Insegnanti, quale Valutazione?

Sembra ormai un destino segnato. Anche se, a ben pensarci, viene tanto difficile parlare di “destino” a proposito di una volontà fin troppo umana, quanto di un suo esser inevitabilmente “segnato” in un’epoca in cui si sbandiera ai quattro venti, con orgoglio, la “democrazia” in cui ci si vanta di vivere.

Ma tant’è sembra, appunto, giunta per noi l’era della “valutazione”. E siccome mi occupo di scuola, sulla questione di come valutare gli insegnanti intendo soffermarmi un attimo, a riflettere.

Com’è possibile valutare il lavoro di un insegnante? Per quanto non immune da problemi, la valutazione di un impiegato può esser condotta sulla base del lavoro effettivamente svolto, sulla mole di documenti prodotti; quella dell’assicuratore può basarsi sul numero di polizze effettuate, quella di un procacciatore d’affari sulla quantità di affari procacciati.

Ma come valuteremo un insegnante? Su quanto e come insegna, naturalmente.

Il problema, però, sta nel criterio - che naturalmente dev’essere il più possibile oggettivo - da adottare nei confronti di questo “insegnare”.

La soluzione che, immediata, salta in mente è una verifica relativa ai risultati degli alunni. Più i voti sono alti, minore è il numero dei respinti, maggiore potrebbe essere la valutazione.

Ma questo dato, in realtà, risulta sfalsato da parecchie variabili. Dalla parte del docente, per così dire, c’è da considerare il suo criterio di valutazione. Più il Maestro è “di manica larga”, per intenderci, più sono alti i voti che dà. Senza contare il fatto che molti insegnanti tendono a gratificare se stessi proprio attribuendo ai ragazzi alte votazioni (ne è un esempio evidentissimo ciò che accade agli Esami di Stato), proprio per dimostrare ai colleghi la loro “bravura”. Certo, sono anni che i docenti vengono impegnati in tortuose griglie di valutazione, di utilizzo rigorosamente collettivo, che dovrebbero proprio azzerare la soggettività del loro criterio valutativo. Ma tutti sappiamo come queste “griglie” (che in moltissimi casi costituiscono, per dirla tutta, delle vere e proprie “gabbie”), vengano effettivamente usate. Sappiamo bene che la gran parte dei docenti il voto lo dà a naso, basandosi proprio sulla propria esperienza, sul proprio istinto di insegnante, e come solo dopo aver elaborato il proprio giudizio si arrabatti a far tornare i conti tra le righe e le colonne di questo imbarazzante strumento. C’è in ballo, mi pare chiaro, il costituzionale diritto alla libertà di insegnamento. E chi ha capito come la valutazione rientri in pieno tra gli strumenti utili a rafforzare l’apprendimento, ha ben chiaro come il voto, spesso, debba possedere anche - e a volte soprattutto - un valore educativo e morale. Gli altri, quelli che non l’hanno capito, possono sempre rileggersi Skinner.

Dal lato degli alunni, poi, continuo a non capire come si possa trascurare il loro personale impegno. Un insegnante, in certe difficili situazioni, può veder crollare tutto il suo sforzo didattico-educativo, tutto il suo alacre lavoro di un anno, di fronte alla cocciutaggine ed alla totale indifferenza dei suoi ragazzi. E che facciamo? Puniamo il maestro perché si ritrova di fronte alunni somari? Si obietterà: il bravo insegnante sa trasmettere, sa motivare, ottiene sempre il risultato. Il problema, però, è che non tutti i docenti sanno esser affascinanti e travolgenti, non tutti sanno “prendere” come dicono i giovani; altrimenti perché non integrare il concorso con cui li assumiamo con una sezione dedicata alla valutazione del loro personale “charme”? Che il bravo insegnante ottenga sempre, o quasi sempre, il risultato è roba da teorici, da gente che ha la solita mentalità contabile, la testa da assicuratore; è roba da persone che non hanno ancora capito che un’insufficienza non è mai la misura di un fallimento, ma spesso un formidabile incentivo a crescere. E chi non ha capito quanto conti il personale, in-valutabile, incalcolabile impegno di un maestro, anche a fronte di risultati non eclatanti - o, qualche volta, anche di veri “fallimenti” - può sempre rileggersi Kierkegaard.

