit in latrones, qui expoliaverunt eum bonae naturae, amissa similitudine Creatoris". Colui che sulla strada da Gerusalemme a Gerico s’imbatte nei ladroni, che “lo spogliano della sua eredità, la sua simiglianza col Creatore”, è dunque Adamo spogliato da Lucifero, mentre il buon Samaritano venuto a soccorrerlo, è Gesù.

 

Se il tema della caduta è centrale nel cristianesimo, nella scuola francescana esso acquista il valore di un’esperienza esistenziale. È così che   l’interpretazione catara della parabola del Buon Samaritano da parte di Francesco ci riporta al 4° dei punti sopraelencati, in cui la dottrina dei Catari dissente da quella ecclesiale: le anime umane sono spirituale progenie di un angelo caduto, Adamo. Quanto tale considerazione ci porti lontano dall’ortodossia,  lo dice la lectio tenuta da Benedetto XVI il 10 marzo 2010:"San Bonaventura tra i vari meriti ha avuto quello di interpretare autenticamente e fedelmente la figura di san Francesco d’Assisi. Ai suoi tempi una corrente di frati minori, detti spirituali, sosteneva che con san Francesco era stata inaugurata una fase totalmente nuova della storia, sarebbe apparso il Vangelo eterno, del quale parla l’Apocalisse, che sostituiva il Nuovo Testamento. […] È comprensibile perciò che un gruppo di francescani pensasse di riconoscere in san Francesco l’iniziatore del tempo nuovo, e nel suo ordine la comunità dello Spirito Santo, che lasciava dietro di sé la Chiesa Gerarchica […] Vi era dunque il rischio di un gravissimo fraintendimento del messaggio di san Francesco, della sua umile fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, e tale equivoco comportava una visione erronea del cristianesimo nel suo insieme".     

 

Su tale lectio ci limiteremo a citare quanto scrivemmo in Dell’imitazione e della memoria (Edizioni Bibliotheca 2012, p. 63):"Che gli Spirituali abbiano frainteso il messaggio di Francesco senza che il Santo abbia loro fornito il benché minimo appiglio, è una tesi di cui è facilmente dimostrabile l’inconsistenza. Perché Bonaventura ordinò ai frati di distruggere le prime biografie del Santo? L’estrema durezza con cui egli stroncò il movimento degli Spirituali è così ricordata nella Chronica tribulationum del Salimbene:"Tunc enim sapientia et sanctitas fratris Bonaventurae eclipsata et obscurata est et ejus mansuetudo ab agitante spiritu in furorem et iram defecit". Egli fissò a Narbona il primo Capitolo del suo generalato. Ai frati Conventuali tracciò un programma tendente a riportarli all’osservanza della Regola. Gli Zelanti invece li convocò a Città della Pieve, dove un tribunale ecclesiastico li condannò alla prigione perpetua. Ma cancellando le tracce del Testamento di Francesco, egli tradì la memoria del Fondatore.

 

La congiuntura storica giustificava la durezza con la quale Bonaventura, al secolo Giovanni Fidanza da Bagnoregio, stroncò il movimento degli Spirituali? Con tale durezza egli intendeva salvaguardare la sopravvivenza dell’Ordine, minacciato dallo scontro di due opposte fazioni, oppure la sopravvivenza del Papato, che sembrava giunto al redde rationem? Non dimentichiamo che, appena eletto Ministro Generale, egli trascinò davanti a un tribunale ecclesiastico il suo predecessore Giovanni da Parma e lo fece condannare alla prigione perpetua. Per tali meriti egli fu da Gregorio X creato cardinale, un esito aborrito da Francesco, che nel Testamento lo aveva vietato ai frati Minori. Ne I Fioretti di San Francesco, un’opera anonima della fine del XIII° secolo, c’è una descrizione assai colorita del trattamento riservato a Bonaventura, al quale Francesco taglia"l’unghie di ferro aguzzate e taglienti come rasoi".    

 

In quella sua lectio Ratzinger accomunava"fedeltà al Vangelo e alla Chiesa", ma al Vangelo erano fedeli solo i Catari, la cui eresia consisteva nel seguirlo ad litteram come san Francesco. Alla Chiesa di Roma i Catari contestavano non solo l’origine apostolica, i sacramenti e la gerarchia ma, in base al versetto evangelico: L’albero si giudica dai frutti, ne condannavano i costumi e la corruzione. Ma contestandone l’origine apostolica, a quale Chiesa si rifacevano i Catari? “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, ma nel nostro caso è Ratzinger a togliere il coperchio alla pentolaccia del diavolo. Nella lectio tenuta il 7 aprile 2011, Lunedi dell’Angelo, egli fece sfoggio della sua cultura, e per ricordare ai sacerdoti, travolti dallo scandalo dei preti pedofili, che sono chiamati a essere angeli, il “papa teologo” ricordò che"il termine angelo, oltre a definire gli Angeli, è anche uno dei titoli più antichi attribuiti a Gesù".

 

Ma andando a rimestare nella “Storia delle dottrine cristiane prima di Nicea - Trinità e angelologia”, papa Ratzinger commise un’imperdonabile imprudenza:"Angelo è uno dei nomi dati al Cristo fino al IV secolo. Tende poi a sparire a causa della sua ambiguità e dell’uso che ne avevano fatto gli Ariani. Il testo essenziale che assimila Michele al Verbo e Gabriele allo Spirito Santo è l’Ascensione di Isaia. Si nota in esso un indiscutibile subordinazionismo", aveva scritto Jean Daniélou. Il Concilio di Nicea (325 d. c.), in cui fu proclamato il dogma della consustanzialità (omoousìa) fra il Padre e il Figlio, costituisce lo spartiacque fra il cristianesimo attuale e quello dei primi tre secoli. Ecco perché il Daniélou accusava di subordinazionismo quell’Ascensione di Isaia diventata dopo il Concilio di Nicea, insieme a La cena segreta, uno dei testi in uso presso i Catari. Il nuovo dogma trinitario lo escludeva di fatto dall’ortodossia cristiana, relegandolo tra le eresie, tra cui spiccava quella di Ario, in cui il rapporto del Figlio col Padre era decisamente di subordinazione.

 

Queste considerazioni non sono prive di relazione con la visione ch’ebbe Francesco, riferita dal Celano nella Vita Prima, che non fu quella del Cristo crocifisso, bensì quella d’un uomo con sei ali, a guisa d’un Serafino bellissimo. Per i Catari il Cristo non venne in carne sulla terra, ma fu un Angelo inviato dal Padre a svegliare Adamo dal sonno in cui lo aveva immerso Lucifero. Indagando sull’angelologia ebraica, troviamo peraltro la spiegazione del termine Figlio riferita al Cristo (l’ Unto Re, da Chrisma: olio sacro). Da “L’uomo e l’assoluto secondo la Cabbala” di Leo Schaya, apprendiamo infatti che il Messia doveva essere la reincarnazione d’un essere celeste, l’arcangelo Michele, chiamato dagli Ebrei Figlio di Dio. Ecco ricorrere nei Vangeli la domanda: - Sei tu il Cristo? – Gesù lo nega, e rifiuta quel pesante fardello.

 

Non scendiamo nel merito degli equivoci impliciti in quel rifiuto. Rileviamo che un punto fermo nella esegesi del Buon Messaggio di Gesù, è la sua ostilità al culto sacrificale del Tempio. Veniamo così a uno dei principali scogli contro cui inciampa la controversistica cristiana. Perché Gesù caccia i mercanti dal Tempio? Non sa che per offrire i sacrifici occorre acquistare dai mercanti buoi, pecore o colombe, e che i cambiavalute devono tenere i loro banchi per i pellegrini venuti dai luoghi lontani della diaspora? È dunque il sacrificio che Gesù non vuole: il suo Dio, il Padre che vede nel segreto, non è il Dio vendicativo del Vecchio Testamento. Epifanio lo conferma:"Gesù insegnava ogni giorno nel Tempio: Se non cesserete di offrire sacrifici, l’ira non desisterà da voi (Contra Haereseos, 30,16 – 4/5)". Da tale ostilità discende direttamente l’istigazione di Gesù a non pagare la tassa al Tempio. L’ironia di Gesù è d’una chiarezza incontrovertibile:"Che te ne pare, Simone? I re della terra da chi prendono i tributi, dai figli o dagli estranei? Pietro risponde: Dagli estranei! E Gesù prosegue: I figli dunque ne sono esenti! Ma per non scandalizzarli, va’ al mare e getta l’amo, il primo pesce che tiri su, aprigli la bocca e troverai uno statere. Con quello paga la tassa per te e per me!"

 

Chi vuole credere al miracolo, è liberissimo di farlo, ma la verità è solo una: Gesù non paga la tassa al Tempio. Ma che dire del divieto agli apostoli di Mt. 10,5:"Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani"? Sorge spontanea la domanda: siamo sicuri che Gesù volesse fondare una nuova religione? Al versetto 19,8 degli Atti degli Apostoli la troviamo definita"una nuova via". Essa riguardava soltanto gli Ebrei: da qui il divieto di estenderla ai pagani:"Non sono venuto per abolire la Legge ma per portarla a compimento". La nuova via nell’ebraismo era quella tracciata dalla predicazione di Gesù contro il culto sacrificale del Tempio: "Se tu vuoi pregare, entra nelle tua cameretta e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto, e il Padre tuo, che vede nel segreto ti ascolterà".

 

Pur riallacciandosi a una linea di profetismo, la"nuova via" costituiva una rivoluzione nel modello culturale ebraico, "poiché è rimozione o risoluzione in atto, se non in dottrina, della contraddizione d’origine dello yahvismo, fra l’universalismo di Dio e il particolarismo dell’Alleanza", afferma Marcel Gauchet (“Il disincanto del mondo - una storia politica della religione dell’uscita dalla religione”, Einaudi 1992 p. 156). Non mancano infatti gli autori, anche israeliti, (v. Simone Weil), che giudicano"immorale" l’Antico Testamento. Già il concetto di"popolo eletto" sfugge a ogni tipo di classificazione religiosa, ricordando piuttosto la protezione che, nell’ambito del politeismo (v. nell’Iliade) Atena accordava agli Achei e Apollo ai Troiani, particolarismo inammissibile per il Dio unico. In quanto Dio etnico, questo era un Dio geloso, che occorreva placare col sacrificio di vittime animali, sopravvivenza del sacrificio umano, come è dato congetturare dal mancato sacrificio di Isacco.

 

Anche sotto un altro aspetto la predicazione di Gesù è rivoluzionaria rispetto al modello culturale ebraico. Affermando: "Il mio Regno non è di questo mondo", Gesù ribalta la promessa originaria fatta ad Abramo. "Mais l’éritage du monde, ce n’est pas l’éternité bienhereuse dans le ciel, c’est le bonheur des croyantes, des justes, sur la terre. La Génese disait (XXII, 17): Ta posterité héritera les villes des adversaires", scriveva Alfred Loisy (Les origins du Nouveau Testament, p. 45)Il rilievo del Loisy basterebbe a misurare la distanza fra l’Antico Testamento e la "nuova via" tracciata da Gesù, distanza che fu a lungo rispettata sulla base di un passo evangelico, Mt. 21,28-31, la parabola dei due figli, quello che promette e non mantiene (il popolo ebraico), e quello che mantiene (il cristiano).

 

Quella distanza fu inopinatamente rotta da Calvino, che a Ginevra decretò che ai nuovi nati fossero imposti nomi tratti dall’Antico Testamento. A quest’atto formale egli affiancò un sostanziale stravolgimento del messaggio cristiano. "Discostandosi dal luteranesimo, il calvinismo non fa che additare nel successo pratico la manifestazione inappellabile dell’elezione predestinatrice di Dio. La parabola dei talenti è interpretata nel suo significato più letterale e, per un singolare rovesciamento di parti la formula calvinistica finì per trasformarsi in: Solo a Mammona gloria", commenta Ernesto Buonaiuti (Storia del cristianesimo, Newton & Compton 2002, pp. 835-837). Contribuendo all’affermarsi progressivo della secolarizzazione (Cfr. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber), il calvinismo finisce col riconoscere nel successo materiale l’elezione divina, identificandosi col governo mondiale dei Banchieri. L’adeguamento con lo spirito ebraico è così completo: la promessa fatta ad Abramo si è compiuta. 

 

Nato in ambito ebraico, poteva il cristianesimo rifiutare l’eredità dell’Antico Testamento? La risposta risentita venne il 17 dicembre 2009 dalla rivista Il Culturista: "Nel tentativo di ribaltare l’ovvia verità, Spadaro fa uso della sua vasta erudizione e della sua acribia, ma non riesce a convincere il lettore". Facendosi interprete di tutti i lettori, pochi in verità, Il Culturista si diceva non convinto della nostra tesi, il che ci lascia indifferenti. La motivazione invece riapre una vecchia questione che vale la pena approfondire: "Spadaro, tradizionalista in sintonia coi moderni (Schelling e Hegel) e coi postmoderni (BenjaminWeil e Bloch), dichiara infatti la condivisione della tesi sull’opposizione di Cristo al Dio d’Israele, tesi che sta a fondamento dell’eresia gnostica".

Sullo spinoso problema dello Gnosticismo, per stabilirne l’autentica natura fu necessario tenere un convegno a cui parteciparono i maggiori esperti della materia (Messina 1966). Ebbene, Marcione, il maggiore rappresentante della "tesi sull’opposizione tra Cristo e il Dio d’Israele", non venne ascritto all’eresia gnostica. Che non sia agevole distinguere fra le tante scuole gnostiche, forse Il Culturista non s’è reso conto. Quanto ai Catari, definiti di volta in volta gnostici e addirittura neomanichei, il Concilio Vaticano II ha fatto finalmente giustizia, riconoscendoli per quel che credevano di essere: veri cristiani. Ma, al di là della questione nominalistica: gnosticismo o non gnosticismo, esiste una questione inoppugnabile: l’esasperato e frustrante dualismo dei Catari trova piena rispondenza nella I Epistola di Giovanni: "Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel mondo: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre ma dal mondo".

Fra il Dio creatore del mondo e il mondo creato da Dio esiste dunque insanabile contraddizione? E perché Marcione, che identificava il Dio d’Israele col malvagio Demiurgo sottraendosi all’inganno diabolico della riproduzione, non viene qualificato gnostico? A venirci in aiuto è la dottrina della doppia creazione. Esistono dunque due nature? "La natura è in primo luogo spirituale, e il suo apparire come natura corporea ordinaria non è separabile dall’evento della Caduta". La prima creazione resta dunque in eterna relazione col Creatore, ed è quella a cui Francesco innalza il Cantico delle Creature. Il concetto di prima seconda Creazione può sembrare eretico a chi non è aduso a sottigliezze metafisiche, ma non a chi, mettendo da parte posizioni ottimistiche, mette l’accento sulla morte: "Lungi dall’essere un inno pagano alla vita in questo mondo, il Cantico si ispira totalmente all’altra vita. Francesco proclama la bontà delle creature dopo che ha la certezza che lo conducono al Regno di Dio", scrive P. Ignace-Etienne Motte (Mundo, vida y muerte en el Cantico, in Selecciones de franciscanismo, Valencia 1976). Suae salvationis securus factus, Francesco canta le lodi di quella natura, alla quale un tempo attribuiva "il non comune potere di corrompere il vigore dell’animo", tanto che"reputava stolti tutti quelli che hanno il cuore attaccato a beni di tal sorta (CelanoVita Prima)".

 

Non c’è cenno però nel cantico alla forza fecondatrice della natura, che fa crescere le messi e maturare i frutti, e questo ci riporta all’odio dei Catari per la riproduzione. Ma la confutazione del frusto argomento che il Cantico delle creature sia un manifesto anticataro, la troviamo in La concezione della natura in san Francesco d’Assisi di Artemisia Zimei (Libreria Pontificia, Roma 1929): "Comunemente si crede che il Cantico delle Creature abbia una spiccata analogia con due dei Salmi di David e con il Cantico dei Tre Fanciulli nella Fornace. Anzitutto il Salmo XCIV è soltanto un inno al Dio creatore da cantarsi nei riti sacrificali del Tempio. Francesco non esalta le creature e tanto meno le cose, invece nel Salmo XCIV il biblico Re scioglie un peana alla vita. Con attributi coloriti e leggiadri il Serafico si limita a menzionare gli elementi e le creature visibili, anelanti a ricongiungersi con Lui in sorella morte". Il Cantico è dunque tanto lontano dall’essere un inno di ringraziamento alla vita, quanto il chèrigma di Gesù è lontano dal culto sacrificale del Tempio.

 

Scopri di più
di Airis Masiero Mariagrazia De Luca di Airis Masiero Mariagrazia De Luca

Sentenza Liceo Darwin di Rivoli: questioni e dubbi. Storia di un edificio scolastico tramutato in Scuola della morte

Airis Masiero, 5 marzo 2015


Liceo Darwin, Rivoli, 22/11/2008: a seguito dello sbattere di una porta crollava il soffitto della 4G causando la morte di uno studente e danni permanenti ad un altro, per l’urto contro un pesante tubo di ghisa rimasto a giacere nel controsoffitto.

Solo dopo si scoprì che il soffitto presentava carenze strutturali gravi: l’unico segno di rischio rilevabile ex-ante erano delle microscopiche fessurazioni (cricche) in corrispondenza degli agganci (pendini), non rilevabili a un esame visivo.

Nato come Seminario su progetto di Alessandro Villa (1935), ingegnere romano chiamato ad hoc dall’arcivescovo Maurilio Fossati (1930-65), l’edificio viene affittato, dal 1974, poi venduto alla Provincia di Torino (1982), alla modica cifra di 6,35 miliardi di lire. Tra il ‘62 e il ‘64 “ignoti costruttori” realizzano un solaio sospeso molto pesante, con tramezzi, il cui vano tecnico ispezionabile (h 107 cm), per 44 anni non è mai stato oggetto di controllo. Il soffitto viene modificato al cambio di destinazione d’uso (da seminario a scuola) con la demolizione degli originari tramezzi (1981), dall’arch. Delmastro.

Secondo i CT dell’accusa rinforzando i pendini il crollo non sarebbe avvenuto; dalla relazione dei proff. Barla, Debenedetti, Pistone (Politecnico di Torino) emersero difetti strutturali del controsoffitto sin dalla sua realizzazione: interasse dei pendini 2-3 m anziché 1 come previsto per i soffitti Perret e conseguente usura per l’eccesso di sollecitazione: un soffitto in arci-economia commissionato dalla Diocesi allora proprietaria, in cui ogni pendino sopportava un carico 8 volte superiore al dovuto.

Gli ignoti costruttori, nel costruire un soffitto Perret non a norma, attribuirono ai tramezzi… un significativo ruolo di supporto. Evidente la responsabilità dell’architetto della Provincia, che non colse tale peculiarità, con l’aggravante che era stata notata una situazione critica in un soffitto analogo: demolendo i tramezzi, aveva egli stesso evidenziato la necessità del rinforzo dei tavelloni, e nel 1983 la Provincia approvò lavori di ristrutturazione al piano superiore, durante i quali vennero evidenziate carenze strutturali, che portarono ad una perizia suppletiva che individuò la insufficiente stabilità della controsoffittatura in tavelloni in seguito alle modifiche apportate in fase di demolizione, di conseguenza prevedeva rinforzi mediante creazione di punti di aggrappo in ragione di 1 al mq, con tiranti di s. 4 mm. Il certificato di idoneità statica di quella perizia, affidato alla ditta esterna Global Service, non è mai stato prodotto, né rinvenuto.

Secondo l’accusa, la prima sentenza, con un solo colpevole, lasciava spazio ad una componente di accidentalità inaccettabile. Con la sentenza di secondo grado, si perviene alla conclusione di ritenere l’evento evitabile adottando determinate regole di diligenza.

Va detto che tutti, eccetto l’arch. Delmastro, ignoravano l’esistenza del solaio sospesonessuno ne ha mai ispezionato la botola, dalla quale si sarebbe potuta vedere l’eccessiva distanza dei pendini.

I consulenti della difesa (Napoli e Indelicato, Politecnico di Torino) hanno individuato invece, non nell’interasse, ma nelle micro fessurazioni dei pendini l’unica causa del crollo (vizio occulto non visibile): in presenza di tutti gli altri difetti (eccessiva distanza, pesi accidentali) e senza la criccatura, il crollo non si sarebbe verificato. Secondo i CT della difesa l’interasse irregolare e i pesi erano aspetti tali da non far dubitare sulla sicurezza del soffitto (anche a seguito dell’apertura della botola, che per essi era ininfluente); il difetto delle cricche ai pendini sarebbe stato individuabile solo tranciando dei pezzi e analizzandoli in laboratorio. E in sede di controllo manutentivo corre l’obbligo di smontare una struttura solo in presenza di segni di dissesto evidenti. In assenza di segnali, i RSPP non avrebbero dovuto nutrire timori e dunque fidarsi dell’operato dei progettisti.

Viene richiamato anche il crollo di un soffitto Perret alla stazione di Biella (1998), di cui i responsabili avrebbero dovuto tener conto. Ma non è piuttosto l’organo che legifera che dovrebbe prender nota di questi casi, e provvedere con un dispositivo che imponga la verifica Anziché aspettare, com’è accaduto, la tragedia del 22/11/2008 ? (Intesa Rep. 7/CU 28/1/2009)

Gli unici che erano entrati nella botola erano gli addetti alla manutenzione che avevano lasciato materiali nel controsoffitto, incluso il tubo di ghisa, in tempi lontani; da tempi non precisati la botola era stata inchiodata perché si era rotta la chiave.

Si apprende che non è stato possibile ritrovare né il progetto architettonico né il progetto strutturale del solaioné il collaudo né la certificazione di idoneità statica. Il buon tecnico avrebbe dovuto verificarne l’assenza ... sapendo dell’esistenza del solaio.

Setacciando da cima a fondo la Provincia si è scoperto che le poche informazioni tecniche esistenti erano riposte in archivi e rimaste sconosciute agli operatori che avrebbero dovuto operare i controlli e che nemmeno c’era una sezione dei soffitti, salvo una, ritrovata negli scantinati della Provincia di Torino.

Vuol dire che per il Darwin - e chissà per quante altre scuole - non c’era un faldone con tutta la documentazione ordinata, ma il caos, il caso.

In tali condizioni, secondo la legge, i RSPP, che NON hanno acquisito conoscenze che come garanti della sicurezza si ha l’obbligo di acquisire e quindi hanno redatto un Documento di Valutazione del Rischio NON rispondente, sono concausa dell’evento dannoso con la loro colposa inerzia.

Se questo è il grado di efficienza della Provincia di Torino, immaginarsi in altre zone del Paese. Quante sono le scuole il cui RSPP riesce a scandagliare TUTTI i dati e gli stipi possibili e stendere poi un DVR che individui TUTTA la Valutazione del Rischio?

Perché questo chiede loro la legge, ponendo a carico del garante l’obbligo della vigilanza che presuppone sempre la conoscenza dei rischi da governare, conoscenza che deve essere completa. La legge 626/1994 (Art. 4) prevede l’obbligo di valutare TUTTI i rischi, assumendo che senza la consapevolezza dei rischi non è possibile una politica della sicurezza; ammettiamo allora che il legislatore ha sbagliato nome: al posto di quest’ennesimo acrostico RSPP (Responsabile del Servizio di Prevenzione e di Protezione), chiamiamolo Demiurgo della Sicurezza.

