di Giuseppe A. Spadaro Mariagrazia De Luca di Giuseppe A. Spadaro Mariagrazia De Luca

L’albero del Bene - San Francesco teologo cataro: paralipomena

Giuseppe A. Spadaro, 17 maggio 2015

Perché la tesi che San Francesco d’Assisi fosse segretamente un cataro suscita tanto stupore e sconcerto? Come scrivevamo nell’Introduzione a L’albero del Bene, due sono i principali ostacoli che si frappongono al riconoscimento dell’eresia catara in Francesco: 1°, una erronea valutazione del cristianesimo storico; 2°, l’ignoranza del vero pensiero cataro. Circa il primo ostacolo, si dimentica troppo spesso che, come affermava Ernesto Buonaiuti, "il cristianesimo genuino è nel suo midollo tremendamente dualista". In questi ultimi tempi il Clero tenta di accreditare il cristianesimo come religione della vita, trascurando la I Epistola di Giovanni (epistola canonica!) che, ai versetti 2, 15/16 recita:"Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel mondo: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre ma dal mondo". Sull’insanabile contrapposizione fra Dio creatore del mondo e il mondo creato da Dio, torneremo parlando del Cantico delle creature.

Circa il secondo ostacolo, l’ignoranza del vero pensiero cataro, essa è talmente diffusa, che perfino Chiara Frugoni, Ordinaria di Storia del Medioevo, consultata circa la nostra tesi, il 1° febbraio 2005 ci fece la seguente disarmante ammissione: "Lei sui Catari ne sa senz’altro più di me […] Io mi sono un po’ persa, non mi è chiaro in che cosa credessero i Catari che Francesco poteva conoscere […] Se ci sono degli elementi catari perfino nel Vangelo, allora chiunque può essere Cataro". A dissipare tale ignoranza, nell’Introduzione a L’albero del Bene elencavamo in cinque punti la dottrina dei Catari: 1°, il loro libro sacro era il Vangelo, ma essi si avvalevano anche di apocrifi. 2°, l’Inferno era per loro questa vita, ma in funzione purgatoria. 3°, sull’autorità di Lc. 12, 58-59 essi credevano nella reincarnazione (il carcere), da cui non ci si libera finché non si sia “pagato fino all’ultimo centesimo”. 4°, le anime umane non sono create da Dio al momento del concepimento, ma sono spirituale progenie di un Angelo caduto, Adamo. 5°, negando l’onnipotenza di Dio nel temporale, essi lo sollevavano dalla responsabilità di fare il male due volte, permettendolo prima e punendolo poi.

 

Vale dunque la pena di ricordare il giudizio di F. Zambon (“La cena segreta”, Adelphi 1997): "Le Bibbie in uso presso i Catari non differivano granché da quella ortodossa: al massimo potevano presentare alcune lezioni proprie delle lezioni latine anteriori alla Vulgata geronimiana". Era piuttosto l’interpretazione che davano i Catari, a fare una differenza non solo formale ma sostanziale e dottrinaria. Il Figliuol prodigo era Adamo che, lasciata la casa del Padre, dissipa la sua eredità. Il Fattore infedele era Lucifero che, incontrato l’altro servo (Adamo), lo fa rinchiudere nella prigione (il corpo) finché non abbia pagato fino all’ultimo centesimo. Ebbene, il marchio del catarismo nel Sacrum commercium beati Francisci cum Domina Paupertate è costituito dall’interpretazione della parabola del Buon Samaritano. Dopo il peccato Adamo si trova nudo:"Et nudus vere erat, quod, de Jerusalem in Jericho descendens, incidit in latrones, qui expoliaverunt eum bonae naturae, amissa similitudine Creatoris". Colui che sulla strada da Gerusalemme a Gerico s’imbatte nei ladroni, che “lo spogliano della sua eredità, la sua simiglianza col Creatore”, è dunque Adamo spogliato da Lucifero, mentre il buon Samaritano venuto a soccorrerlo, è Gesù.