Dovremo allora valutare un docente per i suoi titoli, i libri pubblicati, gli “aggiornamenti” a cui si è sottoposto? Attribuisco grandissima importanza allo studio, alla ricerca, all’aggiornamento; ritengo fondamentale che un docente continui a crescere. Ma cosa fa di un docente un Maestro? Il suo aggiornarsi? La sua bravura “tecnica”? I migliori chitarristi al mondo, spesso, non sono in grado di insegnare a un ragazzino anche solo il Giro di Do. Agiscono d’istinto, quasi trascinati da una forza divina. Allo stesso modo, spessissimo, il bravo Maestro sa a priori come insegnare. Proprio così: “d’istinto”. Sa mettersi dalla parte di chi cerca di capire. Sa spiegare con chiarezza. Gli viene così, punto e basta. Nessun aggiornamento può spostare di un millimetro questa sua innata dote.

No, ciò che fa di un docente un Maestro non è l’aggiornamento; tanto più quegli aggiornamenti, quelli che insegnano il numero esatto della normativa sulla Sicurezza, la posizione corretta di un estintore in un luogo pubblico, la differenza tra DSA e BES ed altre vuotaggini di questo tipo. In altre parole, insomma, gli aggiornamenti come li intende, da decenni, il Ministero

E chi non ha ancora capito che quella dell’insegnante è un’arte, può sempre rileggersi Augusto Monti.

I più zelanti vorrebbero un insegnantepuntuale”: che timbra in orario, che compila i moduli in anticipo rispetto alle scadenze, che segue alla lettera le normative. Potremmo davvero pensare di valutare un insegnante sulla base della sua puntualità. Abbiamo ancora presente i nostri vecchi docenti? Altro che ritardo accademico! Cosa veramente ricordiamo dei nostri Maestri? Il loro assiduo, puntuale, irreprensibile entrare in orario? La loro capacità “compilativa”? La loro formidabile valenza “timbrativa”? I moltissimi che vorrebbero ridurre un professore ad una macchina, vadano a rivedere cosa faceva di geni come Platone, Bruno, Kant, degli insostituibili Maestri per i loro allievi. Chi non ha chiaro ciò, vada a rivedersi Socrate, per cortesia.

C'è chi confida nella valutazione di Enti esterni. Ho già scritto molto sulla problematicità di questo sistema. A partire da chi finanzia questi "test" nell'era in cui pubblico e privato si confondono sempre più. Per non parlare di come queste verifiche esterne (che, proprio per rincorrere l'illusione dell'"oggettività", si concretizzano in "batterie di quiz" che mettono l'allievo di fronte a scelte altrettanto automatiche, prive di sfumature intermedie, che non richiedono alcuna competenza linguistica se non quella di tracciare una "x"), condizionino massicciamente la programmazione didattica di ogni docente, dando per scontato che egli abbia svolto parti di programma su cui tali valutazioni vengono implacabilmente concentrate, nonostante la libertà di insegnamento consista anche e soprattutto nella scelta dei contenuti. Chi non ha compreso quanto conti non solo ciò che si dice ma anche come lo si dice, quanto contino le sfumature in una esposizione, quanto conti il linguaggio, si vada a rileggere, per esempio, Lacan.