Sul Darwin, la documentazione si sarebbe detto che c’era (cfr. Relazione storica Liceo Darwin), qualunque RSPP ci sarebbe cascato: la Provincia ha effettuato 45 interventi di manutenzione straordinaria (1990-2008) e 249 interventi di manutenzione ordinaria (1999-2008). I RSPP avranno CREDUTO di avere tutta la documentazione (tener presente che la legge sulla sicurezza prevede l’obbligo di conoscere tutti i locali, incluso il vano del controsoffitto, e che i RSPP non sapevano che esistesse, e che per questo vengono condannati).

Immedesimandomi nell’architetto (come me docente di Disegno e Storia dell’Arte e architetto abilitato), anche sapendo del controsoffitto, in assenza di segnali visibili, con le perizie e le verifiche condotte sulle controsoffittature … dalla ditta incaricata dell’adeguamento alla Anagrafe dell’edilizia scolastica nel 2000, dalle quali non emergevano problemi statici, non so se mi sarei accanita a far divellere il plafone per aprire la botola e verificare quanto risultava già verificato da esperti più competenti di me. Al Darwin nessun segno tale da giustificare l’esigenza di schiodare la botola era emerso, fino all’istante del crollo.

I RSPP, assolti in primo grado ammettendo la sostanziale accidentalità del tragico crollo; vengono poi condannati perché quell’assoluzione avrebbe fornito giustificazioni agli imputati che, se confermate, sconvolgerebbero l’intero sistema su cui si fonda la tutela della sicurezza del lavoro.

Non si prende in considerazione che forse qualcosa nella normativa vigente va rivisto: la tutela della sicurezza del lavoro si basa su un sistema procedurale dove, in caso di incidente, il responsabile del DVR è colpevole SE NON ha valutato TUTTI i rischi. Cioè sempre: perché c’è sempre un dato sfuggito, un documento di cui si ignora l’esistenza, come insegna la drammatica vicenda di Rivoli.

La norma fa gravare su questa figura tutte le responsabilità: la sola circostanza di essere ritenuto capace innalza il livello di diligenza esigibile (Cassaz, IV, 11/3/2010 Catalano). Viceversa anche ritenutosi non sufficientemente capace, si impone che chieda il supporto di competenze più qualificate, essendo colposo lo stato di colui che, non essendo del tutto all’altezza del compito assunto, esegua il compito assunto senza farsi carico di tutti i dati tecnici necessari per conoscerlo e dominarlo (Sentenza 6-12-1990, Bonetti). Non c’è speranza, insomma.

Ciascun garante è per intero destinatario dell’obbligo di impedire l’evento (quindi anche responsabile del mal operato di chi l’ha preceduto), sia “capace”, sia “non abbastanza” capace.

Di contro, si prevede (D.Lgs 81/2008, art. 32) che il datore di lavoro anche da solo può predisporre il DVR in quanto detta normativa non richiederebbe alcuna elevata competenza specifica di settore … ben difficilmente il legislatore essendosi prefisso lo scopo di far svolgere al RSPP funzione di ingegnere strutturista, se non in presenza di segni di dissesto, datore di lavoro sul quale non cade la responsabilità perché non ha le competenze necessarie per riconoscere il pericolo. Questo dovrebbe darsi come insegnamento, per tutti i RSPP attualmente incaricati.

Peraltro, dopo la modifica dei locali, l’arch. Delmastro aveva affidato a una ditta esterna il compito di procedere all’Osservazione Sistematica Predittiva … preordinata all’esecuzione di un piano di osservazione del complesso edilizio, … affidato a un professionista esterno, dotato delle necessarie abilitazioni, e nel 2000 vengono fatti il certificato di rispondenza normativa, le ispezioni e le verifiche condotte sulle controsoffittature … dalla ditta incaricata dalla Anagrafe dell’edilizia scolastica).

Queste ispezioni e verifiche ai controsoffitti fatte da esperti esterni, dalle quali non erano mai stati segnalati difetti costruttivinon potevano che confortare i RSPP circa l’assenza di difetti strutturali e circa il concorso di competenze più qualificate. Secondo il primo giudice infatti, i 3 RSPP, 2 dei quali professori dello stesso liceo Darwin, non risulta che disponessero di quelle altissime competenze tecniche ritenute… indispensabili a leggere e comprendere i dati fattuali esterni. Invece proprio su questo punto vengono condannati, ritenendo incomprensibile che la responsabilità dovesse valere solo per il progettista e non per tutti coloro che avrebbero dovuto ispezionare la botola.

Si arriva così a 15 anni complessivi di pena, divisi in 4 anni per l’arch. della Provincia; 3 anni e 4 mesi ai 2 arch. successori; 2 anni e 9 mesi, 2 anni e 6 mesi e a 2 anni e 2 mesi ai 3 RSPP. In un’ottica di allargamento delle responsabilità per rendere giustizia, che mira alla ricaduta sociale e collettiva, si percepisce l’eccessività della pena. Ad esempio, il prof. Sigot per la carica di RSPP ricoperta per meno di un anno, che non individuò, nè valutò il rischio di crollo della controsoffittatura … e di conseguenza non individuò le misure da adottare per la sicurezza dei locali colpiti dal crollo, condannato per imprudenza, negligenza, imperizia e inosservanza della legge (art. 9 c. 1, 626/1994). La legge lo consente, ma il fatto stesso che aleggi una sensazione di ”ingiustizia” lascia spazio ai dubbi.

La legge include alcuni, ed esclude altri dalla responsabilità, in base alla competenza: nessuna responsabilità al geometra che era addetto ai sopralluoghi, ritenuto non abbastanza competente da individuare la pericolosità ispezionando il soffitto, anche se, al riguardo, “restano fondati dubbi”. In effetti, affermare che un geometra non sappia riconoscere l’eccessiva distanza dei pendini in un Perret! E’ la prova che cerca la responsabilità nella legge, fin dove la legge lo consente, e che la legge presenta delle carenze.

Lo Stato poi, nella fattispecie il MIUR, nel 2005-2006 ha fatto un esame degli interventi necessari all’edificio, effettuato da tecnici esterni (Percorsi Cifrati s.r.l.) ai fini della redazione della “Anagrafe nazionale dell’edilizia scolastica” (Legge 23/1996), escludendo anch’esso la necessità di interventi alle strutture portanti principali, solai e scale. Che responsabilità ha?

Dopo il crollo, il MIUR, se la cava con un documento di cui nemmeno si contesta l’origine “ex-post” (Intesa Rep. 7/CU 28/1/2009), finalizzato all’elaborazione … di specifiche linee guida, per il rilevamento … della vulnerabilità degli elementi, non strutturali, nelle scuole: come sempre candido, quanto a immagine e responsabilità. Degno di nota, visto che il crollo del Darwin ha rappresentato una vicenda di enorme incidenza, anche per il suo impatto sociale, sulla opinione pubblica, con molte manifestazioni pubbliche di partecipazione al dolore delle vittime.

Idem per l’ASL, limitatasi alla formale verifica dell’adempimento della prescrizione, scagionata con la seguente motivazione: per fare una verifica esaustiva avrebbe dovuto sostituirsi ai RSPP.

Se si tratta di individuare tutti i colpevoli, in maniera esemplare, perché una scuola non è un luogo dove si può morire, l’uomo della strada, che non conosce i meandri della legge, osserva che due occhi in più a notare che c’era una botola potevano contribuire a evitare la tragedia, e fa fatica a capire che la normativa ha previsto un deus ex machina, per la verità un po’ sfigato, chiamato RSPP, il cui ruolo comporta, per legge, l’assunzione di responsabilità.

Qui si è assunto che le competenze del RSPP debbano essere adeguate, e la responsabilità conseguente; pertanto MIUR, ASL ecc. sono esclusi poiché  i doveri, da parte dei garanti, prescindono dalle attività di controllo degli ispettori in quanto trovano origine direttamente nella legge e il soggetto obbligato non può indicare a propria discolpa il fatto che una determinata carenza non sia stata individuata dagli organi di vigilanza in sede di attività ispettive (Cass. pen.sez. IV 41832 14/11/2007). La reazione degli studenti del Darwin in protesta, all’indomani dell’ultima sentenza, a conferma dei dubbi, perché meglio di ogni altra considerazione esprime la sensazione che, in questa sentenza, o manca qualche imputato o ce ne sono troppi.

Qualche addetto inventato dalla legge come responsabile diventa il capro espiatorio di uno Stato che delega la responsabilità delle mancate valutazioni del rischio. Una sentenza che allevia lo Stato dai propri oneri anziché andare nella direzione auspicabile (correggere i punti deboli della legge), significativamente non trova il consenso degli studenti del Darwin.

Nell’attesa del ricorso in Cassazione, gli addetti alla sicurezza nella scuola si dovranno interrogare sulle conseguenze che avrebbe la conferma della sentenza di II grado sul loro ruolo.

Non ammettendo una inaccettabile incertezza per i rischi non valutabili, si arriva ad affermare l’impossibilità di accreditare l’inaccettabile conclusione per cui il sistema prevenzionistico vigente, quantomeno dal D.Lgs. 626/1994 in avanti, fondato sulla preliminare, adeguata valutazione dei rischi, tutti i rischi, troverebbe un limite nelle inadeguate competenze dei RSPP. Questi assumano dunque di diventare Sherlock Holmes, l’Uomo Ragno o Superman perché così ha predisposto il legislatore, così ha interpretato il giudice.

 

Non si può che concludere citando Piero Calamandrei: «C’è sulla piazza un impiccato condannato a morte dal giudice. La sentenza è stata eseguita; ma la sentenza era ingiusta: l’impiccato era innocente. Chi è responsabile di aver assassinato quell’innocente? Il legislatore, che nella sua legge ha stabilito in astratto la pena di morte o il giudice, che l’ha applicata in concreto? Ma il legislatore e il giudice, l’uno e l’altro, trovano il mezzo per salvarsi l’anima col pretesto del sillogismo. Così si rimandano la responsabilità e possono dormire, l’uno e l’altro, sonni tranquilli, mentre l’innocente dondola dalla forca».

 

Scopri di più
di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca

La revolución de la Nueva Cronología Entrevista con Anatolij Fomenko

Pietro Ratto, 16 de Julio de 2014

(Traducción al castellano: Andreu Marfull-Pujadas)

Profesor Fomenko, le gustaría resumir para nuestros lectores italianos sus teorías revolucionarias en relación a la línea de tiempo histórica llamada "scaligeriana", que considera errónea? Como usted sabe, la mayoría de las personas que actualmente utilizan la cronología oficial ni siquiera han oído hablar nunca de Joseph Scaliger...

 

La Nueva Cronología es una área importante de la investigación, abierta en el siglo XX por estudiosos rusos (A.T.Fomenko, G.V.Nosovskij, V.V.Kalašnikov, T.N.Fomenko). Un empuje en esta investigación ha sido el descubrimiento de que la versión de la cronología y la historia de la Antigüedad y la Edad Media, comúnmente seguida, ha sido sustancialmente adulterada, y requiere una revisión fundamental que incluye el siglo XVII. Hemos llegado a esta aseveración sobre la base de nuevos métodos matemáticos, estadísticos y astronómicos especialmente procesados por nuestro grupo. Nuestros resultados han mostrado que casi todas las antiguas fuentes escritas nos hablan de hechos ocurridos en el periodo comprendido entre los siglos XI y XVII. Esto es debido a que hubo una época en que se creó la historia mundial, entre los siglos XVI y XVII, y la mayoría de estas fuentes fueron fechadas incorrectamente, por lo que los eventos medievales descritos en ellas se trasladaron artificialmente varios cientos de años en el pasado, o incluso miles, creando imágenes reflejadas, fantasmas, sobre los acontecimientos ocurridos en los siglos XI y XVII. Como consecuencia, el cuerpo de ese "fantasma" pasó a comprender las "antigüedades". Hoy en día pocas personas saben que la historia global de la antigüedad es en realidad una creación relativamente reciente, fundada los siglos XVI y XVII gracias al trabajo de los cronologistas medievales J. Scaliger (1540-1609) y D. Petavius (1583-1652) y, posteriormente, "cementada" [consolidada] por los seguidores de su escuela. En los trabajos seminales de Scaliger y Petavius la historia de la antigüedad se muestra en la forma de un marco sin ninguna justificación científica. Su única base es la "tradición de la iglesia", pero en realidad el origen de esta tradición se remonta a la época anterior al siglo XVI. La Historia, entendida como "el arte de calcular fechas", es esencialmente una rama de las matemáticas aplicadas. Por esta razón Scaliger y Petavius se consideraban a ellos mismos matemáticos. Pero el problema es que, en la época en que vivieron, los métodos matemáticos y astronómicos eran todavía muy aproximados e imperfectos, un hecho que determinó la aparición de errores en la versión scaligeriana de la historia. Sólo las matemáticas y la astronomía de hoy han evolucionado hasta el punto de que podemos permitirnos crear nuevos métodos objetivos que proporcionan una datación fiable de los eventos antiguos.

Gracias a nuestros métodos, hemos encontrado graves errores en la datación de los acontecimientos en la versión de Scaliger-Petavius, que fueron trasladados cientos e incluso miles de años al pasado distante. Si usted piensa que la historia es la columna vertebral de toda la historia antigua, y que es fácil de entender el cambio de este "esqueleto", cambia radicalmente el edificio de la Historia. Si cambia la fecha, todo cambia! Nuestra Nueva Cronología cambia significativamente la visión del pasado hasta ahora aceptado. Sobre la base de la Nueva Cronología la historia escrita de la humanidad empieza sólo a partir de los siglos X y XI.

¿Qué pasó antes? Por desgracia, hoy en día, sobre la base de documentos escritos, no lo podemos saber.

 

En sus estudios a menudo se refiere a Nicolai Alexandrovich Morozov. Podemos aclarar el alcance de la contribución de este científico en sus teorías, así como las diferencias entre el enfoque de Morozov y el suyo?

Las dudas sobre la fiabilidad de la cronología de Scaliger no nacen hoy. Se habló de ellas desde un principio, desde el momento de su publicación, y se comenzó a difundir en la conciencia pública. El profesor De Arcilla, de la Universidad de Salamanca, se expresó contra la cronología de Scaliger. Luego vino el historiador y arqueólogo jesuita J. Hardouin (1646-1724), el famoso científico Sir Isaac Newton (1642-1727), el profesor alemán R. Baldauf (con unas publicaciones en los años 1902-1903), el historiador británico Edwin Johnson (1842-1901) y otros más. Pero el primero que, de un modo amplio y radical, planteó la cuestión de la base científica de la historia, fue el gran erudito enciclopedista N. A. Morozov (1854 - 1946).

Dio un paso adelante y justificó parcialmente la hipótesis de que la cronología scaligeriana fue alargada artificialmente en comparación con la realidad de los hechos. Analizó la cronología de Scaliger desde el presunto tiempo antiguo hasta el presunto siglo VI dC., haciendo hincapié en la necesidad de una revisión radical de las dataciones. Sin embargo, Morozov no se movió más allá del siglo VI dC. creyendo que la historia aceptada hoy en día, en relación con los siglos VI-XVII, era más o menos fiel. Sin embargo, esta opinión ha demostrado ser profundamente defectuosa. Morozov no fue capaz de localizar algún sistema en el caos que deriva de de la redatación. Nosotros, sin embargo, sobre la base de nuestros nuevos métodos de datación, hemos demostrado que la cronología de Scaliger necesita su revisión incluyendo el siglo VI hasta el siglo XVII (es decir, hasta el período anterior a la época del mismo Scaliger, que, dicho sea de paso, no es fiable). En consecuencia, nuestras dataciones difieren de las de Morozov en un promedio de más de mil años.

Nosotros sostenemos que sólo después de la mitad del siglo XVII la cronología adoptada hoy en día es más o menos correcta. Antes del siglo XVII las fechas reales de muchos acontecimientos importantes fueron empujados artificialmente al pasado en aproximadamente 100, 330, 1.050 o 1.800 años. Si usted quisiera restablecer la verdadera historia, debería replantearse la datación de Scaliger, adaptándola a las medidas correspondientes a estos movimientos cronológicos.

 

Una de las tesis centrales de su estudio se refiere precisamente a las citadas eruditos del Renacimiento De Arcilla o Hardouin que, en sus escritos, afirmaron que toda la historia y la literatura antigua se había compuesto en la Edad Media. Una teoría, esta, realmente desconcertante. Quiere explicarlo mejor?

Aquí es necesario hacer una aclaración importante. No nos apoyamos en absoluto en el trabajo de los científicos que afirman que toda la literatura antigua se ha hecho en el Medievo. Asimismo, creemos que este argumento es profundamente defectuoso. La versión de la historia conocida por nosotros hoy en día no se inventó de la nada. Por el contrario, creemos que los más famosos autores de la "antigüedad" -Heródoto, Tito Livio, Homero, Jenofonte, etc.- han descrito los acontecimientos reales de los siglos XII-XVII. Sus textos no son de ninguna manera imaginaciones caprichosas. Ellos realmente trataron de contar los hechos del pasado. Pero otra cosa es que estos textos fueran luego objeto de un filtro tendencioso, es decir, a través de la censura de los siglos XVII y XVIII. Los censores de la Reforma cambiaron los escritos de estos autores en la clave que creían correcta, introduciendo en primer lugar las fechas scaligerianas, inexactas, y empujando artificialmente los acontecimientos reales descritos por los autores antiguos hacia un pasado misterioso. En realidad la llamada antigüedad no es otra que la época correspondiente a los siglos XII-XVI. Por este motivo, al leer hoy en día las obras de los autores antiguos, siempre debemos hacernos la siguiente pregunta: cuándo y dónde tuvieron lugar los acontecimientos descritos en las crónicas? Los acontecimientos de por sí son reales pero, a menudo, como descubrimos, ocurrieron en otro tiempo, mucho más cercano al nuestro, y muy a menudo no se encuentran en las áreas geográficas que actualmente se consideran el teatro tradicional de los hechos. En otras palabras, usted debe preguntarse constantemente: ¿Qué nos dice, de hecho, un determinado texto?

 

¿Qué rol ha jugado entonces, en este camuflaje de la cronología histórica que ha identificado, la censura de la Iglesia Católica?

Como ya he dicho, en la época comprendida entre los siglos XVI y XVIII, se estableció un proceso de censura y revisión parcial de los textos antiguos, es decir, los textos de los siglos XII-XVI. Por supuesto, el papel de los revisores católicos fue notable. Como señala acertadamente el histórico Aron Jakovlevič Gurevič "en cada siglo de la historia se ha mantenido preferentemente la historia de la iglesia, que ha sido escrita principalmente por personas del clero". Sin embargo, no sólo los historiadores de la Iglesia católica participaron en la distorsión de la historia auténtica y la creación de la versión scaligeriana. No fue, de hecho, únicamente el resultado de los errores naturales en las fechas datadas, debido a la imperfección de los métodos matemáticos y astronómicos de los siglos XVI y XVII. Con frecuencia, fue una falsificación deliberada con el fin de crear un "nuevo modelo del mundo antiguo", para cambiar radicalmente el cuadro completo de la antigüedad.

Las motivaciones en la base de esta actividad falsificadora son muy importantes. Hemos sido capaces de descubrirlas y lo hemos explicado detalladamente en nuestros libros. Una razón importante era para ocultar la existencia, en los siglos XIII-XVI, de un imperio unificado que cubría grandes extensiones de Eurasia, Europa, África y América, y que hoy conocemos bajo diversos nombres, como "el antiguo Imperio Romano", "el imperio de Carlomagno", "el Imperio de Carlos V ","el Sacro Imperio Romano de la nación alemana ", "el Califato Árabe", "el Imperio de los Habsburgo", "el Imperio Mongol", etc. Este imperio se rompió a principios del siglo XVII a raíz de la revolución de la Reforma.

 

Personalmente, leyendo su interesante libro 400 años de engaño (Macro Edizioni), me llamó la atención las notables diferencias que en él se muestran, entre los testimonios históricos relativos a los antiguos eclipses y las características que deberían tener, cuando se han ajustado a la datación oficialmente atribuida por la cronología tradicional. Quiere hablarnos de ello?

Es cierto, es un efecto interesante. El hecho es que cronologistas y los astrónomos de los siglos XVIII-XX ya se cultivaron en la base de la cronología incorrecta de Scaliger. Cuando se ocupaban de datar eclipses "antiguos" (o "antiguos" zodíacos, es decir, imágenes que muestran la posición de los planetas de acuerdo con las constelaciones del zodíaco) ya "sabían de antemano" donde deberían haber sido colocados en el eje del tiempo, de acuerdo con la versión de Scaliger-Petavius. A saber, en los supuestos "tiempos antiguos". Pero, como hemos demostrado en nuestros estudios, estos "antiguos" eclipses lunares y solares se produjeron, de hecho, en la época comprendida entre los siglos XII y XVII.

Resultó que los astrónomos y los cronologistas, en su intento de encontrar la "solución que necesitaban" en el distante y antiguo pasado, finalmente se encontraban en un aprieto. La solución adecuada, la "muy antigua", simplemente no existía. Así que los astrónomos hicieron uso de una serie de artimañas, como alargamientos, tratando de no identificar la solución astronómica precisa, pero aportando una solución que satisfacía parcialmente las circunstancias descritas en la fuente antigua. En otras palabras, se dio paso al fraude con el fin de salvar a la equivocada historia scaligeriana.

Si usted trata de identificar las soluciones astronómicas precisas, para satisfacer todas las condiciones descritas en los documentos "antiguos", las soluciones están en el rango de los siglos XII-XVII, y desde luego no en la antigüedad. Es obvio que en este caso la astronomía entra en grave conflicto con la versión apoyada por el cronologista Scaliger. Pero los historiadores y los astrónomos tratan de pretender que "todo está bien", sobrevolando las diferencias notables entre la astronomía y las dataciones scaligerianas de los eclipses y los zodíacos (horóscopos).

 

¿Esto significa, profesor, que un erudito y un maestro importante como usted asume una posición como "contra-histórico", por lo no convencional? ¿Qué dificultades ha encontrado, y todavía está encontrando, entre sus colegas y los historiadores "tradicionales"?

Nuestros estudios son de gran interés para la comunidad científica y el público en general, y algunos libros han sido traducidos a idiomas extranjeros. Muchos estudiosos de disciplinas científicas (matemáticas, física, etc.) nos apoyan. Al mismo tiempo, muchos historiadores se oponen a nuestra investigación, pidiendo en voz alta la prohibición de su difusión. Por desgracia, no tenemos noticias de sus objeciones constructivas. Nuestros métodos y resultados estadísticos no son impugnados por cualquier persona de manera significativa. Normalmente nuestros oponentes se centran en nuestras suposiciones y en nuestra reconstrucción de la historia real, a pesar de que constantemente reiteramos que nuestra reconstrucción es en gran medida hipotética.

Al mismo tiempo, podemos garantizar la fiabilidad de nuestros cálculos y las fechas a las que llegamos, sobretodo porque son verificables y los podemos repetir. En general, sin embargo, se trabaja en un ambiente de tensión, en un ambiente de lucha contra la Nueva Cronología. Ciertamente, por otra parte, muchos jóvenes historiadores nos apoyan y nos dicen cosas

interesantes, pidiéndonos no nombrarlos, por miedo a provocar la reacción negativa de algunos de sus colegas de mayor edad. Espero que en un futuro próximo la Nueva Cronología sea percibida por los historiadores con más serenidad, y que la cooperación entre los matemáticos y los historiadores, que siempre proponemos, finalmente se lleve a cabo.