 

Se il tema della caduta è centrale nel cristianesimo, nella scuola francescana esso acquista il valore di un’esperienza esistenziale. È così che   l’interpretazione catara della parabola del Buon Samaritano da parte di Francesco ci riporta al 4° dei punti sopraelencati, in cui la dottrina dei Catari dissente da quella ecclesiale: le anime umane sono spirituale progenie di un angelo caduto, Adamo. Quanto tale considerazione ci porti lontano dall’ortodossia,  lo dice la lectio tenuta da Benedetto XVI il 10 marzo 2010:"San Bonaventura tra i vari meriti ha avuto quello di interpretare autenticamente e fedelmente la figura di san Francesco d’Assisi. Ai suoi tempi una corrente di frati minori, detti spirituali, sosteneva che con san Francesco era stata inaugurata una fase totalmente nuova della storia, sarebbe apparso il Vangelo eterno, del quale parla l’Apocalisse, che sostituiva il Nuovo Testamento. […] È comprensibile perciò che un gruppo di francescani pensasse di riconoscere in san Francesco l’iniziatore del tempo nuovo, e nel suo ordine la comunità dello Spirito Santo, che lasciava dietro di sé la Chiesa Gerarchica […] Vi era dunque il rischio di un gravissimo fraintendimento del messaggio di san Francesco, della sua umile fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, e tale equivoco comportava una visione erronea del cristianesimo nel suo insieme".     

 

Su tale lectio ci limiteremo a citare quanto scrivemmo in Dell’imitazione e della memoria (Edizioni Bibliotheca 2012, p. 63):"Che gli Spirituali abbiano frainteso il messaggio di Francesco senza che il Santo abbia loro fornito il benché minimo appiglio, è una tesi di cui è facilmente dimostrabile l’inconsistenza. Perché Bonaventura ordinò ai frati di distruggere le prime biografie del Santo? L’estrema durezza con cui egli stroncò il movimento degli Spirituali è così ricordata nella Chronica tribulationum del Salimbene:"Tunc enim sapientia et sanctitas fratris Bonaventurae eclipsata et obscurata est et ejus mansuetudo ab agitante spiritu in furorem et iram defecit". Egli fissò a Narbona il primo Capitolo del suo generalato. Ai frati Conventuali tracciò un programma tendente a riportarli all’osservanza della Regola. Gli Zelanti invece li convocò a Città della Pieve, dove un tribunale ecclesiastico li condannò alla prigione perpetua. Ma cancellando le tracce del Testamento di Francesco, egli tradì la memoria del Fondatore.

 

La congiuntura storica giustificava la durezza con la quale Bonaventura, al secolo Giovanni Fidanza da Bagnoregio, stroncò il movimento degli Spirituali? Con tale durezza egli intendeva salvaguardare la sopravvivenza dell’Ordine, minacciato dallo scontro di due opposte fazioni, oppure la sopravvivenza del Papato, che sembrava giunto al redde rationem? Non dimentichiamo che, appena eletto Ministro Generale, egli trascinò davanti a un tribunale ecclesiastico il suo predecessore Giovanni da Parma e lo fece condannare alla prigione perpetua. Per tali meriti egli fu da Gregorio X creato cardinale, un esito aborrito da Francesco, che nel Testamento lo aveva vietato ai frati Minori. Ne I Fioretti di San Francesco, un’opera anonima della fine del XIII° secolo, c’è una descrizione assai colorita del trattamento riservato a Bonaventura, al quale Francesco taglia"l’unghie di ferro aguzzate e taglienti come rasoi".    

 

In quella sua lectio Ratzinger accomunava"fedeltà al Vangelo e alla Chiesa", ma al Vangelo erano fedeli solo i Catari, la cui eresia consisteva nel seguirlo ad litteram come san Francesco. Alla Chiesa di Roma i Catari contestavano non solo l’origine apostolica, i sacramenti e la gerarchia ma, in base al versetto evangelico: L’albero si giudica dai frutti, ne condannavano i costumi e la corruzione. Ma contestandone l’origine apostolica, a quale Chiesa si rifacevano i Catari? “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, ma nel nostro caso è Ratzinger a togliere il coperchio alla pentolaccia del diavolo. Nella lectio tenuta il 7 aprile 2011, Lunedi dell’Angelo, egli fece sfoggio della sua cultura, e per ricordare ai sacerdoti, travolti dallo scandalo dei preti pedofili, che sono chiamati a essere angeli, il “papa teologo” ricordò che"il termine angelo, oltre a definire gli Angeli, è anche uno dei titoli più antichi attribuiti a Gesù".