Vogliamo allora chiedere ai diretti interessati? Già! Perché non distribuire questionari ai ragazzi, chiedendo cosa pensino dei loro insegnanti? Sembrerebbe una buona idea, ma anche questa possibilità nasconde diverse insidie. A cominciare dall’insano principio in virtù di cui, a quel punto, dimostreremmo di fidarci più dell’educando che dell’educatore. Quanto davvero ne sa, il discente, dell’efficacia di tecniche e capacità del suo Maestro? Se davvero si trova nelle condizioni di valutarle, come mai è ancora seduto tra i banchi di scuola? Come può, davvero, chi dal proprio Maestro deve imparare, discernere e valutare se il Maestro sa insegnar bene o no? Com’è possibile che siano riconosciute al discepolo preziose doti a priori e, contemporaneamente, queste stesse vengano negate al docente? E se i ragazzi cominciassero a gettar fango sul professore solo per l’insufficienza appena riportata o si predisponessero a lodare chi, semplicemente, non li fa lavorare? Se questo loro valutare chi li valuta si trasformasse in una inquietante specie di potere? Vogliamo davvero una società in cui chi deve imparare diriga e gestisca chi ha il compito di insegnare? Vogliamo davvero vivere in una società che si fida più di chi - per definizione - ancora “ignora”, piuttosto che di chi a tale naturale ignorare deve, con quotidiana fatica, cercar di rimediare?

Qualcuno risponderà: le famiglie! Le famiglie sì che tengono d’occhio la situazione. E’ sicuramente di loro primario interesse che i loro ragazzi vengano adeguatamente istruiti. Saranno le famiglie a valutare i docenti! Non è per questo che stiamo spendendo valanghe di soldi nei registri elettronici lasciando crollare a pezzi i laboratori? Ma pensiamoci bene. di quali famiglie parliamo? Ci riferiamo a quelle madri che vengono ad insultare il professore perché ha affibbiato l’insufficienza al loro bambino? Parliamo di quei genitori che non esitano a rivolgersi al Preside (sorry: al Dirigente Scolastico) al primo 4 del loro marmocchio? Di quelli stessi che inchiodano ore ed ore i loro rampolli alla televisione o al computer, senza pretendere alcun potere valutativo su questo genere di “educazione”? Mi si risponderà: tutto sommato è comunque interesse delle famiglie che il loro ragazzo venga accuratamente preparato; altrimenti, poi, come se la caverà il bimbo all’Università? Ma di quale Università stiamo parlando? Di quella in cui gli esami sono sempre più facili? Quella i cui “test d’ingresso” permettono l’accesso anche a studenti risultati talmente insufficienti da aver riportato votazioni sotto lo zero? Parliamo degli Atenei che hanno capito che conviene ammettere anche i somari proprio perché ai migliori, in virtù di questa sacrosanta meritocrazia, non vien fatta pagare la retta annuale? Ci riferiamo, insomma, a quell’Università pubblica, che in quanto tale sta subendo lo sfascio dell’Istruzione italiana (o, se volete, americana!) esattamente come qualsiasi altro ordine di scuola statale? No, non si vede proprio perché mai i genitori dovrebbero reclamare una qualsiasi forma di “rigore” formativo in quella scuola dell’obbligo che null’altro è se non l’avviamento ad un altro ambito sempre meno rigoroso, sempre più degradato e deprimente che attende i loro amati figlioli.

Chi non ha chiaro che anche in Italia si sta ormai delineando un netto bivio tra istruzione di serie B (praticata nella sempre più fatiscente scuola pubblica) ed istruzione di serie A (ossia quella venduta a caro prezzo dagli istituti privati); chi non ha ancora compreso che questo sistema a “doppio canale” serve a consolidare una profonda spaccatura tra una massa di persone ben poco istruite e ben poco felici, destinate a lavori mal pagati e privi di garanzie di qualsiasi tipo, ed una ristretta élite di gente ideologicamente e religiosamente indottrinata, sfornata da un percorso di istruzione privato e approfondito, e destinata al ricambio della classe dirigente del Paese; ebbene, chi non ha capito tutto ciò non ha da preoccuparsi. Nella gran massa dei servi sta già inesorabilmente e inconsapevolmente sguazzando da tempo.

C’è già dentro, insomma. Fino al collo.

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La questione dell'insegnamento della religione nella scuola statale italiana. Il caso Invalsi