 

Desde mi experiencia, tal vez como te ocurre a ti, me he encontrado en ciertos momentos en una encrucijada, entre seguir aceptando y enseñar a mis muchachos un conjunto de "verdades", a menudo más ideológicas que basadas en los documentos y los hechos correspondientes, o bien renunciar a ellas negándome a seguir transmitiendo conocimientos e información que he pensado eran obviamente incorrectos. Yo he elegido el segundo camino, más que nada por escrúpulos de conciencia hacia mí y mis alumnos. Cómo ha vivido, y cómo vive, este escrúpulo? A qué ha tenido que renunciar y qué ha ganado, siguiendo la vía "contra-histórica"?

 Nosotros, al igual que usted, somos estudiosos y por ello lo principal para nosotros es la búsqueda y el logro de la verdad científica. Las dificultades externas que surgen en el camino, e incluso los ataques personales son, sin duda, un obstáculo para la investigación. Sin embargo, no nos vamos a desviar del camino elegido. Estamos muy contentos de ser capaces de crear una nueva ciencia en la encrucijada de las matemáticas, la astronomía y la historia, una ciencia llamada Nueva Cronología, que es muy clara en nuestra comprensión no sólo del pasado sino también del presente. Creo que este gran premio supera las pérdidas que hemos sufrido en este camino.

 

Le estoy muy agradecido, profesor, por haberme concedido esta entrevista.

 


Entrevista concedida exclusivamente por el profesor Fomenko a Pietro Ratto para In-Contro/Storia el 16 de Julio de 2014. Todos los derechos reservados. Para más detalles, consulte el sitio NUEVA CRONOLOGÍA 

 

Scopri di più
di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca

Революция Новой Истории Интервью с Анатолием Фоменко

Пиэтро Ратто, 16 июля 2014

Профессор Фоменко, Вы не смогли бы резюмировать для наших итальянских читателей свои революционные теории по отношению к официальной, так называемой «скалигерской» исторической хронологии, которую Вы считаете ошибочной? Как Вы знаете, большинство людей в настоящее время использует официальную хронологию, не имея никакого представления о том, кто такой Дж. Скалигер (о нем мало кто слышал).

 

Новая Хронология - это важное научное направление, открытое в XX веке несколькими российскими учеными (А.Т.Фоменко, Г.В.Носовский, В.В.Калашников, Т.Н.Фоменко). Оказывается, общепринятая сегодня версия хронологии и истории античности и средних веков существенно искажена и нуждается в ревизии, вплоть до XVII века включительно. Это утверждение было обнаружено нами на основе новых математических, статистических и астрономических методов, созданных авторами Новой Хронологии. В результате выяснилось, что практически все дошедшие до нашего времени старинные письменные источники говорят на самом деле о событиях, произошедших в эпоху XI-XVII веков. Однако в эпоху создания глобальной хронологии в XVI-XVII веках значительная часть этих источников была неверно датирована, в результате чего описанные в них средневековые события были искусственно сдвинуты на несколько сотен и даже тысяч лет в глубокое прошлое и создали там призрачный мираж, фантомное отражение событий XI-XVII веков. Этот фантом был назван "античностью".  Сегодня мало кто знает, что глобальная хронология древности была создана сравнительно недавно, в XVI-XVII веках средневековыми хронологами И.Скалигером  (1540-1609),  Д.Петавиусом (1583-1652) и «зацементирована» их учениками. В основополагающих трудах Скалигера и Петавиуса хронология древности приводится в виде таблицы без какого-либо научного обоснования.

Ее основой была объявлена «церковная традиция», однако истоки этой традиции также не прослеживаются вглубь времен ранее XVI века. Хронология, как «искусство вычисления дат» по существу является разделом прикладной математики. Поэтому Скалигер и Петавиус считали себя математиками, однако вся проблема в том, что в ту эпоху математические и астрономические методы были еще весьма грубыми и несовершенными, что и привело к появлению крупнейших ошибок в скалигеровской версии хронологии. Лишь в наше время  математика и астрономия развились настолько, что нам удалось создать новые объективные методы, позволяющие уверенно датировать древние события.

В результате, в версии Скалигера-Петавиуса мы увидели  ошибочные сдвиги истинных дат в далекое прошлое на сотни и даже тысячи лет. А ведь надо понимать, что хронология – это позвоночный столб всей древней истории. Изменение этого «скелета» радикально меняет все здание истории. Меняем даты -  меняется всё!  Наша Новая Хронология существенно меняет взгляд на сегодняшние представления о древности. Оказалось, что письменная история человечества начинается лишь с X-XI веков. Что происходило раньше – к сожалению, нельзя сегодня узнать на основе письменных документов.

 

В своих исследованиях Вы часто ссылаетесь на выдающего ученого Н. А. Морозова. Вы можете уточнить степень вклада этого ученого в  Ваши теории, а также различия между подходом Морозова и Вашим?

Сомнения в правильности хронологии Скалигера возникли не сегодня. Об этом заговорили сразу же, как только она была опубликована, и ее начали силой внедрять в общественное сознание. В XVI веке против скалигеровской хронологии выступил профессор Саламанкского университета de Arcilla. Затем иезуитский историк и археолог J.Hardouin (1646-1724). Знаменитый ученый Исаак Ньютон (1642-1727).  Немецкий приват-доцент R.Baldauf  (публикация 1902-1903 годов). Английский историк Эдвин Джонсон (1842-1901). И другие.  Но первым исследователем, по-настоящему широко и радикально поставившим вопрос о научном обосновании хронологии был замечательный русский ученый-энциклопедист Н.А.Морозов (1854-1946). Он выдвинул и частично обосновал гипотезу, что скалигеровская хронология древности искусственно удлинена по сравнению с реальностью. Он проанализировал скалигеровскую хронологию от якобы глубокой древности до VI века н.э. и указал на необходимость радикального исправления дат. Тем не менее, Морозов не продвинулся выше VI века н.э., считая, что здесь принятая сегодня хронология VI-XVII веков более или менее верна. Это его мнение оказалось глубоко ошибочным. Морозов не смог выявить какую-либо систему в хаосе возникающих передатировок.  Как мы показали, на основе наших новых методов датирования, хронология Скалигера нуждается в исправлении не до VI, а вплоть до XVII века (то есть до эпохи самого Скалигера, что, кстати, не случайно). Таким образом, наши датировки отличаются от морозовских в среднем на тысячу и более лет. Мы утверждает, что только после середины XVII века принятая сегодня хронология более или менее справедлива. Ранее же XVII века истинные даты многих важных событий были искусственно сдвинуты вниз примерно на 100 лет, или на 330 лет, или на 1050 лет, или на 1800 лет. Для восстановления истинной истории, теперь следует «поднять вверх» скалигеровские датировки на указанные выше величины сдвигов.

 

Один из главных тезисов Вашего исследовании опирается на работу некоторых ренессанских ученых, таких как De Arcilla или Hardouin, которые в своих трудах, утверждали, что вся древняя история и литература были сочинены в разгаре Средневековья. Поистине потрясающая теория. Вы не смогли бы нам пояснить ее подробнее?

Здесь нужно сделать важное уточнение. Мы вовсе не опираемся на работы тех ученых, в которых заявлялось, будто вся древняя литература сочинена в Средине Века. Более того, мы утверждаем, что такой тезис глубоко неверен. Известная нам сегодня версия истории вовсе не была выдумана из головы. Напротив, мы утверждаем, что основные знаменитые «античные» авторы – Геродот, Тит Ливий, Гомер, Ксенофонт и т.д. описывали реальные события XII-XVII веков. Их тексты – отнюдь не выдуманные фантазии. Они искренне пытались рассказать нам о прошлом.

Но другое дело, что эти тексты были потом пропущены через тенденциозное редактирование, через цензуру XVII-XVIII веков. Цензоры эпохи Реформации отредактировали этих авторов в нужном им ключе, и в первую очередь внесли ошибочные скалигеровские даты, искусственно отодвинув описанную античными авторами реальность в глубочайшее прошлое.  На самом деле античность – это эпоха XII-XVI веков. Поэтому, читая сегодня античных авторов, надо постоянно задаваться вопросом – когда и где происходили описанные события? События эти – реальные, однако, как выясняется, часто они происходили в другое время, куда более близкое к нам, и часто совсем те в тех географических регионах, как сегодня считается. Иными словами, нужно постоянно выяснять: о чем тут рассказано НА САМОМ ДЕЛЕ?

  

Какую роль сыграла цензура со стороны католической церкви в обнаруженном Вами искажении исторической хронологии?

Как я уже говорил, в эпоху XVI-XVIII веков была проведена цензура и тенденциозная обработка античных текстов, то есть текстов  XII-XVI веков. Безусловно, роль церковных католических редакторов была велика. Как справедливо отмечал историк А.Я.Гуревич, «на протяжении веков история оставалась по преимуществу церковной историей, и ее писали, как правило, духовные лица». Однако  не только католические церковные историки участвовали в искажении подлинной истории и создании скалигеровской версии. Речь идет не просто о естественных ошибках в датах, вызванных несовершенством математических и астрономических методов XVI-XVII   веков, а часто о преднамеренной фальсификации, с целью создать «новую модель древнего мира», радикально изменить всю картину древности. Причины этой деятельности очень важны, их удалось вскрыть, и мы подробно разъясняем их в наших книгах. Одним из ведущих мотивов было стремление скрыть существование в эпоху XIII-XVI веков единой Империи, охватывавшей огромные территории Евразии, Европы, часть Африки и Америки, и известной нам сегодня под различными именами, например, «античная Римская Империя», «Империя Карла Великого», «Империя Карла Пятого», «Священная Римская Империя германской нации», «Арабский Халифат», «Империя Габсбургов», «Монгольская Империя» и т.д. Эта Империя раскололась в начале XVII века в результате мятежа Реформации.

 

Когда я читал Вашу интереснейшую книгу 400 anni di inganni (400 лет обмана), меня особенно поразили значительные различия обнаруженные Вами  между историческими свидетельствами, касающимися древних затмений и теми характеристиками, которые они должны были бы иметь согласно датировкам, официально приписанным традиционной хронологией. Вы могли бы раскрыть эту тему?

Действительно, это интересный эффект. Дело в том, что хронологи и астрономы XVIII-XX  веков, воспитанные уже на базе ошибочной скалигеровской хронологии, приступая к датировке того или иного «античного» затмения (или «античного» зодиака, то есть изображений с указанием расположения планет по созвездиям зодиака), уже «заранее знали», где оно примерно должно располагаться на оси времени, согласно версии Скалигера-Петавиуса, то есть якобы «в глубокой древности». Но, как мы показали в наших работах, эти «античные» лунные и солнечные затмения на самом деле происходили в эпоху XII-XVII веков. В результате, астрономы и хронологи, пытаясь найти «нужное им решение» в глубокой древности, оказывались в тупике. Подходящего «очень древнего» решения просто не было. И тогда астрономы пускались на хитрости, начинали делать натяжки, отыскивая не точное астрономическое решение, а лишь частично удовлетворяющее требованиям, описанным в старинном источнике. Другими словами, шли на подлог. Лишь бы спасти скалигеровскую ошибочную хронологию. Если же отыскивать точные астрономические решения, удовлетворяющие всем условиям, описанных в «античных» документах, то решения оказываются в интервале XII-XVII веков, а вовсе не в глубокой древности. Тем самым, астрономия вступила в серьезное противоречие со скалигеровской хронологией. А историки и некоторые астрономы пытаются сделать вид, что «все в порядке», замалчивая разительные расхождения между астрономией и скалигеровскими датировками затмений и зодиаков (гороскопов).

 

Скажите пожалуйста, профессор Фоменко, что значит для такого важного ученого и преподавателя как Вы, занять сугубо "контр-историческую", нетрадиционную позицию? С какими трудностями Вы столкнулись и сталкиваетесь, общаясь с Вашими коллегами и "традиционными" историками?

 Наши исследования вызывают большой интерес научного сообщества и вообще широкой общественности. Наши исследования переводятся на иностранные языки. Многие ученые естественно-научных специальностей (математики, физики и т.д.) нас поддерживают. В то же время, многие историки выступают против наших исследований, громко требуя их запретить. К сожалению, содержательных возражений мы от них не слышим. Наши методы и статистические результаты никто содержательно не оспаривает. В основном, оппоненты сразу обрушиваются на наши гипотезы и реконструкцию подлинной истории, хотя мы постоянно подчеркиваем, что реконструкция пока во многом гипотетична. В то же время, мы гарантируем достоверность наших вычислений и полученных дат, тем более, что они доступны проверке и любой желающий может их повторить. Так что мы работаем в сложной атмосфере борьбы вокруг Новой Хронологии. Кстати, многие молодые историки нас поддерживают и сообщают интересные факты, но при этом просят не называть их фамилий, опасаясь отрицательной реакции некоторых своих старших коллег. Надеюсь, в недалеком будущем Новая Хронология начнет восприниматься историками более спокойно, и постоянно предлагаемое нами сотрудничество математиков и историков, наконец, состоится.

 

Жизненный опыт (в качестве преподавателя - Пьетро преподает историю и философию в одном лицее в г. Турине), меня, возможно, как и Вас, поставил перед выбором: принимать и продолжать преподавать своим ученикам классическую историю, со своими «истинами» часто более идеологическими, чем соответствующими документам и фактам, или же отказаться от всей этой информации, которую я считаю явно искаженной. Я выбрал этот второй путь, в основном ради своей совести и из чувства уважения к себе и своим ученикам.

А Вы, как Вы пережили и переживаете эту ситуацию? От чего Вам пришлось отказаться и что Вы выиграли, выбирая путь "против  течения»?

 Как и Вы, мы являемся учеными, а потому для нас на первом месте стоит поиск и достижение научной истины. Возникающие внешние трудности на этом пути, и даже личные нападки, конечно, усложняют исследования. Но мы стараемся не отклоняться от выбранного нами пути. Мы рады тому, что нам удалось создать новую науку на стыке математики, астрономии и истории, под названием Новая Хронология, которая многое проясняет в нашем понимании не только прошлого, но и настоящего. Думаю, что этот крупный выигрыш перевешивает потери, которые мы понесли на этом пути.

 

Я очень Вам благодарен, профессор, за то, что Вы предоставили мне возможность взять у Вас интервью.

 


Эксклюзивное интервью предоставлено от Анатолием Фоменко для  Pietro Ratto, IN-CONTRO/STORIA, 16 июля 2014.

Все права защищены. Для получения дополнительной информации, пожалуйста, посетите chronologia.org


Scopri di più
di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca

La rivoluzione della Nuova CronologiaIntervista ad Anatolij Fomenko

Pietro Ratto, 16 luglio 2014

(traduzione a cura di Vera Bani)

Professor Fomenko, Le farebbe piacere riassumere per i nostri lettori italiani le sue rivoluzionarie teorie in relazione alla cronologia storica cosiddetta “scaligeriana” che ritiene errata? Come Lei sa, la maggior parte delle persone utilizza correntemente la cronologia ufficiale senza nemmeno aver mai sentito parlare di Giuseppe Scaligero...

 

La Nuova Cronologia è un importante settore di ricerca inaugurato nel XX secolo da alcuni studiosi russi (A.T.Fomenko, G.V.Nosovskij, V.V.Kalašnikov, T.N.Fomenko). A spingerci in questa ricerca fu la scoperta che la versione della cronologia e della storia dell'antichità e del Medioevo comunemente seguita era sostanzialmente adulterata e necessitava di una revisione fondamentale che arrivasse  fino al XVII secolo compreso. A quest’asserzione siamo giunti sulla base dei nuovi metodi matematici, statistici e astronomici elaborati appositamente dal nostro gruppo. I nostri risultati hanno dimostrato che quasi tutte le fonti scritte antiche giunte fino a noi parlano di eventi accaduti nell’ epoca compresa tra i secoli XI-XVII. Il fatto è che nell'epoca in cui fu creata la cronologia globale, cioè nei secoli XVI-XVII, la maggior parte di queste fonti fu datata non correttamente, ragion per cui le vicende medievali in esse descritte furono artificialmente spostate di diverse centinaia, e persino migliaia, di anni nel passato fino a creare immagini riflesse, fantasmi degli eventi accaduti nei secoli XI-XVII. Questa dimensione-fantasma fu poi chiamata "antichità". Oggi pochi sanno che la cronologia globale dell'antichità è di fatto una creazione relativamente recente, nata nei secoli XVI-XVII per opera dei cronologisti medievali G.Scaligero (1540-1609) e D. Petavius (1583-1652) e successivamente "cementata" dai seguaci della loro scuola. Nei lavori fondamentali di Scaligero e Petavius la cronologia dell’antichità viene riportata in forma di tabelle senza alcuna giustificazione scientifica. L’unica sua base è la "tradizione della chiesa", ma di fatto anche le origini di questa tradizione non risalgono a tempi anteriori al XVI secolo. La cronologia, intesa come "l'arte di calcolo delle date" è essenzialmente una branca della matematica applicata. Per questo motivo Scaligero e Petavius si consideravano dei matematici. Ma il problema è che all’epoca in cui essi vivevano, i metodi matematici e astronomici erano ancora molto grezzi e imperfetti, fatto che determinò la comparsa di errori marchiani nella versione scaligeriana della cronologia. Solo ai tempi d’oggi la matematica e l'astronomia si sono evolute al punto tale da poterci consentire di creare nuovi metodi oggettivi in grado di fornire una datazione attendibile degli eventi antichi.

Grazie ai nostri metodi, dunque, abbiamo riscontrato nella versione di Scaligero-Petavius gravi errori nelle datazioni degli eventi, spostati di centinaia e persino migliaia di anni nel lontano passato. Se si pensa che la cronologia è la spina dorsale di tutta la storia antica si capisce facilmente che la modifica di questo "scheletro" cambia radicalmente tutto l’edificio della Storia. Se si cambiano le date, tutto cambia! La nostra Nuova Cronologia cambia in modo significativo lo sguardo sulla visione del passato attualmente seguita. Sulla base della NC risulta che la storia scritta dell'umanità inizia solo a partire dai secoli X-XI. Che cosa sia successo prima, purtroppo, oggi, sulla base dei documenti scritti, non lo possiamo sapere.

 

Nei Suoi studi fa spesso riferimento a N. A. Morozov. Ci può chiarire la portata del contributo di questo scienziato alle Sue teorie nonché le differenze tra l’approccio di Morozov ed il Suo?

I dubbi circa l’attendibilità della cronologia di Scaligero non nascono oggi. Se ne parlò da subito, dal momento in cui essa fu pubblicata e si cominciò a diffonderla a forza nella coscienza pubblica. Nel XVI secolo contro la cronologia di Scaligero si espresse il professor de Arcilla, dell’Università di Salamanca. Poi fu la volta dello storico gesuita e archeologo J.Hardouin (1646-1724), del famoso scienziato Sir Isaac Newton (1642-1727), del professore tedesco R. Baldauf (nelle pubblicazioni degli anni 1902-1903), dello storico britannico Edwin Johnson (1842-1901) e di altri ancora. Ma il primo a sollevare in modo ampio e radicale la questione della base scientifica della cronologia fu il grande studioso-enciclopedista N.A.Morozov (1854-1946).

Egli avanzò e giustificò parzialmente l'ipotesi che la cronologia scaligeriana dell'antichità fosse artificialmente allungata rispetto alla realtà dei fatti. Analizzò la cronologia di Scaligero dai presunti tempi antichi fino al presunto VI secolo d.C., sottolineando la necessità di una revisione radicale delle date. Tuttavia, Morozov non si mosse oltre il VI secolo d. C. credendo che la cronologia oggi accettata e relativa ai secoli VI-XVII fosse più o meno fedele.  Ma questa sua opinione si è rivelata profondamente sbagliata. Morozov non fu in grado di individuare un qualche sistema nel caos che derivò dalle ridatazioni.  Noi, invece, sulla base dei nostri nuovi metodi di datazione, abbiamo dimostrato che la cronologia di Scaligero necessita di revisione non fino al VI secolo ma fino al XVII secolo (cioè, fino al periodo antecedente l’epoca dello stesso Scaligero,  fatto che, detto per inciso, non è certo un caso). Di conseguenza le nostre datazioni differiscono da quelle di Morozov mediamente di mille e più anni.

Noi sosteniamo che solo dopo la metà del XVII secolo la cronologia adottata oggi sia più o meno giusta. Prima del XVII secolo le vere date di molti eventi importanti furono artificialmente spostate verso il basso di circa 100, 330, 1050 o 1800 anni. Per ripristinare la vera storia, ora si dovrebbero "portare in su" le datazioni di Scaligero, integrandole con le grandezze corrispondenti a detti spostamenti cronologici.

 

Una delle tesi centrali del Suo studio si rifà appunto ai già citati studiosi rinascimentali De Arcilla o Hardouin i quali, nei loro scritti, sostennero che tutta la storia e la letteratura antica fossero state composte in pieno Medioevo. Una teoria, questa, davvero sconcertante. Vuole spiegarcela meglio?

 Qui è necessario fare una precisazione importante. Noi non ci basiamo affatto sui lavori di quegli scienziati, che sostengono che l'intera letteratura antica sia stata composta nel Medioevo. Non solo, ma riteniamo che tale tesi sia profondamente sbagliata. La versione della storia che ci è nota oggi non è stata inventata di sana pianta. Al contrario, riteniamo che i più famosi  autori "antichi" - ErodotoLivioOmeroSenofonte, ecc abbiano descritto eventi reali dei secoli XII-XVII. I loro testi non sono affatto fantasie immaginarie. Essi hanno cercato veramente di raccontarci fatti del  passato. Ma un'altra cosa è che questi testi siano stati poi passati attraverso un filtro tendenzioso, cioè attraverso la censura dei secoli XVII-XVIII. I censori dell’epoca della Riforma hanno modificato i testi di questi autori nella chiave che loro ritenevano giusta, introducendo in primo luogo le date scaligeriane, inesatte, e spingendo artificialmente gli eventi reali descritti dagli autori antichi in un arcano passato. In realtà la cosiddetta antichità non è che l'epoca che corrisponde ai secoli XII-XVI. Per questo, leggendo oggi le opere degli autori antichi, bisogna sempre porsi la domanda: quando e dove hanno avuto luogo gli eventi descritti nelle cronache? Gli eventi, di per sé, sono reali ma spesso, come abbiamo scoperto, sono avvenuti in un altro tempo, molto più vicino al nostro, e molto spesso non propriamente in quelle aree geografiche oggi considerate tradizionalmente teatro dei fatti. In altre parole, ci si deve costantemente chiedere: cosa ci racconta, in realtà, un determinato testo?

 

Che ruolo svolge allora, in questo camuffamento della cronologia storica da Lei individuato, la censura della Chiesa cattolica?

 Come ho detto, nell'epoca compresa tra i secoli XVI-XVIII, si  istituì un processo di censura e di revisione tendenziosa dei testi antichi, cioè dei testi dei secoli XII-XVI. Certo, il ruolo dei revisori cattolici fu notevole. Come ha giustamente sottolineato lo storico A.Ja.Gurevič "per secoli interi la storia è rimasta prevalentemente la storia della chiesa, scritta fondamentalmente da gente del clero". Tuttavia, non solo gli storici della Chiesa cattolica parteciparono alla distorsione dell’autentica storia e alla creazione della versione scaligera. Non si trattava infatti solo di errori naturali nelle date, dovuti all’imperfezione dei metodi matematici e astronomici dei secoli XVI-XVII, ma spesso di una falsificazione deliberata al fine di creare un "nuovo modello del mondo antico", di cambiare radicalmente l'intero quadro dell'antichità.