 

Ma andando a rimestare nella “Storia delle dottrine cristiane prima di Nicea - Trinità e angelologia”, papa Ratzinger commise un’imperdonabile imprudenza:"Angelo è uno dei nomi dati al Cristo fino al IV secolo. Tende poi a sparire a causa della sua ambiguità e dell’uso che ne avevano fatto gli Ariani. Il testo essenziale che assimila Michele al Verbo e Gabriele allo Spirito Santo è l’Ascensione di Isaia. Si nota in esso un indiscutibile subordinazionismo", aveva scritto Jean Daniélou. Il Concilio di Nicea (325 d. c.), in cui fu proclamato il dogma della consustanzialità (omoousìa) fra il Padre e il Figlio, costituisce lo spartiacque fra il cristianesimo attuale e quello dei primi tre secoli. Ecco perché il Daniélou accusava di subordinazionismo quell’Ascensione di Isaia diventata dopo il Concilio di Nicea, insieme a La cena segreta, uno dei testi in uso presso i Catari. Il nuovo dogma trinitario lo escludeva di fatto dall’ortodossia cristiana, relegandolo tra le eresie, tra cui spiccava quella di Ario, in cui il rapporto del Figlio col Padre era decisamente di subordinazione.

 

Queste considerazioni non sono prive di relazione con la visione ch’ebbe Francesco, riferita dal Celano nella Vita Prima, che non fu quella del Cristo crocifisso, bensì quella d’un uomo con sei ali, a guisa d’un Serafino bellissimo. Per i Catari il Cristo non venne in carne sulla terra, ma fu un Angelo inviato dal Padre a svegliare Adamo dal sonno in cui lo aveva immerso Lucifero. Indagando sull’angelologia ebraica, troviamo peraltro la spiegazione del termine Figlio riferita al Cristo (l’ Unto Re, da Chrisma: olio sacro). Da “L’uomo e l’assoluto secondo la Cabbala” di Leo Schaya, apprendiamo infatti che il Messia doveva essere la reincarnazione d’un essere celeste, l’arcangelo Michele, chiamato dagli Ebrei Figlio di Dio. Ecco ricorrere nei Vangeli la domanda: - Sei tu il Cristo? – Gesù lo nega, e rifiuta quel pesante fardello.

 

Non scendiamo nel merito degli equivoci impliciti in quel rifiuto. Rileviamo che un punto fermo nella esegesi del Buon Messaggio di Gesù, è la sua ostilità al culto sacrificale del Tempio. Veniamo così a uno dei principali scogli contro cui inciampa la controversistica cristiana. Perché Gesù caccia i mercanti dal Tempio? Non sa che per offrire i sacrifici occorre acquistare dai mercanti buoi, pecore o colombe, e che i cambiavalute devono tenere i loro banchi per i pellegrini venuti dai luoghi lontani della diaspora? È dunque il sacrificio che Gesù non vuole: il suo Dio, il Padre che vede nel segreto, non è il Dio vendicativo del Vecchio Testamento. Epifanio lo conferma:"Gesù insegnava ogni giorno nel Tempio: Se non cesserete di offrire sacrifici, l’ira non desisterà da voi (Contra Haereseos, 30,16 – 4/5)". Da tale ostilità discende direttamente l’istigazione di Gesù a non pagare la tassa al Tempio. L’ironia di Gesù è d’una chiarezza incontrovertibile:"Che te ne pare, Simone? I re della terra da chi prendono i tributi, dai figli o dagli estranei? Pietro risponde: Dagli estranei! E Gesù prosegue: I figli dunque ne sono esenti! Ma per non scandalizzarli, va’ al mare e getta l’amo, il primo pesce che tiri su, aprigli la bocca e troverai uno statere. Con quello paga la tassa per te e per me!"