Le motivazioni alla base di quest’attività di contraffazione sono molto importanti. Siamo riusciti a scoprirle e le abbiamo spiegate nel dettaglio nei nostri libri. Uno dei motivi principali era quello di occultare l'esistenza, nei  secoli XIII-XVI, di un Impero unificato che copriva vaste aree dell'Eurasia, dell’Europa, dell’Africa e dell’America, e a noi noto oggi sotto vari nomi, "l'antico Impero Romano", l’"Impero di Carlo Magno" , "L'Impero di Carlo V", "il Sacro romano Impero della Nazione Tedesca", "il Califfato arabo", "l’Impero degli Asburgo", "l'Impero Mongolo", ecc Questo Impero si frammentò nei primi anni del XVII secolo in seguito alla rivolta della Riforma.

 

 Personalmente, leggendo il suo interessantissimo 400 anni d'inganni (Macro Edizioni), sono rimasto colpito dalle notevoli differenze che Lei ravvisa tra le testimonianze storiche relative alle eclissi antiche e le caratteristiche che esse avrebbero dovuto, invece, avere in relazione alle datazioni ufficialmente attribuite dalla cronologia tradizionale. Ce ne vuole parlare?

E’ vero, è un effetto interessante. Il fatto è che i cronologisti e gli astronomi dei secoli XVIII-XX,  cresciuti già sulla base dell’errata cronologia di Scaligero, quando si occupavano di datare l’una o l’altra eclisse "antica"(o "antico" zodiaco, cioè le immagini indicanti la posizione dei pianeti secondo le costellazioni dello zodiaco) già "sapevano in anticipo" dove essa si sarebbe dovuta collocare sull'asse del tempo, in conformità alla versione Scaligero-Petavius, e cioè nei presunti "tempi antichi." Ma, come abbiamo dimostrato nei nostri studi, queste "antiche" eclissi lunari e solari si verificarono di fatto nell'epoca compresa tra i secoli XII-XVII.

Risultò che gli astronomi e i cronologisti, nel tentativo di trovare la "soluzione сhe a loro serviva” in un lontano, antico passato, finirono per ritrovarsi in un vicolo cieco. La soluzione adeguata, quella “molto antica", semplicemente non esisteva. E allora gli astronomi fecero ricorso a una serie di astuzie, ad allungamenti, cercando di individuare non la soluzione astronomica precisa ma una soluzione che soddisfacesse solo parzialmente le circostanze descritte nell’antica fonte. In altri termini, cedettero alla frode pur di salvare l’errata cronologia scaligera.

Se invece si tenta di individuare le soluzioni astronomiche precise, tali da soddisfare tutte le condizioni descritte negli "antichi" documenti, le soluzioni si trovano nell’intervallo dei secoli XII-XVII, e non certo in tempi antichi. E’ ovvio che in questo caso l'astronomia entra in grave conflitto con la versione cronologica sostenuta da Scaligero. Ma gli storici e alcuni astronomi cercano di far finta che "tutto sia a posto", sorvolano sulle eclatanti differenze tra l'astronomia e le datazioni scaligeriane delle eclissi e degli zodiaci (oroscopi).

 

Cosa significa, professore, per uno studioso e un docente importante come Lei assumere una posizione così “contro-storica”, così anticonvenzionale? Quali difficoltà ha incontrato, e sta tuttora incontrando, nei confronti dei Suoi colleghi e degli storici “tradizionali”?

 I nostri studi sono di grande interesse per la comunità scientifica e il largo pubblico in generale, e alcuni testi sono stati tradotti in lingue straniere. Molti studiosi di discipline scientifiche (matematica, fisica, ecc) ci sostengono. Allo stesso tempo, molti storici si oppongono alla nostra ricerca, chiedendo ad alta voce di vietarne la diffusione. Purtroppo, non sentiamo da parte loro delle obiezioni costruttive. I nostri metodi e i risultati statistici non vengono contestati da nessuno in modo significativo. In genere i nostri oppositori si accaniscono contro le nostre ipotesi e la nostra ricostruzione della storia vera, anche se noi sottolineiamo in continuazione che la nostra ricostruzione è in gran parte ipotetica.

Allo stesso tempo, possiamo garantire l'attendibilità dei nostri calcoli e delle date che abbiamo ottenuto, tanto più che esse sono verificabili e chiunque le può ripetere. In generale, comunque, lavoriamo in un clima teso, in un’atmosfera di lotta contro la Nuova Cronologia. E’ vero, d’altra parte, che molti giovani storici ci sostengono e ci raccontano fatti interessanti, pregandoci di non nominarli, nel timore di guadagnarsi la reazione negativa di certi loro colleghi più anziani. Spero che nel prossimo futuro la NC venga percepita dagli storici con maggior serenità e che la cooperazione tra matematici e storici,  che proponiamo da sempre, abbia finalmente luogo.

 

Nella mia esperienza, forse come Lei, mi sono trovato ad un certo punto ad un bivio tra il continuare ad accettare ed insegnare ai miei ragazzi un insieme di “verità” spesso più ideologiche che corrispondenti a documenti e fatti, e il buttare invece tutto all’aria rifiutandomi di continuare a trasmettere nozioni e informazioni che ritenevo evidentemente errate. Ho scelto la seconda strada, più che altro per un scrupolo di coscienza nei confronti di me stesso e dei miei studenti. Lei come ha vissuto, e come vive, questo scrupolo? A cosa ha dovuto rinunciare e cosa ha guadagnato, scegliendo la via “contro-storica”?

 Noi, come Lei, siamo studiosi e per questo in prima istanza per noi c’è la ricerca e il conseguimento della verità scientifica. Le difficoltà esterne che sorgono lungo il cammino, e anche gli attacchi personali, senza dubbio sono d’ostacolo alla ricerca. Tuttavia cerchiamo di non deviare dal percorso scelto. Siamo contenti di essere riusciti a creare una nuova scienza al crocevia tra la matematica, l'astronomia e la storia, una scienza chiamata Nuova Cronologia, che fa molta chiarezza nella nostra comprensione non solo del passato ma anche del presente. Credo che questo grande premio superi le perdite che abbiamo subito in questo cammino.

 

Le sono molto grato, professore, per avermi concesso questa intervista.

 


( Intervista concessa in esclusiva dal prof. Fomenko a Pietro Ratto per In-Contro/Storia il 16 luglio 2014. Tutti i diritti riservati.

Per ulteriori approfondimenti si veda il sito NUOVA CRONOLOGIA


Scopri di più
di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca

Solo per il Petrolio

Pietro Ratto, novembre 2012 e successivi aggiornamenti


6 novembre 1914. L'inizio¹

 Le truppe inglesi, a tre mesi dall’inizio della Prima Guerra mondiale, sbarcano sulla penisola di Al- Faw, che si trova sul fiume Shatt el Arab, in pieno territorio ottomano. Due settimane dopo conquistano Bassora, città in cui, già dalla fine dell’Ottocento, possedevano il monopolio del commercio marittimo. Nel marzo del 1917 entrano a Baghdad e nell’ottobre 1918 prendono Kirkuk.

Comincia così la conquista dei territori arabi, sottomessi al dominio turco, ricchi di giacimenti di petrolio, una risorsa energetica ormai ritenuta fondamentale dall’invenzione più importante della Seconda Rivoluzione Industriale: il motore a scoppio.

Per conquistare questi territori, che coincidono con buona parte dell’antica Mesopotamia, gli inglesi si servono dell’alleanza degli arabi, che si sollevano contro gli oppressori ottomani con la promessa di un futuro di indipendenza. A tale scopo si mettono in contatto con il vecchio Sceicco della Mecca Hussein (Al Husayn), che così guida la rivoluzione araba dal 1916, partendo proprio dalla Mecca. Al suo fianco gli inglesi collocano alcuni “collaboratori”, il più importante dei quali è Lawrence d’Arabia, archeologo e spia di sua Maestà britannica. In questa rivolta si distingue particolarmente uno dei figli di Hussein, Feisal, a cui viene promesso il regno sui territori liberati dai turchi.

Gli arabo-inglesi si spingono fino a Gerusalemme, poi in Libano e in Siria. Alla fine del 1919 Feisal è re di tutti i territori conquistati, ma già nel 1920, in virtù dei vari trattati di Pace della fine della Grande Guerra, la Siria passa alla Francia e Feisal viene brutalmente deposto.

Le varie rivolte separatiste (come quella curda), scoppiate all’indomani della guerra, vengono sedate nel sangue.

Novantamila le vittime, in molti casi a causa delle armi chimiche.

Il vero intento degli inglesi è ormai sotto gli occhi di tutti. Ancora in piena guerra, nel 1917, d'altra parte, al sionista Edmond Rothschild - membro del ramo francese della potentissima dinastia di banchieri che dalla seconda metà del Settecento finanziava i grandi potenti della Terra - il Ministro degli Esteri inglese Balfour aveva promesso una massiccia presenza di ebrei in Palestina, venendo così meno alle assicurazioni britanniche nei confronti degli arabi, circa una loro indipendenza futura.

Lo sceicco Hussein

(Sharef Al Husayn), che guidò la Rivolta araba nel 1916

Marzo 1921, la nascita dell’Iraq 

 Alla fine della guerra, nel marzo ‘21, il neo ministro degli esteri inglese Winston Churchill si riunisce in un hotel del Cairo con i protagonisti della conquista dei territori ottomani e con loro decide di “inventare” un nuovo Stato, con capitale Baghdad. Si opta per una monarchia guidata dall’accantonato Feisal. Il nome scelto per questo nuovo Stato è: Iraq, la cui storia inizia ufficialmente nell’agosto dello stesso anno².

Feisal intraprende un percorso da subito molto difficile, dovendo governare su un’accozzaglia di etnie molto diverse tra loro: arabi sciiti e sunniti, ebrei, curdi, ecc. Il territorio è frammentato e controllato da un alto numero di sceicchi; per giunta i sunniti, pur in minoranza, detengono il potere sulla maggioranza sciita. A nord i curdi continuano a rivoltarsi e solo nel 1925 la zona di Mosul, particolarmente “calda” e inizialmente affidata alla Francia, viene assegnata all’Iraq britannico dalla Società delle Nazioni, in seguito all’uscita di scena dei francesi, più interessati a concentrarsi sulla rivalità coi tedeschi.

Comincia così un travagliato dominio britannico, teso allo sfruttamento delle risorse petrolifere di quelle terre e camuffato da monarchia indipendente governata da re Feisal.

W. Churchill, la moglie archeologa Gertrude Bell e Lawrence d'Arabia fotografati davanti alla Sfinge di Giza il 3 marzo 1921. In quei giorni "inventeranno" l'Iraq

L'emiro Feisal, alla guida del nascente Stato di Iraq

Il delitto Matteotti. Un caso a sé? 

 Il 10 giugno 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti scompare misteriosamente, dopo aver pronunciato un duro discorso contro le violenze e le intimidazioni perpetrate dal fascismo durante la campagna elettorale appena conclusasi. Subito l’opposizione pensa ad un attentato esemplare, si realizza una forte campagna di propaganda antifascista che culmina nella famosa esperienza dell’Aventino delle coscienze e, come molti si aspettavano, Matteotti viene ritrovato senza vita il 16 agosto dello stesso anno. Seguiranno mesi di forte crisi per i seguaci del fascismo. Lo stesso Mussolini dovrà dimettersi dalla carica di Ministro degli interni (che ricopriva ad interim), e riuscirà in extremis a recuperare consensi solo col famoso discorso del 3 gennaio 1925, circostanza che molti considerano l’inizio vero e proprio della sua dittatura.

Seppure a lungo tale omicidio sia stato presentato come un vendetta contro uno dei nomi più in vista dell’antifascismo, sebbene il Duce sia stato sin da subito sospettato di essere stato il mandante di questo che fu considerato un delitto di natura esclusivamente politica, da qualche anno è ormai emersa una verità ancor più inquietante.

Il delitto Matteotti non fu un omicidio politico; ancora una volta si trattò di una delle tante vicende di corruzione, così tipiche della storia italiana. E ancora una volta, dietro a tutto, c’è il petrolio.

Matteotti, infatti, era entrato in possesso di scottanti documenti che parlavano di una cospicua tangente USA indirizzata al Duce in cambio del suo beneplacito circa la realizzazione di una joint-venture tra lo Stato italiano e la compagnia americana Sinclair Oil per lo sfruttamento esclusivo - da parte di quest‘ultima, in virtù del  RDL n.677 del 4 maggio 1924 - di tutti i pozzi petroliferi eventualmente scoperti nel sottosuolo di circa una quarantina di chilometri quadrati di territorio italiano (dislocati nel Centro e nel Sud della penisola), e di quello della Libia, colonia italiana ritenuta particolarmente interessante dai petrolieri statunitensi). Su siffatto accordo - scandalosamente vantaggioso per la compagnia americana, che avrebbe riconosciuto allo Stato italiano solo il 40 per cento delle azioni di questa nuova società e soltanto un quarto degli utili derivati dallo sfruttamento del petrolio estratto - Matteotti aveva deciso di riferire in Parlamento il 12 giugno, ma due giorni prima viene rapito. I documenti di cui era in possesso il parlamentare socialista dovevano essere fatti sparire: costituivano la prova della corruzione del Duce, ma dimostravano anche il coinvolgimento del Re - detentore, a titolo privato, di molte azioni di questa nuova società - di alcuni membri della famiglia reale e di diversi parenti dello stesso Mussolini³.

A questa ipotesi, ritenuta ormai l’unica verità da molti storici, si affianca quella dell’esecuzione ordinata dalle frange più estremiste del fascismo per innescare un clima di forte tensione tra il loro partito e la Sinistra, in quanto il Duce, da qualche tempo, non faceva segreto di volersi riavvicinare a quel Partito Socialista in cui era maturata la sua originaria vocazione politica. Ciò spiegherebbe il motivo per cui il Duce, in più occasioni, inizialmente ribadisce la propria estraneità all’attentato Matteotti.

Le due ipotesi, però, potrebbero anche non escludersi. L’omicidio del politico socialista potrebbe anche essere derivato da un concorso di cause.

Fatto sta che la valigetta sottratta a Matteotti durante l‘aggressione e contenente i documenti scottanti concernenti la questione dell’accordo petrolifero tra il Duce e gli Stati Uniti, riapparirà  nelle mani del quadrumviro De Bono nel 1944, in occasione del famoso Processo di Verona. Il vecchio collaboratore del Duce, ormai da questi considerato un traditore poiché firmatario del Documento del 25 Luglio, tenterà di barattare le carte segrete con la propria salvezza. Non ci riuscirà e verrà fucilato. La stessa valigetta ricomparirà tra le braccia di Mussolini in occasione della sua cattura a Dongo, nel 1945.

Dopodiché sparirà definitivamente.

EMILIO DE BONO

Capo della polizia fascista dal 20 dicembre 1923, fu costretto alle dimissioni proprio in seguito al delitto Matteotti

Benito Mussolini e Claretta Petacci massacrati dopo la cattura a Dongo il 28 aprile 1945

 I primi anni Trenta. Le mani dell’Italia sul petrolio iracheno 

 Nel frattempo, in Iraq, si susseguirono anni di ricerche tese a quantificare le effettive risorse di petrolio del paese, alla fine delle quali - nel 1930 - fu stipulato il Trattato anglo-iracheno, che vincolava l’Iraq a consultarsi coi britannici in materia di politica estera e che, tra l’altro, prevedeva una serie di basi militari inglesi sul territorio.

Quanto allo sfruttamento dei giacimenti, in modo ambiguo la compagnia inglese Iraq petroleum gestì per anni la situazione in via esclusiva, poi dovette cominciare a cedere alle pressioni USA, che recriminavano una propria partecipazione anche in virtù dell’appoggio fornito agli alleati nella Grande Guerra.

In seguito si fecero avanti anche Francia ed Italia.

Come ben spiega Benito Li Vigni (cfr. nota 1), Mussolini riuscì ad intraprendere un’ambigua politica estera che alternava dichiarazioni di amicizia agli inglesi a forti critiche nei confronti del loro colonialismo, sostenendo l’indipendenza delle popolazioni arabe. Il generale Mola, espressamente inviato dal Duce, giunse a Baghdad nel marzo 1930 e promise a Feisal il sostegno italiano per l’inserimento dell’Iraq nella Società delle Nazioni come Stato indipendente. Feisal lasciò intendere che avrebbe patrocinato volentieri la causa dell’inserimento degli interessi italiani nello sfruttamento dei giacimenti iracheni.

Nel 1931 l’Iraq firmò l’accordo con la britannica Iraq Petroleum, che avrebbe sfruttato i giacimenti nord-iracheni in cambio di una somma forfetaria.

Dopo lunghe trattative, nel maggio 1932 anche la Bod - compagnia petrolifera inizialmente inglese ma poi “partecipata” dalle compagnie di diverse nazioni europee tra le quali l’Italia, con la sua Agip (fondata nel 1926 da Mussolini) - otteneva dal governo iracheno la concessione, della durata di settantacinque anni, per lo sfruttamento di una vasta area sulla riva destra del Tigri. In virtù dell’accordo la Bod si impegnava a pagare una dead rent di cento mila sterline nel 1933, 125 mila nel ‘34, 150 mila nel ‘35, 170 mila nel ‘36 e 200 mila (circa ventisette miliardi delle vecchie lire a valore attuale), nel ‘37, anno in cui l’accordo sarebbe scaduto.

I vertici Agip esultarono. Il grande sogno italiano di poter attuare una propria politica petrolifera era iniziato. Nel frattempo, dati gli interessi in gioco, il generale Mola era stato sostituito del ministro degli esteri Grandi. Per lo stesso motivo nel luglio 1932 anche il Grandi fu costretto alle dimissioni (accusato di aver intrapreso una politica troppo filo-britannica) e la carica di Ministro degli Esteri passò al Duce, ad interim. Sullo sfondo un Hitler sempre più potente si accingeva ad egemonizzare la scena europea. E questo particolare il Duce non poteva trascurarlo. Nel 1934 l’Inghilterra cominciò a chiedere una proroga del pagamento della dead rent dichiarando di non esser momentaneamente in grado di onorare il suo impegno. Quasi sicuramente la verità non era quella. L’Inghilterra cercava di far decadere l’accordo per inadempienza, in modo da firmarne uno nuovo che tagliasse fuori altre compagnie straniere come la stessa Agip. Anche la Francia cominciò a dichiarare la propria difficoltà a versare la sua quota. L’Italia intuì il trucco e comunicò apertamente all’Iraq le difficoltà inglesi e francesi, giocando d'anticipo.

Dino Grandi, Ministro degli Esteri del Duce dal 1929 al 1932.

Fu lui a rivelare a Li Vigni, negli anni '70, le informazioni circa i grandi successi ottenuti dall'Agip in Iraq negli anni '30

D’altra parte il Duce si era già fatto scappare un’altra occasione. Dal 1933 il sovrano della neonata Arabia Saudita, Ibn Saud, ben impressionato dall’ostentata politica filo-araba del Duce, aveva dichiarato la propria intenzione di coinvolgere la nostra nazione nello sfruttamento dei pozzi petroliferi sauditi, probabilmente al fine di controbilanciare l’ingombrante presenza dell’americana Standard Oil, compagnia californiana che minacciava di esercitare in quei territori un vero e proprio monopolio (e che di fatto si sarebbe aggiudicata di lì a poco una concessione eccezionale, sbaragliando tutta la concorrenza). In quell’occasione l’Italia non si era però dimostrata in grado di far fronte agli ingenti investimenti, indispensabili per accettare l’invito di Saud. Nel ‘35 si sarebbe limitata, infatti, a proporre al sovrano uno scambio tra dodicimila cammelli sauditi (!) da usare nell’imminente spedizione in Eritrea ed un grosso carico di armi, a cui gli arabi si erano mostrati molto interessati. Scambio che, per giunta, non sarebbe avvenuto mai!

Ibn Saud

(1880 - 1953), conquistò ed unificò una serie di territori dell'Arabia centro-orientale che da lui presero il nome di Arabia Saudita. Si proclamò Re di questo nuovo Stato nel 1930, ottenendo il riconoscimento inglese due anni dopo.

L’occasione dello sfruttamento del petrolio iracheno, quindi, non doveva assolutamente sfuggire al Duce, che decise di contrarre un grosso prestito con una banca svizzera, riuscendo a coprire a sorpresa la quota inglese e quella francese. Di colpo la partecipazione dell’Agip al pacchetto azionario della Bod passava al 53%; l’Italia diventava azionista di maggioranza!

Quanto alle modalità di trasporto del petrolio estratto in Iraq, dopo una serie di calcoli si decise che sarebbe stato più conveniente portarlo in Italia servendosi delle ferrovie piuttosto che provvedere alla realizzazione di uno specifico oleodotto.

 

3 ottobre 1935. L’attacco all’Etiopia 

 Il clamoroso successo italiano nella gestione dei pozzi petroliferi iracheni fu fuoco di paglia. In seguito ad un incidente diplomatico verificatosi al confine con la Somalia, l’Italia cedette definitivamente alla tentazione di invadere l’Etiopia, territorio che apparteneva alla sfera di influenza italiana dalla fine della Grande Guerra. Da anni il Negus Selassié, sul trono etiopico dal 1930, aveva mostrato di non aver alcuna intenzione di comportarsi da vassallo del Duce, il quale da tempo nutriva ormai il forte desiderio di riprendersi quella che era stata una colonia italiana fino alla clamorosa disfatta di Adua (1896). L’ambizione di un’Italia “imperiale” era ormai, per Mussolini, assolutamente irresistibile.

Va detto, però, che molti erano gli uomini politici, anche di opposizione, che caldeggiavano l’impresa; persino grandi nomi dell’antifascismo come Rosselli o Labriola, persino il “Presidente della Vittoria” Vittorio Emanuele Orlando, avevano assicurato la propria personale adesione alla campagna di Etiopia.

Se però il 3 ottobre le truppe italiane entravano in territorio etiope (facendo ampio uso di armi chimiche al fine di collaudare un nuovo tipo di guerra in prospettiva di un nuovo conflitto mondiale, ormai nell‘aria), già il 7 la Società delle Nazioni condannava l’aggressione, dietro una fortissima spinta inglese. Le sanzioni economiche nei confronti dell’Italia furono durissime, ma l’embargo che venne stabilito a carico della nostra nazione, incredibilmente, non riguardò in alcun modo l’approvvigionamento di petrolio.

Se infatti la Società delle Nazioni avesse disposto anche un embargo petrolifero nei nostri confronti, la guerra in Etiopia si sarebbe immediatamente conclusa. Le operazioni militari italiane in quella terra, infatti, avevano moltiplicato il fabbisogno di carburante necessario a muovere tutti i mezzi militari utilizzati. Il petrolio iracheno di spettanza dell’Italia non era certo sufficiente per coprire il fabbisogno totale di carburante in patria e sui campi di battaglia; dunque la chiusura delle importazioni estere di petrolio nella nostra nazione avrebbe stroncato sul nascere il sogno dell’Impero. Ma l’embargo sancito dalla Società delle Nazioni non riguardò il petrolio, e il motivo fu di poter ottenere dal Duce, in cambio di questo “favore“, l’uscita di scena dell’Italia dal giro d’affari in Iraq su cui aveva appena messo le mani!