 

Chi vuole credere al miracolo, è liberissimo di farlo, ma la verità è solo una: Gesù non paga la tassa al Tempio. Ma che dire del divieto agli apostoli di Mt. 10,5:"Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani"? Sorge spontanea la domanda: siamo sicuri che Gesù volesse fondare una nuova religione? Al versetto 19,8 degli Atti degli Apostoli la troviamo definita"una nuova via". Essa riguardava soltanto gli Ebrei: da qui il divieto di estenderla ai pagani:"Non sono venuto per abolire la Legge ma per portarla a compimento". La nuova via nell’ebraismo era quella tracciata dalla predicazione di Gesù contro il culto sacrificale del Tempio: "Se tu vuoi pregare, entra nelle tua cameretta e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto, e il Padre tuo, che vede nel segreto ti ascolterà".

 

Pur riallacciandosi a una linea di profetismo, la"nuova via" costituiva una rivoluzione nel modello culturale ebraico, "poiché è rimozione o risoluzione in atto, se non in dottrina, della contraddizione d’origine dello yahvismo, fra l’universalismo di Dio e il particolarismo dell’Alleanza", afferma Marcel Gauchet (“Il disincanto del mondo - una storia politica della religione dell’uscita dalla religione”, Einaudi 1992 p. 156). Non mancano infatti gli autori, anche israeliti, (v. Simone Weil), che giudicano"immorale" l’Antico Testamento. Già il concetto di"popolo eletto" sfugge a ogni tipo di classificazione religiosa, ricordando piuttosto la protezione che, nell’ambito del politeismo (v. nell’Iliade) Atena accordava agli Achei e Apollo ai Troiani, particolarismo inammissibile per il Dio unico. In quanto Dio etnico, questo era un Dio geloso, che occorreva placare col sacrificio di vittime animali, sopravvivenza del sacrificio umano, come è dato congetturare dal mancato sacrificio di Isacco.

 

Anche sotto un altro aspetto la predicazione di Gesù è rivoluzionaria rispetto al modello culturale ebraico. Affermando: "Il mio Regno non è di questo mondo", Gesù ribalta la promessa originaria fatta ad Abramo. "Mais l’éritage du monde, ce n’est pas l’éternité bienhereuse dans le ciel, c’est le bonheur des croyantes, des justes, sur la terre. La Génese disait (XXII, 17): Ta posterité héritera les villes des adversaires", scriveva Alfred Loisy (Les origins du Nouveau Testament, p. 45)Il rilievo del Loisy basterebbe a misurare la distanza fra l’Antico Testamento e la "nuova via" tracciata da Gesù, distanza che fu a lungo rispettata sulla base di un passo evangelico, Mt. 21,28-31, la parabola dei due figli, quello che promette e non mantiene (il popolo ebraico), e quello che mantiene (il cristiano).

 

Quella distanza fu inopinatamente rotta da Calvino, che a Ginevra decretò che ai nuovi nati fossero imposti nomi tratti dall’Antico Testamento. A quest’atto formale egli affiancò un sostanziale stravolgimento del messaggio cristiano. "Discostandosi dal luteranesimo, il calvinismo non fa che additare nel successo pratico la manifestazione inappellabile dell’elezione predestinatrice di Dio. La parabola dei talenti è interpretata nel suo significato più letterale e, per un singolare rovesciamento di parti la formula calvinistica finì per trasformarsi in: Solo a Mammona gloria", commenta Ernesto Buonaiuti (Storia del cristianesimo, Newton & Compton 2002, pp. 835-837). Contribuendo all’affermarsi progressivo della secolarizzazione (Cfr. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber), il calvinismo finisce col riconoscere nel successo materiale l’elezione divina, identificandosi col governo mondiale dei Banchieri. L’adeguamento con lo spirito ebraico è così completo: la promessa fatta ad Abramo si è compiuta. 