Una mattina di fine novembre 1935, quindi, Mussolini convocò il Presidente dell’Agip, Umberto Puppini, e gli diede un ordine perentorio. Abbandonare i pozzi iracheni per “il bene della Patria”.

La conquista dell’Etiopia era stata definitivamente barattata con gli interessi petroliferi italiani in Iraq.

Il simbolo dell' AGIP, l'Agenzia Generale Italiana Petroli fondata dal Duce nel 1926

Umberto Puppini (1884-1946)

Fu Professore universitario e Sindaco della città di Bologna. Mussolini lo nominò Ministro delle Telecomunicazioni tra il 1934 ed il 1935. Nello stesso periodo fu Presidente dell'Agip.

Rappresaglia italiana durante l'occupazione d'Etiopia

 Il Duce, da quel momento, amplificò la sua politica araba; finanziò segretamente la lotta palestinese antibritannica atteggiandosi a paladino dell’indipendenza dei popoli arabi. Il tutto fino agli accordi di Monaco, quando i rapporti italo - britannici conobbero una momentanea fase di distensione. Nel frattempo, in piena autarchia, richiamò i cittadini al sacrificio eroico del proprio benessere in cambio del prestigio dell’Impero, chiese alle donne italiane di offrire sull’Altare della Patria le loro fedi d’oro, s’inventò - con scarsissimo successo - una produzione alternativa di carburante intensificando la produzione di carrube, barbabietola, mais, da distillare per ottenere l’alcol necessario da mischiare con la benzina, importata dall’estero. La distillazione, però, necessitava di carbone, che andava comunque comprato dagli altri Paesi, comportando così una spesa complessiva persino maggiore di quella necessaria per l’acquisto di pari quantità di benzina! “Robur”, così fu pomposamente chiamato questo carburante italiano, costituito dal 52% di alcol vegetale mischiato alla benzina, tanto propagandato quanto rapidamente abbandonato.

Il tutto per far fronte a quelle sanzioni internazionali (embargo su armi e munizioni, blocco di qualsiasi prestito e credito all’Italia, divieto da parte di tutte le altre Nazioni di importare prodotti italiani e di esportare nella nostra penisola le loro merci, naturalmente carburanti a parte!), che, di fatto, non vennero applicate mai e furono revocate già dal luglio ‘36, a Campagna d’Etiopia ormai conclusa!

 

Un’altra guerra 

Tra le molteplici cause della Seconda Guerra mondiale l’approvvigionamento di petrolio costituisce una delle motivazioni fondamentali. Dalla sua ascesa al potere Hitler aveva potenziato sempre più gli impianti di produzione di carburante sintetico, in modo tale da rendersi il più possibile autonomo dalle importazioni straniere. All’inizio del 1940 poteva infatti contare su un 46% di carburante di propria produzione; relativamente ai mezzi militari, poi, il sistema tedesco di idrogenazione copriva addirittura il 95% del fabbisogno totale. Ma il petrolio restava una priorità, per i tedeschi, che, pur impossessatisi immediatamente dei pozzi polacchi, norvegesi, francesi e belgi con l’inizio delle ostilità, consideravano obiettivo della massima importanza la conquista delle risorse petrolifere russe. Questo, in realtà, fu il principale motivo della disastrosa Operazione Barbarossa, finalizzata anche alla messa in sicurezza dei pozzi rumeni della zona di Ploesti, da cui veniva estratto il 60% del fabbisogno tedesco ed il 20% di quello italiano. L’operazione fu da Hitler ritenuta non più procrastinabile quando l’URSS, nel giugno 1940, occupò buona parte della Romania nord orientale con la scusa di poter far fronte alle forniture di carburante nei confronti della Germania, così come previsto dal patto Molotov-Von Ribbentrop, ma il Führer si insospettì e decise di avviare quanto prima l’occupazione del territorio sovietico, puntando soprattutto ai giacimenti di Baku, nel Caucaso.

Quanto all’Italia, Churchill fece di tutto per “comprare” la sua neutralità, promettendo in cambio - oltre alle province “irredente” rimaste ancora in mano nemica alla fine della Grande guerra - Nizza, la Corsica, la Tunisia settentrionale, la Savoia francese. Le lettere con cui il cancelliere inglese prometteva tutto ciò sono state scoperte da poco. E’ altresì vero, però, che alle trattative “bonarie” Churchill affiancò iniziative a dir poco minacciose, come il fin troppo sottovalutato blocco navale realizzato dalle navi inglesi dall’inizio del 1940 con l’intento di interrompere i traffici commerciali tra l’Italia e le proprie colonie. Il tutto per spingere il Duce su posizioni molto più estreme rispetto a quella semplice non belligeranza prospettata da Churchill; queste misure tendevano, in realtà, a costringere l’Italia a schierarsi decisamente contro Hitler, a fianco degli inglesi.

Mussolini, però, reagì in senso contrario e si legò definitivamente al Führer ed alla sua folle spedizione in territorio sovietico.

Anche la ritirata italo tedesca in Russia ha a che fare con il petrolio. Le riserve di carburante cominciarono a scarseggiare già al momento dell’ingresso nella periferia di Mosca. Il generale Inverno fece il resto. La svolta decisiva dell‘ingresso in guerra degli USA, poi, non potrebbe nemmeno venir adeguatamente compresa senza pensare che l’embargo petrolifero imposto dagli americani al Giappone costituì uno dei due motivi dell’attacco nipponico su Pearl Harbour. L’altro motivo, d’altra parte, fu il tentativo giapponese di neutralizzare la flotta americana così da permettere alle proprie forze militari di invadere indisturbate il Sud est asiatico e le Indie olandesi, territori - manco a dirlo - pieni di giacimenti petroliferi!

Quanto all’Iraq, l’Italia approfittò della guerra per tentare di organizzare un golpe filofascista e riprendersi, così, le proprie quote petrolifere. Il tutto facendo leva sul sentimento antibritannico iracheno, amplificato proprio dal conflitto mondiale. Hitler, dal canto suo, approvava questo tipo di manovre, che oltre tutto potevano seriamente disturbare l’Inghilterra sottraendole il carburante necessario per procedere nell’attività bellica.

L’occasione si presentò quando l’Inghilterra, facendo leva sul Trattato anglo iracheno del 1930, chiese ufficialmente al governo di Baghdad (17 aprile ‘41) di permettere lo sbarco delle proprie truppe a Bassora; il governo rispose con un netto diniego ma gli inglesi sbarcarono ugualmente dando inizio ad una serie di scontri con le forze militari irachene. Così Germania ed Italia inviarono i propri aerei (il Duce riuscì in realtà a mettere insieme una flotta quasi ridicola, composta da soli tredici velivoli), e negli ultimi giorni di maggio si scatenò la Battaglia di Baghdad, conclusasi però con una disfatta degli iracheni ed il ritiro della flotta italo tedesca. Ciano, nei suoi diari, commenterà: “Questa è la prova evidente dell’impreparazione della nostra aereonautica”.

La duplice sconfitta di El Alamein (sulla quale, tra l’altro, gravò moltissimo la carenza di carburante sofferta delle forze dell’Asse), stroncò definitivamente ogni ambizione di un Commonwealth mediterraneo, più volte vagheggiato dai due dittatori. E disintegrò anche l’ultima speranza di Hitler: riprovare a raggiungere i giacimenti petroliferi di Baku, passando per la Palestina, l’Iran e l’Iraq.

Locandina del thriller tedesco Scalo a Baku (1942), la cui trama ha come sfondo gli interessi petroliferi tedeschi, inglesi e turchi in quella zona.

 

Fermare Mattei 

Enrico Mattei

Presidente dell'ENI dal 1953, anno in cui fondò l'ente, al 1962

Nel frattempo re Feisal era morto misteriosamente, a Berna, nel 1933. Sotto il debole potere del figlio, Feisal II, si verificò una serie di tentativi di golpe, come quello del 1936, ed un lungo periodo di vuoto di potere di fatto gestito da una forte presenza britannica, fino all’ascesa alla carica di primo ministro di Al Ghaliani, che portò l’Iraq su posizioni filo fasciste, rifiutando agli inglesi, come abbiamo visto, il permesso di sbarcare nel suo regno e dando il via alla Battaglia di Baghdad. Ma, come detto, gli inglesi ebbero la meglio, riuscirono a reintrodurre nel governo iracheno i loro uomini e nel 1948 stipularono con Al Ghaliani un nuovo Trattato, che di fatto prolungava il loro protettorato sulla zona di altri vent’anni.

La popolazione irachena si ribellò a lungo alla sudditanza nei confronti degli inglesi, sempre più solidale con il colonnello Nasser, che in Egitto, in nome della nazionalizzazione del Canale di Suez e della totale indipendenza del proprio Paese, nel 1952 procedeva alla rivoluzione repubblicana deponendo re Faruk e proponendosi come il nuovo leader internazionale del movimento indipendentista arabo. Così, nel 1958, i rivoltosi guidati dal generale Abdul Karim Kassem trucidarono Feisal II ed altri politici e parenti a lui vicini, inneggiando più a Nasser che allo stesso Kassem. Questi, in Iraq, inaugurò una politica fortemente anti britannica, e pretese, tra l’altro, di riprendersi il controllo delle proprie risorse petrolifere. Il nuovo leader voleva il totale controllo dell’Iraq, e per ottenerlo non esitò a far accusare di tradimento, destituire ed arrestare il primo ministro Aref, colpevole di essersi pericolosamente schierato a favore del progetto di una Repubblica Araba Unita guidata da Nasser. Una successiva sommossa pro-Aref fu sedata da Kassem grazie all’aiuto del partito comunista locale, cui poi fu riconosciuta una schiacciante maggioranza nel successivo governo.

Abdul Karim Kassem

(1914 - 1963)

Presidente dell'Iraq dal 1958 alla sua morte

A rivoluzione non ancora conclusa l’Iraq si precipitava a chiamare l’Italia per riprendere le trattative fermatesi all’epoca del Duce, al fine di gestire il proprio petrolio in joint venture con qualcuno che salvaguardasse i diritti dell’economia irachena molto più dei petrolieri inglesi. E non si rivolse genericamente all’Italia. Si rivolse ad Enrico Mattei. Il Presidente dell’ENI si era infatti distinto per aver appena siglato un eccezionale accordo petrolifero con l’Iran, che riconosceva molti vantaggi al Paese produttore sbaragliando così la concorrenza britannica. La sua formula, che era pronto ad offrire anche a Kassem, consisteva in un sistema chiamato “25/75”. In pratica l’ENI anticipava tutte le spese di ricerca di eventuali nuovi giacimenti; nel caso ne fossero stati trovati, il Paese produttore avrebbe allora versato la metà dei costi sostenuti diventando socio paritetico dell’ente italiano. I profitti sarebbero stati divisi al 50%  ma l’ENI si sarebbe obbligato a versare al fisco del Paese produttore la metà del proprio profitto! Tale sistema, inoltre, permetteva al Paese ospitante di maturare proprie capacità imprenditoriali, partecipando in tutto e per tutto alla gestione amministrativa e strategica degli affari petroliferi sul proprio territorio. Nulla a che vedere con lo sfruttamento (tramite cifre forfetarie erogate allo Stato produttore in cambio di un utilizzo esclusivo dei pozzi e di un profitto al 100%), da decenni imposto dai britannici!

Cominciarono così i contatti italo iracheni, all’insaputa degli inglesi, proprio in contemporanea con quelli stabiliti da Mattei con l’URSS, che consistevano in uno scambio (sancito definitivamente nel 1960), di grosse proporzioni tra il petrolio sovietico e la gomma sintetica italiana unitamente ad attrezzature e macchinari petroliferi di nostra produzione. Il tutto scatenò le ire e le proteste degli USA contro Mattei, colpevole di fare affari con i comunisti, sia  russi che iracheni!

Il modo “etico e solidale” di fare affari del petroliere italiano (Giorgio La Pira, sindaco DC di Firenze in quegli anni, definì quello del Presidente dell’ENI un impegno di liberazione ed emancipazione), suscitò critiche a ripetizione da parte degli inglesi e degli americani, mentre diffuse l’entusiasmo e l’interesse per una gestione italiana delle proprie riserve petrolifere in giro per i Paesi arabi (in Egitto, ove fu siglato un analogo accordo, in Marocco - il cui re Maometto V non esitò a recarsi a Firenze per parlare con Mattei addivenendo poi ad un effettivo trattato con la solita formula - ma anche in paesi come la Tunisia e l’Algeria, per i quali il nome del petroliere italiano cominciò ad essere legato ai propri progetti di indipendenza dalle potenze coloniali europee).

Mattei in Marocco, con Maometto V

Cominciarono i dissidi politici interni all’Italia e il Presidente del Consiglio Fanfani prese le distanze da Mattei per salvaguardare i rapporti con gli Stati Uniti, dato che lo stesso Segretario di Stato americano Dulles considerava ormai il Presidente dell’ENI una minaccia nei confronti degli obiettivi politici americani.

In un clima di grande tensione Mattei decise di sfidare gli americani avviando contatti segreti con l’Iraq, al fine di perfezionare l’accordo. In conseguenza della sua vantaggiosa offerta, nel 1961 Baghdad decise di strappare alle compagnie petrolifere inglesi il 99,5% delle aree in concessione, determinata a consegnarle nelle mani dell‘ENI. Contemporaneamente il nuovo presidente americano Kennedy inaugurò una politica tesa a migliorare le relazioni americane con Mattei, conquistato dai valori etici, ma anche dall’enorme influenza in territorio arabo, del petroliere italiano. Venne così avviata una trattativa tra l’ENI e l’americana ESSO, patrocinata proprio dall’amministrazione Kennedy. Restava però il problema dei rapporti tra Mattei e l’URSS, rapporti che agli americani continuavano a non andar giù. Fanfani, nel settembre 1962, ordinò a Mattei di non acquistare più petrolio russo. Mattei, in tutta risposta, decise di spostare i suoi finanziamenti dalla corrente fanfaniana a quella di Aldo Moro, pienamente d’accordo con la sua linea “etica”. A fine settembre Kassem annunciava trionfalmente la nascita della compagnia petrolifera nazionale irachena (la Inoc), preannunciando l’imminente accordo con l’ENI. Contemporaneamente si prospettava un trattato tra l’ente italiano e la Libia. L'OPEC, l'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio nata due anni prima per contrastare lo sfruttamento selvaggio perpetrato dalle Sette Sorelle, stava cominciando a dare i suoi frutti. Inizialmente l'organizzazione comprendeva Iraq, Iran, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela, ma nel corso degli anni successivi sarebbe stata estesa ad altre otto nazioni: LibiaKatarIndonesia (uscita nel 2009), Emirati ArabiNigeriaAlgeriaEquador Angola. I Paesi i cui interessi risultavano improvvisamente colpiti dalla nascita di questa organizzazione, però, non sarebbero rimasti a guardare.

Il 27 ottobre 1962 l’aereo personale di Mattei esplodeva in volo, precipitando a Bescapè, vicino a Linate. Il Presidente dell’Eni stava recandosi negli USA per essere ricevuto da Kennedy, il quale, per altro, sarebbe stato ucciso di lì a poco.

 

Il Giudice Vincenzo Calia ha indagato per un decennio sull’incidente aereo di Mattei, combattendo giorno dopo giorno contro il segreto di stato imposto dai servizi segreti italiani sulla vicenda. Le sue indagini hanno portato alla certezza, da parte dello stesso magistrato, circa la matrice dolosa dell’incidente. Ma il 24 gennaio 2001 l’onorevole Giovanardi ha chiesto ed ottenuto dal Ministro della Giustizia di imporre al magistrato di non perdere tempo a soddisfare la sua vocazione di romanziere sottraendosi ad indagini ben più serie.

Nel 2004 Calia ha depositato una sentenza di archiviazione, negando l‘ipotesi dell‘esplosione precedentemente da lui stesso provata.

All’indomani della morte di Mattei l’ENI ha ripreso la vecchia linea tornando indietro sui propri passi, facendo cadere i vari trattati e lasciando spazio alla vecchia politica di sfruttamento delle compagnie anglo-americane⁴.

 Più recentemente Texaco Socal e Gulf sono confluite nella Chevron, mentre Mobil ed Esso si sono fuse nella Exxon-Mobil

1975. La morte di Pasolini 

 Negli ultimi mesi di vita, Pier Paolo Pasolini si dedicò con molto impegno al suo libro Petrolio, incentrato sugli interessi che ruotano attorno a questa risorsa e sui legami tra petrolio e strategia della tensione. Un numero sempre maggiore di studiosi e di storici sono convinti che la morte prematura, violenta, dello scrittore - avvenuta nel 1975 in circostanze in realtà ancora misteriose - potrebbe aver poco a che fare con le dinamiche omosessuali inizialmente tirate in ballo per spiegare l’omicidio. L’uccisione a sfondo sessuale sembra sempre più una copertura costruita appositamente per mascherare un’esecuzione, volta a far sparire un uomo di grande apertura mentale e di grande intelligenza, che criticava aspramente le logiche di potere di molti “intoccabili”, a livello nazionale ed internazionale. Uno dei reali motivi di questo omicidio, forse, potrebbe essere quel famoso “appunto 21” scomparso dal libro sopra citato e contenente, secondo alcuni, verità imbarazzanti per molti politici e per i vertici dell’ENI di quegli anni. Il senatore Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi e conclamato “anello di congiunzione” tra la mafia ed il potere politico italiano, sostiene di essere in possesso del prezioso capitolo, che però non ha mai mostrato pubblicamente. E se taluni studiosi ritengono che questo appunto possa anche non essere mai esistito, altri si richiamano ad uno dei capitoli successivi di Petrolio, in cui l’autore lo cita espressamente. D’altra parte non è un segreto che la sorella di Pasolini abbia denunciato il furto di alcuni scritti del fratello, immediatamente dopo la sua morte.

Pier Paolo Pasolini

Autoritratto - 1947

 1979: Saddam Hussein al potere 

Kassem pagò caro il proprio nazionalismo e le proprie alleanze comuniste. Nel febbraio 1963 gli americani organizzarono ed appoggiarono un colpo di stato guidato proprio da quel colonnello nasseriano Aref - che Kassem a suo tempo aveva fatto arrestare - affiancato dall’organizzazione estremista Ba’ath, che tra i propri esponenti comprendeva anche Saddam Hussein. I successivi conflitti tra i due schieramenti arrivati al potere si risolsero con la vittoria dei nasseriani. Lo stesso Saddam finì, per un breve periodo, in carcere. Nel ‘66 Aref morì in un incidente aereo, gli succedette il fratello. Nel contempo i pozzi petroliferi erano saldamente tornati nelle mani delle compagnie anglo americane, con buona pace dell’ENI presieduta dal successore di Mattei, Eugenio Cefis.

Nel 1968 fu la volta di un colpo di stato ba’athista, con un Saddam Hussein sempre più in privilegiato dagli USA per le sue inclinazioni “filoamericane”. Negli anni a seguire si verificarono gravissime persecuzioni nei confronti delle minoranze etniche (a partire da quella curda) e dei comunisti, epurati definitivamente nel 1979 attraverso eccidi ed esili forzati. Nello stesso anno Saddam Hussein effettuò un colpo di mano collocandosi al vertice dell’Iraq ed assumendo il controllo di tutte le principali cariche politiche. Leader di un Paese che dal 1975 gli USA avevano aiutato a diventare la nazione con il più micidiale arsenale militare di tutto il Medio Oriente.

Pupillo degli americani, Saddam Hussein condusse con il loro appoggio la Guerra contro l’Iran (1980-1988), caratterizzata da enormi massacri, bombardamenti a base di armi chimiche, deportazioni ecc. Dopo aver erogato finanziamenti e fornito armamenti (secondo un programma che coinvolse massicci aiuti economici e militari all‘Iraq anche da parte delle altre nazioni occidentali, Italia inclusa), l’appoggio americano divenne diretto negli ultimi due anni, periodo nel quale il 70% degli attacchi all’Iran partirono da unità statunitensi. Anche questa guerra è da inquadrarsi nella solita febbre da petrolio. Da anni gli USA stavano cercando di mettere le mani sui pozzi iraniani, vanificando così i precedenti - odiatissimi - accordi tra l’Iran e l’ENI di Mattei. Tutti gli sforzi della CIA per collocare al comando del Paese un governo filoamericano si erano però infranti contro la rivoluzione (16 gennaio 1979) dell’ayatollah Khomeini, leader religioso che aveva rovesciato il governo dello scià, molto vicino agli USA. Il 22 settembre 1980, però, gli aerei di Saddam avevano bombardato le principali basi militari iraniane dando inizio alla lunga guerra e fornendo così agli Stati Uniti un utile strumento di conquista di quel Paese.

A guerra ultimata, un Saddam ormai troppo potente divenne improvvisamente un Satana. L’invasione del Kuwait, dettata dalle sue mire imperialistiche e dalla sua sete di egemonia in Medio Oriente, fu il pretesto ideale per permettere agli USA di invertire improvvisamente la propria politica nei confronti dell’Iraq ed avviare, nel 1991, la prima Guerra del Golfo, che terminò con il perentorio nei confronti di Saddam, da parte dell’ONU, di distruggere qualsiasi arma di distruzione di massa in suo possesso. Un argomento che gli americani avrebbero riutilizzato per giustificare i successivi attacchi all’Iraq.

Le Oil pipeline e le Gas pipeline che trasportano petrolio e gas dall’Oriente all’Occidente

La svolta. L’11 settembre   

 Il nome di Osama Bin Laden non è una novità del cosiddetto “attacco” alle Twin Towers. Nel 1993, all’indomani del primo attentato al World center di New York, il suo nome era stato pronunciato per la prima volta dai mass media. Sicuramente, però, figurava negli archivi della CIA dalla metà degli anni ‘80, quando il terrorista saudita era stato proficuamente utilizzato dagli americani nella guerra contro i russi, in Afghanistan.

L’attentato dell’11 settembre 2001, però, fornì un validissimo pretesto agli USA al fine di inaugurare un periodo nuovo, fatto di continue intromissioni nella privacy delle persone in nome della sicurezza e, soprattutto, di una guerra ininterrotta “contro il terrorismo”. Guerra che, naturalmente, si concretizzò in un’aggressione all’Iraq motivata con l’urgenza di eliminare Saddam Hussein - considerato, dagli Stati Uniti, in stretto collegamento con Al Qaeda - e cancellare le sue “armi di distruzione di massa”. L’imperativo di trovare assolutamente le prove del possesso, da parte del dittatore iracheno, di armi nucleari in grado di minacciare la sicurezza del pianeta trovò una valida risposta - secondo un‘inchiesta dell’agenzia giornalistica statunitense Knight Ridder - in un documento fornito da tal Rocco Martino, agente  Sismi (il servizio segreto militare italiano), consegnato a metà ottobre 2001 alla CIA tramite una giornalista (ed il suo direttore Carlo Rossella), di Panorama, il settimanale del premier Silvio Berlusconi. Il dossier, finalizzato a costituire la prova della spedizione di diverse tonnellate di uranio del Niger all’Iraq, fu accuratamente studiato e poi considerato falso dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che avvisò G. W. Bush  il 3 marzo 2003. Il Presidente USA, però, decise ugualmente di attaccare l’Iraq da lì a breve, il 20 marzo, ignorando l’avvertimento. Dal Niger Gate e dallo stesso Rocco Martino prese le distanze sia il capo del Sismi, Nicolò Pollari (che pure, secondo l’inchiesta del Knight Ridder, era presente alla consegna del dossier), sia lo stesso governo Berlusconi.

D’altra parte, le reali motivazioni che spinsero l’America e i suoi alleati (a cominciare dall’Italia), ad invadere l’Iraq, emergono anche soltanto dal dossier del Ministero delle attività produttive del governo Berlusconi, datato 21 febbraio 2003, che ad un certo punto afferma:

 “Esiste un’elevata possibilità che entro la metà dell’anno venga rovesciato da un’azione militare guidata dagli USA il regime di Saddam Hussein […] L’Iraq ha stabilito una serie di accordi commerciali nel settore degli idrocarburi […] la contromossa americana sembra consista nel garantire il mantenimento degli accordi […] Forse anche l’Italia potrebbe giocare la stessa carta per le iniziative dell’Eni circa i giacimenti di Halfaya e Nassiria.

 Un successivo dossier del 5 aprile 2004, intitolato “La ricostruzione dell’Iraq”, ribadirà le aspettative italiane nei confronti di “considerevoli benefici economici” e sottolineerà nuovamente l’interesse della nostra nazione a cogliere tutte le opportunità della spedizione militare in Iraq.

Quanto all’invasione dell’Afghanistan, presentata al mondo come necessaria contromisura nei confronti del regime dei talebani e della loro attività terroristica, non si può non considerare, invece, come rientri perfettamente nella logica di possesso che gli americani hanno sviluppato rispetto ai giacimenti petroliferi mondiali.

Obiettivo USA fu, in realtà, quello di sostituire il regime talebano con un governo amico in grado di permettere la realizzazione di una grande rete di oleodotti prevista dalla cosiddetta Dottrina Clinton. La realizzazione, cioè, della terza direttrice di pipeline (oltre all’oleodotto inaugurato nel 2005, che collega l’Azerbaigian alla costa turca passando per la Georgia, ed a quello che porta il greggio dal Mar Nero alla Macedonia, servendo così l’Europa), in grado di trasportare petrolio da Oriente ad Occidente senza passare per la Russia e collegando, nello specifico, il Turkmenistan al Pakistan, passando proprio per l‘Afghanistan. Nella seconda metà degli anni Novanta l’America aveva sostenuto i talebani, coi quali aveva instaurato un ottimo rapporto. Questa setta integralista di studenti delle università sunnite (appoggiati dal governo pakistano), aveva preso il sopravvento dopo il ritiro delle truppe russe (entrate nel Paese nel 1979 per sostenere il governo filosovietico di Babrak Karmal e poi costrette a ritirarsi nel 1989 a causa delle continue rivolte dei guerriglieri mujaheddin), e dopo il successivo governo del presidente Rabbani (che i talebani avevano arrestato nel 1992 mutilandolo, trascinandone il corpo legato ad una gip  per poi appenderlo con una corda e sparargli un colpo alla testa). Dal 1999, però, gli USA avevano cominciato a comprendere che i talebani, troppo nazionalisti, non sarebbero stati in grado di assicurare l’appoggio ai progetti statunitensi, ed avevano deciso di cambiare strategia. L’incontro a Berlino del luglio 2001 tra tre funzionari americani, il ministro degli esteri pakistano Naik e diversi capi talebani, servì a proporre a questi ultimi un governo di unità nazionale filoamericano. Il rifiuto talebano fu preso malissimo dagli americani, che - come lo stesso Naik ha poi raccontato in un‘intervista alla Bbc - minacciarono di invadere l’Afghanistan entro la metà di ottobre.

L’attentato dell’11 settembre, guarda caso, fornì agli USA un ottimo motivo per dar corso alla minaccia. Attentato appositamente procurato o azione preventiva di Bin Laden? Sta di fatto che l’attacco all’Afghanistan fu confezionato con tutti i crismi, visto che, come nel 2005 ha spiegato Norman Solomon nel suo War made easy. How Presidents and Pundits Keep Spinning Us to Death, il Pentagono versò ben trecentonovantasettemila dollari allo studio di pubbliche relazioni Rendon Group, per trovare il modo di promuovere nell’opinione pubblica americana l’idea dell’assoluta necessità di bombardare quelle terre.

L’Oleodotto Baku – Ceyhan, che collega l’Azerbaijan alla Turchia passando per la Georgia

Il Petrolio all’origine delle “rivoluzioni colorate

Non è d’altra parte un mistero che molte delle vicende internazionali di questi anni siano da ricollegare alla solita questione del petrolio. Le elezioni presidenziali in Georgia, ad esempio, che nel 2003 avevano visto la vittoria del Presidente in carica Shevardnadze (un tempo ministro degli esteri sovietico e, dal ‘95, presidente di questo Stato), vennero contestate e considerate “truccate” dagli stessi americani, che sostenevano invece il candidato filo-americano Saakashvili. Il risultato - dopo giorni di scontri in piazza tra le opposte fazioni, in quella che è stata chiamata la Rivoluzione delle rose” - fu la ripetizione delle votazioni popolari, con conseguente vittoria di quest’ultimo. Manco a dirlo, in Georgia passa il suddetto oleodotto che convoglia in Occidente il petrolio estratto in Azerbaijan, ed un presidente georgiano amico non poteva che venir considerato dagli USA un’importante garanzia per i loro interessi petroliferi. Non a caso, all’apertura dei Giochi Olimpici Pechino 2008, tra Russia e Georgia si è alzata improvvisamente la tensione e si sono verificati forti scontri fatti passare dall’opinione pubblica occidentale come una riprovevole aggressione russa. In realtà il motivo del contendere - le tensioni autonomistiche dell’Ossezia del Sud, regione georgiana a maggioranza russa, che i russi avrebbero appoggiato per danneggiare “l’indifesa” Georgia, va compreso alla luce del fatto che a ridosso del territorio osseto passa proprio quell’oleodotto, e che l’esercito georgiano, con l’aiuto americano, nei giorni precedenti aveva dato il via ad una “pulizia etnica” nei confronti dei russi osseti, proprio per garantire agli USA l’utilizzo indisturbato di quell’importante regione

Per non parlare dell‘Ucraina e della sua recente Rivoluzione arancione. Paese di grande importanza strategica dal punto di vista energetico, dato il gigantesco gasdotto che passa nel suo territorio, visse giorni drammatici in occasione delle elezioni del 2004, contestate e ripetute così come da copione. Il candidato filoamericano Juscenko, perdente in prima battuta, ne uscì improvvisamente vittorioso (dopo una campagna elettorale violenta ed aspra finita con un avvelenamento alla diossina ai danni dello stesso Juscenko, super propagandato dagli scandalizzati media occidentali ma risultato poi falso dagli esami di laboratorio della clinica Rudolfinerhaus di Vienna ove il politico era stato ricoverato).

In tutta risposta il Primo ministro - ed ex Presidente - russo Putin, in modo piuttosto scaltro ha portato a conclusione nel 2009 la stipula di un accordo tra l’ENI ed il colosso energetico russo Gazprom per lo sfruttamento del gas e del petrolio della Siberia e per il relativo trasporto in Europa tramite il percorso detto South Stream, bypassando così l’Ucraina, ormai decisamente in mano agli USA. Si tratta dell’ultima fase di una trattativa iniziata nel novembre 2006 per la realizzazione del gigantesco Gasdotto del Mar Baltico, che collegherà Russia a Germania aggirando proprio i territori ucraini.

Il progetto South Stream

La Guerra tra Usa ed Europa 

 Gli accordi economici (e non solo di natura petrolifera), stipulati tra il nostro continente e diverse nazioni orientali, la nascita dell’Unione europea ed il suo costante allargamento, l’introduzione di una moneta unica forte come l‘euro, sono tutti fattori che hanno indebolito l’economia americana ed inasprito i rapporti tra USA ed UE.

Un esempio fra tutti la rivalità incrociata acciaio/agricoltura: la politica agricola europea - fin dagli anni Novanta tesa a sostenere gli agricoltori comunitari con sussidi tali da avvantaggiare gli stessi sui mercati internazionali - suscitò continue lamentele americane, fino ad indurre gli USA ad imporre clamorosamente, nel marzo del 2002, dazi del 30% su tutte le importazioni europee di acciaio in America. La questione finì davanti alla WTO (World Trade Organization) di Ginevra, che il 20 marzo 2003 diede ragione all’UE costringendo l’USA ad azzerare i dazi. Non era la prima volta: l’anno prima la WTO aveva condannato gli USA per la loro concorrenza sleale nei commerci internazionali, basata su una fitta rete di società offshore atta a far risparmiare alle aziende statunitensi parecchi carichi fiscali. Questa volta l’Europa fu autorizzata da Ginevra ad applicare dazi punitivi nei confronti delle importazioni americane, per un totale di 4 miliardi di dollari. Per non parlare del blocco imposto da Bruxelles al consumo di prodotti agricoli OGM, vera e propria battuta d’arresto per le importazioni americane in Europa di questo genere di merci.

Soltanto a vantaggio dell’economia americana va inteso il provvedimento adottato il 21 settembre 2003 e teso ad inaugurare l’era del dollaro debole. Gli Stati Uniti, infatti, da quel giorno hanno svalutato la loro moneta così da ottenere notevoli vantaggi nelle esportazioni. E questo anche se le prime reazioni dei mercati azionari si sono concretizzate, l’indomani, in una forte perdita di quasi tutti i titoli, a Wall Street così come nelle principali borse europee ed asiatiche.

Il petrolio, naturalmente, tra le motivazioni di tensione USA-EU non può mancare. La scelta dell’Iraq (2002), e successivamente dell’Iran, di utilizzare l’euro per regolare i propri contratti petroliferi ha alzato di molto la tensione internazionale, già alle stelle a causa dell’intenzione americane di monopolizzare (insieme alla Gran Bretagna), vaste zone petrolifere del Medio Oriente, a cominciare proprio dall‘Iraq.

Quanto al rapporto con gli altri continenti, gli USA sono determinati ad evitare che si crei un asse Europa-Asia che possa tagliarli fuori dallo sfruttamento delle risorse energetiche mondiali. In quest’ottica, forte risentimento americano è stato suscitato dagli accordi tra i Paesi europei e quelli balcanici, per la costruzione dei futuri oleodotti in grado di trasportare il greggio ed il gas dal Mar Nero all’Adriatico.

 Ma la questione delle riserve di petrolio non potrà che peggiorare sempre più, nel corso degli anni, i rapporti tra i due continenti. D'altra parte, una conseguenza di questa rivalità mascherata da amicizia non potrebbe essere, ad esempio, la crisi economico finanziaria ed il crollo delle Borse europee verificatisi dall'estate 2011 ?

 

La fine del gioco 

Le risorse mondiali di petrolio sono state stimate intorno ai mille miliardi di barili. Le attuali riserve irachene si aggirano intorno ai duecento miliardi, ma secondo L’Energy Information Agency del Dipartimento americano per l’energia nella zona sud occidentale dell’Iraq potrebbero trovarsi quantitativi pari ad altri cento miliardi. Le riserve irachene, insomma, costituirebbero il 30 per cento di quelle mondiali.

Calcolando che l’attuale consumo mondiale di petrolio si aggira circa sui cento milioni di barili al giorno, le riserve irachene potrebbero bastare per poco più di una decina di anni, forse per quindici, nell’ottica del processo di risparmio energetico innescato negli ultimi tempi. D'altra parte, l'allarme "esaurimento riserve" è stato lanciato dall'inizio degli anni Settanta, ed in linea con questo tipo di emergenza va considerato il ricatto che i Paesi aderenti all'Opecnon appena nazionalizzata la loro produzione petrolifera, attuarono nel 1973 nei confronti dell'Occidente, quadruplicando il prezzo del greggio e scaraventando anche il nostro continente in un rigido clima da Austerity.

E’ quindi evidente che la partita tra le grandi potenze mondiali interessate allo sfruttamento dei pozzi in Iraq sia di capitale importanza. Ciò ha portato ad esempio, negli ultimi tempi, ad un’accesa rivalità tra le compagnie petrolifere anglosassoni e l’Eni, che dal 2005 è diventata la prima compagnia straniera nel vicino Iran. Questo non ha fatto altro che peggiorare i rapporti con gli americani, già esasperati dalla suddetta scelta di Saddam Hussein, e successivamente dell’Iran, di regolare i propri rapporti petroliferi in euro. Scelta che ha avuto innegabilmente un forte peso sulla decisione americana di invadere l’Iraq.

D’altra parte l’intera area mediorientale, particolarmente ricca di giacimenti petroliferi, è da considerarsi di immensa importanza per il futuro dell’energia che muove il pianeta. La vittoria elettorale che ha portato alla guida dell’Iran l’ex sindaco di Teheran Ahmadinejad, noto fondamentalista islamico, ha esasperato le tensioni ed allontanato di più gli USA dall’obiettivo di accaparrarsi anche il petrolio iraniano. L’ostilità del nuovo Presidente iraniano nei confronti di Israele e i suoi più volte annunciati propositi di riprendere la conversione dell’uranio per inaugurare un nuovo processo di produzione di armamenti nucleari, hanno fatto il resto. Per quanto Israele sia la quinta potenza nucleare mondiale ed i suoi missili siano puntati su tutte le principali città del Medio Oriente, per gli americani il vero problema è rappresentato da “Paesi canaglia” come l’Iran e l’Iraq. All’indomani dell’11 settembre Israele si scatenò in una terribile serie di massacri in territorio palestinese. Nessuno osò dir nulla, sulla scia del forte risentimento anti-arabo di quei giorni. E nella questione arabo-palestinese l’Iraq ha sempre giocato un ruolo favorevole agli arabi, rifiutando costantemente qualsiasi accordo con Israele. Invadere l’Iraq ha significato anche, per gli USA, la possibilità di mettere fuori combattimento il grande rivale dell’alleato israeliano. Non è un segreto, d’altra parte, che nel corso degli anni Novanta Saddam abbia versato “compensi” di venticinquemila dollari ad ogni famiglia di un kamikaze morto in un attentato contro Israele. Né lo è la crescente ostilità dello stesso dittatore di Baghdad nei confronti di un Arafat sempre più disposto al dialogo.

 

La favola di Nassiriya 

Dal momento in cui, in seguito all'attacco del 20 marzo 2003, l’Iraq è occupato dalle forze della Nato, all’Italia viene affidata l’area di Nassiriya, che si trova nella zona meridionale del Paese. Un’area particolarmente suggestiva, il cui territorio è disseminato di fessure dalle quali escono lingue di gas, che brucia costantemente. Quelle stesse fessure a cui gli antichi si riferivano parlando delle “fornaci ardenti” in cui il re Nabuccodonosor gettava i suoi nemici e che, secondo Plutarco, avevano così fortemente impressionato il grande Alessandro Magno, quando gli abitanti del luogo avevano pensato di spaventarlo dando fuoco ad una strada interamente cosparsa di petrolio.

In quell’area l’esercito italiano è ufficialmente impegnato in una missione di pace - denominata suggestivamente Antica Babilonia - orientata, tra l’altro, alla conservazione ed al recupero dei beni archeologici locali. Ma l’interesse della nostra nazione nei confronti di questo territorio ha origini non recenti, dato che già nel 1997 Saddam Hussein aveva stipulato un accordo con l’Eni e con la spagnola Repsol per lo sfruttamento dei giacimenti di Nassiriya. La reale motivazione della presenza italiana in quelle zone, quindi, pare proprio essere un’altra. Come ha riconosciuto il 13 maggio 2005 a Rai News 24 lo stesso senatore Ventucci, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio : “Se a Nassiriya c’è una fonte energetica importante con oleodotti e raffineria è giusto che noi tuteliamo tutto questo nell’interesse del popolo iracheno. E non è un male se poi noi possiamo fare qualche affare …”. Per non parlare della successiva gaffe del sottosegretario, che ad un certo punto afferma che il petrolio iracheno servirà per far fronte ai maggiori consumi di India e Cina (riconoscendo così l’implicita idea di poter disporre liberamente delle risorse irachene, pur tirando in ballo Paesi che in alcun modo avevano approvato la spedizione in Iraq).

Lo stesso squilibrio che si evince dal bilancio delle spese del contingente militare italiano in quelle zone (8% in operazioni di pace, 92% per finanziare azioni militari), parla chiaro. “Le imprese italiane si sono aggiudicate, a partire dall’inizio delle operazioni di ricostruzione del 2003, contratti di valore”, afferma una Relazione sulla politica informativa e sicurezza dell’Intelligence italiana, relativa al primo semestre 2005. Anche se il meglio delle occasioni toccheranno agli USA, dato che la Halliburton (società di cui è stato vicepresidente Dick Cheney), il gruppo Bechtel (vicino al Segretario di stato americano George Shultz), ed altre grandi multinazionali USA gestite da importanti politici statunitensi, si divideranno la gran parte degli appalti per ricostruire case, edificare ed amministrare scuole e ospedali, in un giro di affari stimato in una decina di miliardi di dollari all’anno per parecchi anni. Naturalmente senza fare i conti con la fonte di guadagno di gran lunga più importante: il petrolio.

Nel documento dell’11 novembre 2004 inviato alla Camera dall’allora Ministro degli Esteri Franco Frattini, scritto ad un anno dalla Strage di Nassiriya - in cui il 12 novembre 2003 erano morti diciassette militari, due civili italiani e nove iracheni a causa dell‘esplosione di due camion-bomba condotti da kamikaze - si trova scritto: “Il nostro impegno nelle missioni di pace rappresenta un solido investimento. […] Possiamo attenderci considerevoli benefici economici dalla stabilizzazione di regioni sensibili per i nostri approvvigionamenti e per le prospettive di apertura di nuovi mercati e di nuove aree di collaborazione”. A fargli eco, il 23 gennaio 2005, il Presidente della Commissione difesa della Camera, Gustavo Selva, in un’intervista sul quotidiano Libero: “Basta con l’ipocrisia dell’intervento umanitario. E’ ora di prendere atto che la natura dell’operazione “Antica Babilonia” è inadeguata alla realtà del terreno. […] Abbiamo dovuto mascherare “Antica Babilonia” come operazione umanitaria perché altrimenti dal Colle non sarebbe mai arrivato il via libera”.


La questione dei beni archeologici 

Il 9 aprile 2003 la città di Baghdad cade in mano ai marines. Il 10 aprile i soldati americani entrano nella sede del Ministero del Petrolio, prendendone possesso. Circa duecento hard disk di altrettanti computer del ministero vengono trafugati dalle forze militari. Una mole impressionante di dati strategici sulla dislocazione ed il funzionamento di tutti gli impianti petroliferi del Paese, nonché di progetti relativi a nuovi oleodotti e depositi, finisce nelle mani degli USA.

Sembra l’unica cosa che conti, mentre migliaia di saccheggiatori depredano i grandi musei archeologici di quella che per millenni è stata la leggendaria Mesopotamia. Come ha rilevato il National Geographic Society in un sopralluogo effettuato da suoi autorevoli archeologi, importantissimi siti come il cimitero di Dahaila - risalente a 3700 anni fa ed ora ridotto ad un colabrodo dai tombaroli - l’Arco di Ctesifonte - che si trova a sud di Baghdad e nelle cui vicinanze l’edificio che contiene l’affresco della battaglia di Kadisiyed (scoppiata tra arabi e persiani nel VII sec.), risulta devastato dai saccheggi - il Museo archeologico di Baghdad - la cui Galleria assira è stata letteralmente depredata dei suoi inestimabili tesori - e altre mitiche località come l’antica Ninive, Hatra, Nimrud, Girsu, Babilonia, presentano gli irreparabili sfregi di un saccheggio incontrollato.

 

 Il Paese degli orrori 

Il Presidente Bush, una volta occupato l’Iraq, nominò governatore L. Paul Bremer. Appena insediatosi, Bremer procedette allo smembramento dell’esercito iracheno. Tutti i quattrocentomila soldati vennero mandati a casa. Ad essi si aggiunsero i cinquantamila membri del partito ba’athista, quasi tutti sunniti. Un vero e proprio disastro economico per loro e le loro famiglie, per un totale di quasi tremila persone. Più di un decimo dell’intera popolazione irachena privato di qualsiasi forma di reddito.

Successivamente Bremer - da subito impegnato, tra l’altro, a fronteggiare l’inaspettata ostilità della componente sciita, a cui evidentemente non bastava l’eliminazione di Saddam, considerando comunque gli americani degli invasori da cui liberarsi - promulgò ben novantasette decreti, tutti orientati a garantire agli USA il controllo del petrolio dell’intera regione. Misure, queste, che andavano a sovrapporsi, in modo piuttosto ridondante, alla risoluzione ONU 1483, che già prevedeva che tutte le rendite petrolifere irachene venissero convogliate nel Fondo per lo Sviluppo, naturalmente gestito dagli USA attraverso il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

In linea con quanto afferma il giornalista Massimo Fini nel suo libro Il vizio dell’Occidente (“Bin Laden non è che l’ombra dell’Occidente, è una risposta fondamentalista, integralista, totalitaria ad un sistema che nonostante si definisca, in buona fede, democratico e liberale, è fondamentalista, integralista, totalitario.”), l’America ha imposto da subito, in Iraq, le stesse misure autoritarie e liberticide attuate all’indomani dell’11 settembre e giustificate sulla base dell’emergenza sicurezza. La famosa Patriot Act dell’ottobre 2001 - che consente alla CIA di dichiarare “terroristica” qualsiasi organizzazione, nazionale o straniera, a proprio insindacabile giudizio - assomiglia a molti dei provvedimenti elaborati dalle forze di occupazione in Iraq.

Le foto scattate nelle carceri di Abu Ghraib e di Guantanamo, che mostrano le condizioni di centinaia di musulmani accusati in qualche modo di essere terroristi, parlano chiaro. Maltrattamenti, offese gravissime alla dignità dei reclusi, scene al limite del sadomaso e dell’horror. Prigionieri denudati e trascinati sul pavimento da soldatesse che li tengono al guinzaglio, o picchiati a sangue, assaliti da cani feroci, costretti ad assistere ad atteggiamenti oltraggiosi nei confronti del Corano … Inoltre da più parti si sono levate dure critiche nei confronti della CIAaccusata di essersi avvalsa anche di carceri dell’Europa dell’Est, presso le quale i suoi aerei hanno più volte fatto scalo scaricando prigionieri destinati ad un vero e proprio “tour” di torture prima in Polonia, poi in Romania, ecc …

Ignominia e vergogna nei confronti degli americani che si sono macchiati anche di rappresaglie degne della peggiore repressione nazista, come nel caso della reazione dell’esercito USA al linciaggio di quattro suoi soldati avvenuto su una strada di Falluja il 31 marzo 2004.

 

 Il massacro di Falluja 

 1500 marines, uno sproposito di elicotteri (Cobra e Apache), con contorno di Tank, F15 e carri armati, hanno scatenato quel giorno un bombardamento di una violenza assoluta con bombe ad alta pressione, facendo saltare in aria sei minareti ed una moschea (in cui sono morte quaranta persone), uccidendo centinaia di persone che cercavano di attraversare a nuoto l’Eufrate e causando la fuga di altre duecentomila rimaste senz’acqua e senza cibo. L’azione militare, condannata poi dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, non è stata però l’unica, in quella zona.