 

Nato in ambito ebraico, poteva il cristianesimo rifiutare l’eredità dell’Antico Testamento? La risposta risentita venne il 17 dicembre 2009 dalla rivista Il Culturista: "Nel tentativo di ribaltare l’ovvia verità, Spadaro fa uso della sua vasta erudizione e della sua acribia, ma non riesce a convincere il lettore". Facendosi interprete di tutti i lettori, pochi in verità, Il Culturista si diceva non convinto della nostra tesi, il che ci lascia indifferenti. La motivazione invece riapre una vecchia questione che vale la pena approfondire: "Spadaro, tradizionalista in sintonia coi moderni (Schelling e Hegel) e coi postmoderni (BenjaminWeil e Bloch), dichiara infatti la condivisione della tesi sull’opposizione di Cristo al Dio d’Israele, tesi che sta a fondamento dell’eresia gnostica".

Sullo spinoso problema dello Gnosticismo, per stabilirne l’autentica natura fu necessario tenere un convegno a cui parteciparono i maggiori esperti della materia (Messina 1966). Ebbene, Marcione, il maggiore rappresentante della "tesi sull’opposizione tra Cristo e il Dio d’Israele", non venne ascritto all’eresia gnostica. Che non sia agevole distinguere fra le tante scuole gnostiche, forse Il Culturista non s’è reso conto. Quanto ai Catari, definiti di volta in volta gnostici e addirittura neomanichei, il Concilio Vaticano II ha fatto finalmente giustizia, riconoscendoli per quel che credevano di essere: veri cristiani. Ma, al di là della questione nominalistica: gnosticismo o non gnosticismo, esiste una questione inoppugnabile: l’esasperato e frustrante dualismo dei Catari trova piena rispondenza nella I Epistola di Giovanni: "Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel mondo: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre ma dal mondo".

Fra il Dio creatore del mondo e il mondo creato da Dio esiste dunque insanabile contraddizione? E perché Marcione, che identificava il Dio d’Israele col malvagio Demiurgo sottraendosi all’inganno diabolico della riproduzione, non viene qualificato gnostico? A venirci in aiuto è la dottrina della doppia creazione. Esistono dunque due nature? "La natura è in primo luogo spirituale, e il suo apparire come natura corporea ordinaria non è separabile dall’evento della Caduta". La prima creazione resta dunque in eterna relazione col Creatore, ed è quella a cui Francesco innalza il Cantico delle Creature. Il concetto di prima seconda Creazione può sembrare eretico a chi non è aduso a sottigliezze metafisiche, ma non a chi, mettendo da parte posizioni ottimistiche, mette l’accento sulla morte: "Lungi dall’essere un inno pagano alla vita in questo mondo, il Cantico si ispira totalmente all’altra vita. Francesco proclama la bontà delle creature dopo che ha la certezza che lo conducono al Regno di Dio", scrive P. Ignace-Etienne Motte (Mundo, vida y muerte en el Cantico, in Selecciones de franciscanismo, Valencia 1976). Suae salvationis securus factus, Francesco canta le lodi di quella natura, alla quale un tempo attribuiva "il non comune potere di corrompere il vigore dell’animo", tanto che"reputava stolti tutti quelli che hanno il cuore attaccato a beni di tal sorta (CelanoVita Prima)".

 

Non c’è cenno però nel cantico alla forza fecondatrice della natura, che fa crescere le messi e maturare i frutti, e questo ci riporta all’odio dei Catari per la riproduzione. Ma la confutazione del frusto argomento che il Cantico delle creature sia un manifesto anticataro, la troviamo in La concezione della natura in san Francesco d’Assisi di Artemisia Zimei (Libreria Pontificia, Roma 1929): "Comunemente si crede che il Cantico delle Creature abbia una spiccata analogia con due dei Salmi di David e con il Cantico dei Tre Fanciulli nella Fornace. Anzitutto il Salmo XCIV è soltanto un inno al Dio creatore da cantarsi nei riti sacrificali del Tempio. Francesco non esalta le creature e tanto meno le cose, invece nel Salmo XCIV il biblico Re scioglie un peana alla vita. Con attributi coloriti e leggiadri il Serafico si limita a menzionare gli elementi e le creature visibili, anelanti a ricongiungersi con Lui in sorella morte". Il Cantico è dunque tanto lontano dall’essere un inno di ringraziamento alla vita, quanto il chèrigma di Gesù è lontano dal culto sacrificale del Tempio.

 

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