Nel novembre dello stesso anno, è stata la volta del Fosforo bianco, un agente chimico di estrema pericolosità “sperimentato” proprio sui cittadini di quella città. La tecnica scelta era incredibilmente subdola. Un iracheno intervistato dalla giornalista de Il Manifesto Giuliana Sgrena ha raccontato che due sue vicine di casa, a Falluja, avevano ricevuto l’ordine dagli americani, di “disinfettare le loro case prima di abbandonarle. I soldati avevano procurato loro alcuni bidoni di “polvere bianca” con cui lavare i pavimenti, e le avevano costrette ad intraprendere subito l’opera, allontanandosi rapidamente. Le donne avevano cominciato il lavoro ma, appena versata la polvere dai bidoni, avevano cominciato a sanguinare ovunque, accusando dolori terribili. (Naturalmente non era stato l’unico modo adottato. La presenza sospetta di giganteschi nuvoloni bianchi sollevatisi sulla zona durante i bombardamenti notturni, ad esempio, era stata spiegata dagli americani come una particolare tecnica militare finalizzata ad illuminare la zona o a nascondere le proprie azioni militari, ma la vera natura di quella polvere bianca non era sfuggita a nessuno). Relativamente alla testimonianza raccolta, la giornalista aveva deciso di intervistare le due donne su cui gli americani avevano “sperimentato“ il fosforo bianco, ma il 4 febbraio 2005 era stata improvvisamente rapita; l’atto era stato ufficialmente rivendicato da una organizzazione appartenente alla resistenza irachena antiamericana.

Durante la prigionia, Giuliana Sgrena si era chiesta molte volte il motivo del suo rapimento, data la sua manifesta contrarietà nei confronti di quella guerra. A distanza di qualche tempo dalla sua liberazione, infatti, le organizzazioni della resistenza le avrebbero fatto sapere di non aver avuto nulla a che fare con l‘accaduto, e di condannare decisamente l’episodio atto soltanto a screditare la loro stessa attività.

La sera del 4 marzo 2005 la giornalista venne liberata grazie all’intervento del dirigente del SISMI Nicola Calipari, che la prelevò e la fece salire in auto per portarla all’aeroporto di Baghdad e metterla su un aereo per l’Italia. A meno di un chilometro dall’aeroporto una raffica di mitragliatrice partì dal posto di blocco USA n° 541, raggiungendo la loro automobile. Nicola Calipari si precipitò addosso alla Sgrena, facendole istintivamente scudo col proprio corpo e rimanendo ucciso sul colpo dai proiettili americani. La giornalista venne ferita, ma si salvò. Il governo italiano pretese chiarimenti, domandando  più volte una commissione di inchiesta comune USA - Italia. L’indagine venne però condotta esclusivamente dagli USA, rivelandosi a tutti gli effetti un colpo di spugna. La parallela inchiesta condotta dalla Procura di Roma non ottenne per altro alcuna collaborazione americana.

E la questione fu chiusa così.

Negli anni successivi Giuliana Sgrena avrebbe denunciato un grave aumento di leucemie e tumori tra gli abitanti della zona colpita dai bombardamenti chimici. Nel 2011, all’interno del suo sito web, la giornalista del Manifesto - poi entrata anche in politica - ha spiegato ad esempio come, nei cinque anni precedenti, si siano verificati in quella stessa area quasi seimila casi di malattie sconosciute, la metà dei quali a carico di bambini.

La strage di Falluja (8-12 novembre 2004), nel corso della la quale gli americani hanno anche fatto largo uso, oltre che del famigerato fosforo bianco, di Napalm MK77 (un gas in grado di provocare incendi davvero apocalittici), rientrava nell’obiettivo di punire quella che era ritenuta la base dei guerriglieri sunniti impegnati a sabotare gli oleodotti. Se il nome di questo gas evoca un inquietante passato, va chiarito che anche il fosforo bianco fu impiegato in Vietnam. Lo utilizzò anche lo stesso Saddam Hussein negli anni Ottanta contro i curdi. Il suo effetto consiste nel penetrare all’interno della carne e bruciare da dentro l’ossigeno contenuto negli organi e nei tessuti, sciogliendoli fino alle ossa. Ossigeno di cui, naturalmente, sono invece privi gli abiti; il pregio del fosforo bianco sta infatti nel non intaccare i vestiti, nascondendo così i devastanti effetti che procura internamente. Il suo raggio d’azione, per giunta, è di circa 150 metri. “Una pioggia di fuoco è scesa sulla città - ha ricordato il biologo Mohamad Tareq al-Deraji, fondatore del “Centro studi sui i diritti umani” di Falluja, in un’inchiesta realizzata il 18 novembre 2004 per Rai News 24 da Sigfrido Ranucci - la gente colpita da queste sostanze ha cominciato a bruciare. Abbiamo trovato persone morte con strane ferite, i corpi bruciati ed i vestiti intatti”.

In quel novembre 2004 il Napalm e il Fosforo bianco furono largamente impiegati dagli americani anche sui civili, su donne e bambini. L’intera Falluja fu considerata “obiettivo militare”. Pino Arlacchi, ex vicesegretario dell’ONU, in quella stessa inchiesta di Rai News 24 ha sostenuto che questa strage abbia messo in discussione “ogni autorità morale dell’Occidente […] fornendo al terrorismo internazionale una sorta di legittimazione.

Falluja, però, non è soltanto la città più importante del “triangolo sunnita” fedele a Saddam. La violenza spropositata con cui è stata attaccata va ben al di là dell’intento di reprimere le sacche di resistenza ostili agli americani, in quelle zone soprannominati “gli Alì Babà”, in riferimento alle loro ruberie all’interno delle abitazioni, ai loro maltrattamenti nei confronti degli abitanti, alle loro molestie sessuali o perquisizioni immotivate ai danni della popolazione. Falluja si trova, in realtà, in una zona molto strategica, attraversata com’è dall’oleodotto che porta da Kirkuk a Bassora, passando per Baghdad. Un condotto che taglia da nord a sud tutto il Paese. Su quella zona, che include i gangli vitali del sistema energetico centro-settentrionale dell’Iraq, gli americani avevano posato gli occhi da tempo. Su di essa avevano deciso di investire miliardi di dollari e di stabilire un controllo assoluto, a tutti gli effetti ostacolato da un‘inarrestabile guerriglia sunnita. L’uccisione dei quattro soldati USA linciati per strada e poi appesi ad un ponte dai ribelli sunniti il 31 marzo 2004 fornì l’utile pretesto per l’assedio di tutta la zona. Ma l’episodio non poteva certo motivare, da solo, una presa definitiva dell’intera area sunnita, soprattutto in fase di elezioni presidenziali in America, nel corso della cui campagna elettorale il Presidente in carica stava faticando non poco contro la crescente delusione dei suoi cittadini circa l’andamento del conflitto. La rielezione di George W. Bush, avvenuta il 2 novembre 2004, sciolse però ogni riserva. Sei giorni dopo partì l’attacco finale di una battaglia considerata da tutti la più feroce mai condotta dagli USA in un centro urbano, dopo quella del 1968 ad Hue, in Vietnam.

 

Una Guerra a tutto gas. Perché l'ISIS? 

 Dall'inizio del Terzo millennio lo scenario è progressivamente cambiato a causa del ricorso a nuovi tipi di "giacimenti". A fronte dei circa 30 milioni di barili di petrolio prodotti quotidianamente dai Paesi dell'Opec, gli USA hanno iniziato a diminuire sempre più radicalmente le loro importazioni prelevando greggio e gas in modo autonomo dai terreni rocciosi in argilla che in abbondanza si ritrovano in America. La cosiddetta Shale revolution sta così riportando gli Stati Uniti in vetta alla lista dei Paesi produttori di combustibile, dato che nel 2013 gli USA sono riusciti a raggiungere la soglia dei 7 milioni di barili al giorno. Solo in Nord Dakota si estraggono quotidianamente 860 mila barili di petrolio. Per non parlare del Canada che, grazie a questo nuovo sistema di estrazione, ogni giorno supera ampiamente quota un milione di barili. Il tutto, però, senza considerare l'altissimo rischio ambientale, in termini di inquinamento delle falde acquifere e di sismicità, a cui quelle zone - con i loro abitanti - sono esposte.

L'Opec, in questo momento, sta perdendo decisamente terreno. Il risultato più evidente di questa situazione è la fortissima flessione del prezzo dei carburanti verificatasi in Europa a partire dalla seconda metà del 2014.

Ciò nonostante, il rischio di non riuscire a far completo affidamento sulle risorse interne, in America è ancora considerato molto alto. Inoltre, come visto sopra, i gravissimi "effetti collaterali" sull'ambiente (e sulle decine di migliaia di famiglie che stanno subendo gli effetti devastanti dell'inquinamento delle falde acquifere e dell'aria nelle zone in cui abitano, così come ben spiegato nel celebre film-documentario Gasland di Josh Fox), incluse le gravissime ripercussioni di tipo sismico che tali pratiche sembrano comportare (e che anche in Italia, da quando si sono diffuse, sembrano essersi verificate per lo meno dal terremoto in Emilia del 2012 in poi), non incoraggiano a pensare che la Shale revolution e il cosiddetto Fracking (Fratturazione) siano da ritenere l'effettiva soluzione al problema delle risorse energetiche occidentali. Per non parlare delle numerose cause civili e penali, che negli ultimi tempi i cittadini americani colpiti da tali effetti collaterali hanno vinto contro le grandi multinazionali.

Il risultato di questa situazione è la guerra senza confine che, dal secondo decennio del Terzo millennio, si è sviluppata in Medio Oriente soprattutto per mettere le mani proprio sulla fonte di energia che sembra comunque sfruttabile per lungo tempo e che è ancora possibile gestire a livello più o meno monopolistico: il gas naturale.

Da sempre l'Europa dipende dalle enormi riserve di gas dei giacimenti russi e di quelli nord africani. Questo, naturalmente, costituisce un punto di forza di nazioni come la Russia o la Libia nei rapporti con l'Occidente e, di conseguenza, anche una fortissima fonte di preoccupazione per gli USA.

Ed ecco i fatti.

Con un atteggiamento "destabilizzante" paragonabile a quello assunto nell'estate 2001 dall'Afghanistan, nel 2007 Svizzera e Iran cominciano a turbare questo equilibrio firmando un contratto di venticinque anni per la realizzazione di un gasdotto (Persian Pipeline), atto ad esportare dal Golfo Persico alla Confederazione elvetica oltre 5 miliardi di metri cubi all'anno di gas. Su pressione USA, però, il contratto viene abbandonato definitivamente nell’ottobre 2010.

Il 25 luglio 2011 Iran, Iraq, Siria e Libano annunciano un accordo per la realizzazione di un gigantesco gasdotto (l'Islamic Pipeline), che passerà sotto il Mediterraneo per approvvigionare l’Europa. Tale gasdotto si rivela evidentemente in netta concorrenza con il progetto del Nabucco Pipeline (nato nel 2009) che prevede di portare il gas dalla solita Baku (Azeirbaijan) alla Germania, passando per la Turchia e i Paesi dell’Europa dell’Est. Un progetto, quest'ultimo, che gli Stati Uniti avevano fin da subito appoggiato fortemente proprio per allentare la dipendenza europea della risorse di gas russo. L’Islamic Pipeline sarebbe in grado di provvedere al soddisfacimento del completo fabbisogno di gas naturale della Siria, dell’Iraq e del Libano. Gli Stati Uniti, quindi, si sentono di nuovo presi in contropiede; ma un boicottaggio del progetto, questa volta, non appare facile da realizzarsi. Se l’Iraq, in seguito all'occupazione ONU, per qualche tempo era rimasta sotto l'influenza USA, ora la situazione sta cominciando a sfuggire al controllo americano; per non parlare della ribelle e “canaglia” Siria.

Così, nella primavera 2011 proprio in Siria scoppia la guerra civile tra i sostenitori e gli oppositori del leader Assad. Dall’estate, poi, l'opinione pubblica occidentale viene messa al corrente di efferati crimini commessi dall’esercito siriano sulla popolazione e, soprattutto, suoi bambini. Tale polemica subisce una forte escalation tra il 2012 ed il 2013, quando l’Occidente viene informato del massiccio uso di armi chimiche da parte delle truppe regolari siriane. Tali eccidi autorizzerebbero, quindi, un quanto mai necessario intervento degli USA e dell’ONU per rovesciare il "regime" di Assad.

Dal luglio del 2014, infine, l’Occidente viene informato che un terzo della Siria è controllato dall’organizzazione terroristica ISIS⁵, considerata molto più pericolosa di Al-Qaida e le cui esecuzioni nei confronti di giornalisti americani e britannici - filmate e diffuse dalle tv occidentali e su Internet - scatenano l’ira dell’opinione pubblica, costituendo un ulteriore motivo di intervento militare degli USA. L'ISIS avrebbe anche iniziato ad occupare vaste zone dell'Iraq.

Gli aerei americani, di conseguenza, cominciano a bombardare i due Paesi interessati nel settembre successivo.

 Una serie di incontri piuttosto sospetti, verificatisi a partire dal febbraio 2011 tra il senatore repubblicano USA John McCain ed importanti membri di Al-Qaida ed Isis, primo fra tutti il "famigerato" Ibrahim al-Badri - meglio conosciuto come Abu Bakr, fondatore del cosiddetto Stato Islamico - sono stati evidenziati dal periodico di informazione Voltairenet.org in un dettagliato articolo di Thierry Meyssan.

Parecchie le vicende che proiettano ulteriori ombre sulla questione. Non ultima, quella relativa alla giornalista americano-libanese Serena Shim (1985-2014), che il 17 ottobre 2014, dopo esser stata accusata dai servizi segreti turchi di essere una spia siriana, denunciò in diretta, durante un telegiornale dell'emittente iraniana Press TV per cui lavorava, di aver riconosciuto diversi terroristi dell'ISIS mentre venivano fatti oltrepassare il confine turco in prossimità della città di Suruç, venendo così introdotti in Siria grazie a diversi camion della WFO, nientemeno che la World Food Organization.

Due giorni dopo, il 19 ottobre, l'automobile su cui viaggiavano Serena Shim e la sua cameraman Judy Irish venne travolta da un camion. L'incidente causò la morte immediata della scomoda giornalista. Gli USA non richiesero in alcun modo chiarimenti né predisposero ulteriori indagini sull'accaduto. Judy Irish, a dire della la giustizia turca, risultò la sola colpevole dell'incidente e anche il camionista - Şükrü Salan, lì per lì fuggito subito dopo l'impatto mortale - fu completamente scagionato.

 

 


(1) Molto del contenuto di questo articolo lo si deve al bellissimo libro di Benito Li Vigni, autentico braccio destro di Mattei, In nome del Petrolio, Editori Riuniti UP, 2006.

 

(2) Cfr. anche C. Catherwood, La follia di Churchill. L'invenzione dell'Iraq, Corbaccio, Milano, 2005

 

(3) Come ha affermato lo storico Mauro Canali (convinto tra l'altro che il silenzio della vedova Matteotti fu "comprato" dal Duce), in un'intervista rilasciata al periodico Oggi 2000  (num, 51),"I familiari di Matteotti hanno sempre sospettato che il mandante dell'omicidio fosse re Vittorio Emanuele, secondo loro proprietario di quote della Sinclair. Invece, io sono giunto alla conclusione che fu proprio Mussolini, che aveva intascato tangenti direttamente da questa operazione, a ordinare l'eliminazione del suo avversario politico.".

 

(4) Cfr. anche la conferenza tenuta nel 2008 da Benito Li Vigni a questo indirizzo

 

(5) Sull'origine dell'ISIS si vedano ad esempio le clamorose dichiarazioni dell'ex agente NSA Edward Snowden, secondo cui si tratterebbe di una messa in scena ideata dai servizi segreti britannici, americani ed israeliani (Cfr. Global Research, 16.07.2014).

 

 TORNA ALLA HOME

Scopri di più
di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca di Pietro Ratto Mariagrazia De Luca

Omero nel Baltico

Felice Vinci, 18 novembre 2011

Sin dai tempi antichi la geografia omerica ha dato adito a problemi e perplessità: la coincidenza tra le città, le regioni, le isole descritte, spesso con dovizia di dettagli, nell'Iliade e nell'Odissea ed i luoghi reali del mondo mediterraneo, con cui una tradizione millenaria le ha sempre identificate, è spesso parziale, approssimativa e problematica, quando non dà luogo ad evidenti contraddizioni: ne troviamo vari esempi in Strabone, il quale tra l'altro si domanda perché mai l'isola di Faro, ubicata proprio davanti al porto di Alessandria, da Omero venga invece inspiegabilmente collocata ad una giornata di navigazione dall'Egitto. Così l'ubicazione di Itaca, data dall'Odissea in termini molto puntuali – secondo Omero è la più occidentale di un arcipelago che comprende tre isole maggiori: Dulichio, Same e Zacinto – non trova alcuna corrispondenza nella realtà geografica dell'omonima isola nel mar Ionio, ubicata a nord di Zacinto, ad est di Cefalonia e a sud di Leucade. E che dire del Peloponneso, descritto come una pianura in entrambi i poemi?

Omero

In uno dei tanti ritratti immaginari.

La sua stessa biografia è avvolta nel più fitto mistero

Una possibile chiave per penetrare finalmente in questa singolare realtà geografica ce la fornisce Plutarco, il quale in una sua opera, il De facie quae in orbe lunae apparet, fa un'affermazione sorprendente: l'isola Ogigia, dove la dea Calipso trattenne a lungo Ulisse prima di consentirgli il ritorno ad Itaca, è situata nell'Atlantico del nord, "a cinque giorni di navigazione dalla Britannia". Partendo da tale indicazione e seguendo la rotta verso est, indicata nel V libro dell'Odissea, percorsa da Ulisse dopo la sua partenza dall'isola (identificabile con una delle Faroer, tra le quali si riscontra un nome curiosamente "grecheggiante": Mykines), si riesce subito a localizzare la terra dei Feaci, la Scheria, sulla costa meridionale della Norvegia, in un'area in cui abbondano i reperti dell'età del bronzo (ed anche graffiti rupestri raffiguranti navi: in effetti Omero chiama i Feaci “famosi navigatori”, ma di essi non è stata mai trovata nessuna traccia nel Mediterraneo). Qui, al momento dell’approdo di Ulisse, si verifica un fatto apparentemente incomprensibile: il fiume (dove il giorno successivo il nostro eroe incontrerà Nausicaa) ad un certo punto inverte il senso della corrente ed accoglie il naufrago all’interno della sua foce. Tale fenomeno, rarissimo nel Mediterraneo, è invece comune nel mondo atlantico, dove l’alta marea produce la periodica inversione del flusso negli estuari. Riguardo poi al nome stesso della Scheria, osserviamo che nell'antica lingua nordica "skerja" significava "scoglio".

Plutarco

Nato in Beozia nel I secolo d.C., ottenne da Traiano la dignità consolare romana. Successivamente fu nominato Ambasciatore romano in Grecia da Adriano.

Da qui, con un viaggio relativamente breve il nostro eroe fu poi accompagnato ad Itaca, situata, secondo Omero, all'estremità occidentale di un arcipelago su cui il poeta ci fornisce molti particolari, estremamente coerenti fra loro ma totalmente incongruenti con le Isole Ionie: ora, una serie di precisi riscontri consente di individuare nel Baltico meridionale un gruppo di isole danesi, l’arcipelago del Sud Fionia, che vi corrisponde in ogni dettaglio. Le principali infatti sono proprio tre: Langeland (l'"Isola Lunga": ecco svelato l'enigma della misteriosa Dulichio), Ærø (la Same omerica, anch'essa collocata esattamente secondo le indicazioni dell'Odissea) e Tåsinge (l'antica Zacinto). L'ultima isola dell'arcipelago verso occidente, "là, verso la notte", ora chiamata Lyø, è proprio l'Itaca di Ulisse: essa coincide in modo stupefacente con le indicazioni del poeta, non solo per la posizione, ma anche per le caratteristiche topografiche e morfologiche (invece l’Itaca greca non ha nulla a che vedere con le indicazioni dell’Odissea). E nel gruppo si ritrova persino l'isoletta, "nello stretto fra Itaca e Same", dove i pretendenti si appostarono per tendere l'agguato a Telemaco.

Inoltre, ad oriente di Itaca e davanti a Dulichio giaceva una delle regioni del Peloponneso, che a questo punto si identifica facilmente con la grande isola danese di Sjælland (dove adesso sorge Copenaghen): ecco la vera "Isola di Pelope", nell'autentico significato del termine. Il Peloponneso greco invece, situato in posizione corrispondente nell'Egeo, malgrado la sua denominazione non è un'isola: questa contraddizione, inspiegabile se non si ammette una trasposizione di nomi, è molto significativa. Ma c'è di più: sia i particolari, riportati dall'Odissea, del rapido viaggio in cocchio di Telemaco da Pilo a Lacedemone lungo una "pianura ferace di grano", sia gli sviluppi della guerricciola tra Pili ed Epei raccontata da Nestore nell'XI libro dell'Iliade, da sempre considerati incongruenti con la tormentata orografia della Grecia, si inseriscono perfettamente nella realtà della pianeggiante isola danese.

La Penelope Vaticana

Si tratta della copia di una statua greca risalente al XVI secolo a.C.

Va notato che in tutto il mondo non esiste un gruppo di isole che corrisponda alle indicazioni omeriche altrettanto bene quanto queste isole della Danimarca (e men che meno nel Mediterraneo).

Cerchiamo ora la regione di Troia. L'Iliade la situa lungo l'Ellesponto, sistematicamente descritto come un mare "largo" o addirittura "sconfinato"; è pertanto da escludere che possa trattarsi dello Stretto dei Dardanelli, davanti a cui si trova la collina di Hissarlik con la città trovata nell’Ottocento da Schliemann, la cui identificazione con la Troia omerica continua a suscitare fortissime perplessità (pensiamo alla critica che ne ha fatto Moses Finley nel suo Il mondo di Odisseo). Inoltre, una serie di indagini geologiche recentemente condotte nella pianura ai piedi della collina ha mostrato che nel II millennio a.C. essa era ricoperta da un vasto braccio di mare, del tutto inconciliabile con le descrizioni omeriche.

Saxo Grammaticus

(c. 1150-c. 1220)

Storico danese medievale

Ora, lo storico medioevale danese Saxo Grammaticus nelle sue Gesta Danorum menziona in più occasioni un singolare popolo di "Ellespontini", nemici dei Danesi, e un "Ellesponto" curiosamente situato nell'area del Baltico orientale: che si tratti dell'Ellesponto omerico? Esso potrebbe identificarsi con il Golfo di Finlandia, il corrispondente geografico dei Dardanelli; poiché d'altra parte Troia, secondo l'Iliade, era ubicata a nord-est del mare (altro punto a sfavore del sito di Schliemann), per la nostra ricerca è ragionevole orientarci verso un'area della Finlandia meridionale, là dove il Golfo di Finlandia sbocca nel Baltico. E proprio qui, in una zona circoscritta ad occidente di Helsinki, s'incontrano numerosissime località i cui nomi ricordano in modo impressionante quelli dell'Iliade, ed in particolare gli alleati dei Troiani: Askainen (Ascanio), Reso (Reso), Karjaa (Carii), Nästi (Naste, capo dei Carii), Lyökki (Lici), Tenala (Tenedo), Kiila (Cilla), Kiikoinen (Ciconi) e tanti altri. Vi è anche una Padva, che richiama la nostra Padova, la quale secondo la tradizione venne fondata dal troiano Antenore (i Veneti, chiamati “Enetoi” nell’Iliade ed enumerati fra gli alleati dei Troiani, nella Germania di Tacito sono menzionati accanto ai Finni,); inoltre, nella stessa area della Finlandia meridionale, i toponimi Tanttala e Sipilä – sul monte Sipilo fu sepolto il mitico Tantalo, famoso per il celebre supplizio nonché re della Lidia, una regione confinante con la Troade – indicano che il discorso non è circoscritto alla sola geografia omerica, ma sembra estendersi all'intero mondo della mitologia greca.

Tantalo

(F. Goya)

E Troia? Proprio al centro della zona così individuata, in una località, a mezza strada fra Helsinki e Turku, le cui caratteristiche corrispondono esattamente a quelle tramandateci da Omero – l'area collinosa che domina la vallata con i due fiumi, la pianura che scende verso la costa, le alture alle spalle – scopriamo che la città di Priamo è sopravvissuta al saccheggio e all'incendio da parte degli Achei ed ha conservato il proprio nome quasi invariato sino ai nostri giorni: Toija, così si chiama attualmente, è ora un pacifico villaggio finlandese, rimasto per millenni ignaro del proprio glorioso e tragico passato. Varie visite in loco, a partire dall'11 luglio 1992, hanno confermato le straordinarie corrispondenze delle descrizioni dell'Iliade con il territorio attorno a Toija, dove per di più si riscontrano molti tumuli preistorici ed altre notevoli tracce dell'età del bronzo. E’ poi stupefacente che, in direzione del mare, il nome della località di Aijala ricordi tuttora la "spiaggia" ("aigialòs") dove gli Achei avevano tratto in secca le loro navi (Il. XIV, 34).

Le corrispondenze geografiche si estendono anche alle aree adiacenti: sulla costa svedese antistante, 70 chilometri a nord di Stoccolma, si affaccia la baia di Norrtälje, lunga e relativamente stretta, le cui caratteristiche rimandano alla Aulide omerica, da dove mosse la flotta achea diretta a Troia; attualmente dalla sua estremità partono i traghetti per la Finlandia, ricalcando la stessa rotta: essi transitano davanti all'isola Lemland, il cui nome ricorda l'antica Lemno, dove gli Achei fecero tappa e abbandonarono l'eroe Filottete; a sua volta, la vicina Åland, la maggiore dell'omonimo arcipelago, probabilmente coincide con Samotracia, mitica sede dei misteri della metallurgia. L'attiguo Golfo di Botnia a questo punto è facilmente identificabile con l'omerico Mar Tracio; e, riguardo alla Tracia, che il poeta colloca al di là del mare rispetto a Troia, in direzione nord-ovest, essa giaceva lungo la costa della Svezia centro-settentrionale e nel suo entroterra (ed è singolare che nei miti nordici il dio Thor sia il signore di una regione chiamata “Trakja”). Più a sud, oltre il Golfo di Finlandia, la posizione dell'isola Hiiumaa, situata dirimpetto alla costa dell'Estonia, corrisponde esattamente a quella dell'omerica Chio, che l'Odissea pone sulla rotta del rientro in patria della flotta achea dopo la guerra.

Filottete sull'isola di Lemno

(J-G.Drouais, 1788)

Insomma, oltre alle caratteristiche morfologiche del territorio, anche la collocazione geografica di questa Troade finnica "calza a pennello" con le indicazioni della mitologia; e così si spiega finalmente perché sui combattenti nella pianura di Troia cali spesso una "fitta nebbia" ed il mare di Ulisse non sia mai quello splendente delle isole greche, ma appaia sempre "livido" e "brumoso": nel mondo cantato da Omero si avvertono le asprezze tipiche dei climi nordici. Dovunque vi si riscontra una meteorologia tutt'altro che mediterranea, con nebbia, vento, freddo, pioggia, neve – quest'ultima anche in pianura e perfino sul mare – mentre il sole, e soprattutto il caldo, sono quasi sempre assenti: in quello che, secondo la tradizione, dovrebbe essere un torrido bassopiano dell'Anatolia, il tempo è quasi sempre inclemente, al punto che i combattenti, ricoperti di bronzo, arrivano ad invocare il sereno durante la battaglia! Addirittura, nel rievocare un episodio della guerra di Troia, Ulisse racconta che sotto le mura della città "la notte era scesa cattiva, ché Borea soffiava/ e gelata. Poi sopraggiunse la neve, come una brina spessa,/ gelida: intorno agli scudi s'incrostava il ghiaccio" (Od. XIV, 475-477). Ma anche nell’Itaca omerica il tempo è freddo e perturbato e non splende mai il sole: eppure le vicende dell’Odissea sono ambientate durante la stagione della navigazione. D'altronde, a tale contesto è perfettamente adeguato l'abbigliamento dei personaggi omerici, tunica e "folto mantello", che non lasciano mai, neppure durante i banchetti: esso trova un preciso riscontro nei resti di abiti ritrovati nelle antiche tombe danesi.

Questa collocazione così settentrionale consente altresì di spiegare la macroscopica anomalia della grande battaglia che occupa i libri centrali dell'Iliade, con due mezzogiorni (XI, 86; XVI, 777) intercalati da una “notte funesta” (XVI, 567), la quale però non interrompe i combattimenti. La prosecuzione notturna della battaglia è incomprensibile nel mondo mediterraneo, mentre si spiega subito con la localizzazione nordica: è infatti il chiarore notturno, tipico delle alte latitudini nei giorni attorno al solstizio estivo, che consente alle truppe fresche guidate da Patroclo di continuare a combattere ininterrottamente fino al giorno dopo. A ciò si aggiunge la concomitanza dell’ondata di piena dei due fiumi di Troia, lo Scamandro e il Simoenta, nella battaglia del giorno successivo, in cui lo stesso Achille rischia di annegare: ciò è in accordo con i regimi stagionali dei fiumi nordici, le cui piene primaverili, susseguenti al disgelo, avvengono tra maggio e giugno, ossia proprio quando si verificano le notti bianche.

Aiace riporta al campo il corpo di Patroclo

Questa chiave di lettura consente finalmente di ricostruire tutto lo svolgimento della battaglia durata due giorni in modo perfettamente logico e coerente, senza le perplessità e le forzature delle attuali interpretazioni, che in nome della “pregiudiziale mediterranea” sono costrette a comprimerla in un giorno soltanto. Addirittura, da un passo dell'Iliade si riesce persino a evincere il nome greco, “amphilyke nyx”, del fenomeno delle notti bianche, tipiche delle regioni situate a ridosso del Circolo polare: è un vero e proprio "fossile linguistico" che l'epos omerico ha fatto sopravvivere allo spostamento degli Achei nel sud dell'Europa, dove le notti bianche ovviamente non si verificano.

Notiamo ancora che, in base alle descrizioni di Omero, le mura di Troia appaiono alla stregua di una rustica palizzata di tronchi e pietre; insomma, più che le poderose fortificazioni micenee, esse ricordano gli arcaici recinti in legno degli insediamenti nordici (tali furono ad esempio le mura del Cremlino fino al XV secolo).

Prendiamo adesso in esame il cosiddetto Catalogo delle navi del II libro dell'Iliade, che riporta l'elenco delle 29 flotte achee partecipanti alla guerra di Troia con i loro comandanti e le località di provenienza: si può verificare che esso si snoda seguendo punto per punto la geografia delle coste baltiche in senso antiorario, a partire dalla Svezia centrale fino alla Finlandia (mentre la stessa sequenza, se la si applica al contesto mediterraneo, diventa confusa e problematica); in tal modo, utilizzando anche le altre notizie fornite dai due poemi, è possibile ricostruire integralmente il mondo degli Achei attorno al mar Baltico, dove, come ci attesta l'archeologia, nel secondo millennio a.C. fioriva una splendida età del bronzo. 

Ecco dunque la ragione delle anomalie, geografiche e non, contenute nei poemi omerici: il teatro della guerra di Troia e delle altre vicende della mitologia greca non fu il Mediterraneo, ma il mar Baltico, sede primitiva dei biondi "lunghichiomati" Achei, riguardo ai quali esiste già la tendenza a considerarli provenienti dal settentrione, sulla base di una serie di testimonianze archeologiche raccolte sui siti micenei in Grecia. A tale riguardo il prof. Martin P. Nilsson, eminente studioso ed archeologo svedese, nel suo famoso Homer and Mycenae riporta numerose, e significative, prove che attestano l'origine nordica di quel popolo: ad esempio la presenza, nelle più antiche tombe micenee in Grecia, di grandi quantità di ambra (che invece scarseggia sia nelle sepolture più recenti, sia in quelle minoiche a Creta); l'impronta prettamente nordica della loro architettura (il megaron miceneo "è identico alla sala degli antichi re scandinavi"); la "impressionante somiglianza" di alcune lastre di pietra provenienti da una tomba di Dendra "con i menhir conosciuti dall'età del bronzo dell'Europa centrale"; i crani di tipo nordico trovati nella necropoli di Kalkani e così via. D'altro canto, in certi reperti dell'archeologia scandinava, ed in particolare nelle figure incise sulle lastre del grande tumulo di Kivik, in Svezia, sono state riscontrate rimarchevoli affinità con i modelli dell'arte egea, al punto da indurre qualche studioso del passato ad ipotizzare che quel monumento fosse opera dei Fenici. Inoltre, un significativo indizio della presenza degli Achei nel nord dell'Europa è costituito da un graffito miceneo ritrovato nel complesso megalitico di Stonehenge, in Inghilterra meridionale, insieme con altre tracce, riscontrate dagli archeologi sempre nella stessa area ("cultura del Wessex"), di epoca precedente all'inizio della civiltà micenea in Grecia.

Quanto a Ulisse, di cui Omero ricorda “i biondi capelli” – d’altronde anche Pindaro nella IX ode Nemea menziona i “biondi Danai” – vi sono singolari convergenze tra la sua figura e quella di Ull, guerriero ed arciere della mitologia nordica; inoltre, lungo le coste e le isole del mar di Norvegia troviamo molti suggestivi riscontri alle sue celebri peregrinazioni, che iniziano allorché il nostro eroe, al suo ritorno dalla guerra di Troia, quando sta ormai per arrivare ad Itaca s’imbatte in una tempesta che lo trascina via dal suo mondo abituale. Così egli si ritrova in un “altrove” dove viene coinvolto in una serie di fantastiche avventure, fin quando non raggiunge l’isola Ogigia, che l’indicazione del De facie di Plutarco ci ha consentito di identificare con una delle Faroer, nell’Atlantico settentrionale. Queste avventure, presumibilmente nate da racconti di marinai, rappresentano l’ultimo ricordo di rotte seguite dagli antichi navigatori dell’età del bronzo nordica al di fuori del bacino baltico, nell’Oceano Atlantico (dove scorre il “Fiume Oceano”, ossia la Corrente del Golfo), poi diventate irriconoscibili dopo la trasposizione nel mondo mediterraneo.

Pindaro

(520 - 438 a.C.)

Ad esempio, l’isola Eolia, dove regna il “signore dei venti” Eolo Ippotade (“Ippotade” significa “figlio del cavaliere”), è una delle Shetland (forse Yell), dove soffiano venti fortissimi e tuttora vive una pregiata razza di pony; i Ciclopi abitavano sulla costa della Norvegia settentrionale, presso il Tosenfjorden (non a caso, essi ricordano i mitici troll del folklore norvegese); anche i Lestrigoni vivevano sulla costa norvegese, ma ancora più a nord (proprio dove li colloca il Prof. Robert Graves, basandosi sul fatto che, come dice Omero, nella loro terra le giornate estive sono lunghissime); l’isola della maga Circe, dove si riscontrano tipici fenomeni artici, quali il sole di mezzanotte (Od. X, 190-192) e le “danze dell’Aurora” (Od. XII, 3-4), si trovava oltre il circolo polare, verso le isole Lofoten (dunque le magie di Circe, chiamata da Omero “polypharmakos”, “quella dalle molte pozioni”, sono in realtà manifestazioni di un arcaico sciamanismo lappone); Cariddi è il famigerato gorgo chiamato Maelstrom (la descrizione omerica è straordinariamente simile a quella di Edgar Allan Poe nel noto racconto La discesa nel Maelstrom) e, subito dopo, Ulisse sbarca nell’isola Trinachia, che significa “Tridente”: in effetti, davanti al Maelstrom vi è Mosken, un’isola dalla caratteristica silhouette che ricorda un cappello a tre punte. Quanto alle Sirene, si tratta di micidiali scogli e bassifondi che infestano il mare davanti alle Lofoten, pericolosissimi per i naviganti anche a causa della nebbia e delle correnti di marea: se costoro infatti, attratti dall’ingannevole rumore della risacca (“il canto delle sirene”), si avvicinano pensando di trovarsi vicini alla terraferma, rischiano di naufragare sugli scogli (pertanto l’espressione “canto delle sirene” si rivela in realtà una kenning, ossia una sorta di metafora, tipica della poesia nordica). Addio Grecia, addio mare Mediterraneo!

Circe offre la coppa a Ulisse

(J. W- Waterhouse, 1891)

Notiamo che all'epoca in cui sono ambientati i poemi omerici doveva essere ormai prossimo al tracollo un periodo caratterizzato da un clima eccezionalmente caldo, durato per millenni: è accertato infatti che il cosiddetto "optimum climatico post-glaciale", con temperature che nell'Europa del nord furono molto superiori a quelle attuali, raggiunse l'acme verso il 2500 a.C. (fase “atlantica” dell’Olocene) e iniziò a declinare attorno al 2000 (quando comincia la fase “sub-boreale”), fino ad esaurirsi completamente qualche secolo dopo. Fu probabilmente questo il motivo che ad un certo punto indusse gli Achei a trasferirsi nel Mediterraneo (scendendo, forse, per il fiume Dnepr verso il mar Nero, come molti secoli dopo avrebbero fatto i Vichinghi, la cui cultura presenta singolari affinità con quella achea): qui essi diedero origine alla civiltà micenea, notoriamente non autoctona della Grecia, la quale fiorì a partire dal XVI secolo a.C., in buon accordo quindi con le indicazioni climatiche.

Guerrieri achei

Coppa del VII secolo a.C.

I migratori portarono con sé epopee e geografia: attribuirono infatti alle varie località in cui si insediarono gli stessi nomi che avevano lasciato nella patria perduta, di cui perpetuarono il retaggio nei poemi omerici e nella mitologia greca (la quale, se da un lato presenta molti punti di contatto con quella nordica, dall'altro, forse in seguito al crollo della civiltà micenea, avvenuto attorno al XII secolo a.C., ha perso il ricordo della grande migrazione dal settentrione); inoltre ribattezzarono con i corrispondenti nomi baltici anche le altre regioni dell'area mediterranea, quali la Libia, Creta e l'Egitto, generando in tal modo un colossale equivoco geografico che ha spiazzato per millenni tutti gli studiosi. Queste trasposizioni vennero agevolate – anzi, forse, suggerite – da una certa analogia tra la configurazione geografica del Baltico e quella dell'Egeo: basti pensare alla corrispondenza tra Öland ed Eubea, o tra Sjælland e Peloponneso (dove peraltro, come abbiamo visto, dovettero forzare il concetto di "isola"); il fenomeno venne poi consolidato, nel corso dei secoli, dal progressivo affermarsi dei popoli di lingua greca nel bacino del Mediterraneo, a partire dalla civiltà micenea fino all'epoca ellenistico-romana.

Con tale quadro è coerente una perentoria affermazione di un eminente studioso: “La nobiltà degli esametri [di Omero] non dovrebbe trarci in inganno inducendoci a pensare che l’Iliade e l’Odissea siano qualcosa di diverso dai poemi di un’Europa in gran parte barbarica dell’Età del Bronzo o della prima Età del Ferro. Non c'è sangue minoico o asiatico nelle vene delle muse greche: esse si collocano lontano dal mondo cretese-miceneo e a contatto con gli elementi europei di cultura e di lingua greche (…) Alle spalle della Grecia micenea si stende l'Europa" (Stuart Piggott, Europa Antica).

Una straordinaria, recente, conferma archeologica ci viene dal cosiddetto "disco di Nebra" (un villaggio situato 50 km ad ovest di Lipsia, nella Germania orientale) e delle spade, di tipo miceneo, ritrovate nello stesso sito. Il disco di Nebra è un manufatto in bronzo datato al 1600 a.C., circolare (diametro circa 30 cm) con riportati sole, luna e stelle (tra cui si distinguono le sette Pleiadi). Esso è il perfetto pendant dei versi del XVIII libro dell'Iliade in cui Omero illustra le decorazioni astronomiche fatte dal dio fabbro Efesto sullo strato in bronzo posto al centro dello scudo di Achille: "Vi fece la terra, il cielo e il mare,/ l'infaticabile sole e la luna piena,/ e tutti i segni che incoronano il cielo,/ le Pleiadi, le Iadi...". I reperti di Nebra mostrano lo stretto rapporto, per così dire "triangolare", che, attraverso l'archeologia, si può stabilire tra il mondo nordico della prima età del bronzo, quello miceneo (le spade) e quello omerico (lo scudo), a conferma dell’affermazione del Prof. Piggott, grande archeologo e accademico inglese, citata in precedenza.

Disco di Nebra

(c.a 2000 a.C.)

In conclusione, il reale scenario dell'Iliade e dell'Odissea è identificabile non nel mar Mediterraneo, dove dà adito a innumerevoli incongruenze (il clima sistematicamente freddo e perturbato, le battaglie che proseguono durante la notte, i fiumi che invertono il loro corso, il Peloponneso pianeggiante, eroi biondi intabarrati in pesanti mantelli di lana, isole e popoli introvabili...), ma nel nord dell'Europa. Le saghe che hanno dato origine ai due poemi provengono dal Baltico e dalla Scandinavia, dove nel II millennio a.C. fioriva l'età del bronzo e dove sono tuttora identificabili molti luoghi omerici, fra cui Troia e Itaca; le portarono in Grecia, in seguito al tracollo dell'"optimum climatico", i biondi Achei che nel XVI secolo a.C. fondarono la civiltà micenea: essi ricostruirono nel Mediterraneo il loro mondo originario, in cui si erano svolte la guerra di Troia e le altre vicende della mitologia greca, e perpetuarono di generazione in generazione, trasmettendolo poi alle epoche successive, il ricordo dei tempi eroici e delle gesta compiute dai loro antenati nella patria perduta. La messa per iscritto di questa antichissima tradizione orale, avvenuta in seguito all'introduzione della scrittura alfabetica in Grecia, attorno all'VIII secolo a.C., ha poi portato alla stesura dei due poemi nella forma attuale.

 


Il volume "Omero nel Baltico. Le origini nordiche  dell’Odissea e dell’Iliade" (Editore Palombi, V edizione, Roma 2008)  nell'edizione italiana è presentato dalla Prof. Rosa Calzecchi Onesti, nota  studiosa e traduttrice dei poemi omerici. Negli ultimi anni l'autore è stato  più volte invitato a presentare la tesi ivi esposta in varie Università  italiane, quali ad esempio Pavia (cinque volte) e Padova; in particolare, nell'aprile  2005 ha svolto un seminario in due lezioni presso il Dipartimento di Geografia  della Facoltà di Lettere dell'Università "La Sapienza" di Roma, nell'ambito di  un corso, intitolato "Il mare: mito e letteratura", tenuto dal Prof.  Gianfranco Bussoletti, dove "Omero nel Baltico" era indicato fra i testi  d'esame. Il 19 aprile 2007 ha presentato la sua teoria presso la Facoltà di  Scienze della Formazione dell'Università Roma 3.

Nel 2003 il Prof. Edoardo  Sanguineti ha scritto un positivo articolo sulla pagina culturale de  "L'Unità"; un articolo è uscito sul "Manifesto" del 7 maggio 2005; il 28 gennaio 2007 il supplemento culturale del Sole 24 Ore ha dedicato un ampio  articolo alla questione, con la firma del Prof. Piero Boitani, Direttore del  Dipartimento di Letterature Comparate dell'Università di Roma "La Sapienza";  un articolo di Massimo Morello è uscito il 19 gennaio 2008 su "Repubblica".  Nel giugno 2008 è uscito su LIMES, Rivista italiana di geopolitica, un  articolo di tre pagine dedicato all'argomento: si tratta dell'articolo  conclusivo, intitolato "Il vero viaggio dell'uom di multiforme ingegno", del  Quaderno Speciale di LIMES "Partita al Polo". In precedenza, una positiva recensione era uscita sull'accademico "Bollettino della Società Geografica Italiana" a firma del Prof. Claudio Cerreti, Ordinario di Geografia presso l'Università di Roma.

Nel 2002 l'autore ha  presentato la sua tesi nell'ambito di un convegno internazionale  dell'Università di Vancouver, e, successivamente, in un convegno tenutosi nel  novembre 2005 presso il Dipartimento di Filologia Classica dell'Università di  Riga, in Lettonia. Inoltre, i professori del Dipartimento di Filologia  Classica dell'Università russa di Saransk hanno integralmente tradotto il  libro e nel 2004 lo hanno pubblicato in Russia, diffondendolo presso le  Università ed i circoli accademici e culturali. In seguito a ciò, nel dicembre  2004 l'autore è stato invitato a presentare la sua teoria nonchè l'edizione  russa del libro all'Accademia delle Scienze di San Pietroburgo, davanti ad un  folto gruppo di eminenti studiosi. In particolare, la prof. Tatyana  Devyatkina, titolare di Filologia Classica all'Università di Saransk, ha  scritto: "The results of his research can be considered among the greatest  discoveries of the 20th -21st centuries".

Il libro è stato tradotto anche  in inglese e pubblicato nel 2006 in USA da una casa editrice americana con il  titolo "The Baltic Origins of Homer's Epic Tales. The Iliad, the Odyssey, and  the Migration of Myth".

 

Al riguardo, nel Bard College di New York, nell'ambito  di un corso di alti studi su Omero, nel 2007 sono state tenute varie lezioni  basate sull'edizione inglese del libro, adottato come testo per gli studenti.  Il Prof. William Mullen, del Department of Classics del Bard College, ha  scritto: "It is hard to overstate the impact, both scholarly and imaginative,  of Vinci's compellingly argued thesis.... Scholars will be rethinking  Indo-European studies from the ground up and readers of Homer's epics will  enter fresh realms of delight as they look anew at the world in which Homer's  heroes first breathed and moved". Sempre il Prof. Mullen, con alcuni suoi  allievi, nel mese di giugno 2006 aveva effettuato un viaggio in barca a vela  nel Baltico (v. sito http://vteam06.googlepages.com/ ), seguendo le rotte indicate nel libro, con il finanziamento del  SEA, importante Istituto oceanografico americano. Così pure, "ARION. A Journal  of Humanities and the Classics" dell'Università di Boston nel suo numero di  primavera/estate 2007 ha dedicato un articolo di 35 pagine a questo argomento. Tra le recensioni in USA, vedasi ad esempio il sito  The Barnes Review

Nell'agosto 2007 in Finlandia  ha avuto luogo un seminario  scientifico internazionale sull'argomento, i cui Atti sono stati pubblicati a  cura del prof. Giacomo Tripodi dell'Università di Messina.Un secondo convegno ha avuto luogo, sempre in Finlandia, nel luglio 2011.

Inoltre,  l'autore è stato invitato a presentare la sua tesi alla International  Conference on Mediterranean Studies, promossa dallo Athens Institute for  Education and Research, tenutasi ad Atene il 20-23 marzo 2008.

Infine, tra  il 2008 ed il 2009 il libro è stato pubblicato anche in Estonia e in  Svezia (sul sito Lumio ) dove è stato presentato alla Fiera del Libro, "Bokmassan", di  Goteborg. L’edizione danese è uscita nel 2011; quella tedesca nella primavera 2012.

 

Scopri di più