di Antonino Galloni Mariagrazia De Luca di Antonino Galloni Mariagrazia De Luca

Intervento al Convegno: “La schiavitù nel mondo e in Italia. Nuove forme e ponti di libertà. Sistema giuridico attuale e difesa dei diritti di libertà”

Antonino Galloni, 6 agosto 2013

Agnano, 24 ottobre 2012¹

 I trent’anni dopo la seconda guerra mondiale sono stati anni di sviluppo, caratterizzati da una cultura dei costi decrescenti, una cultura, cioè, in cui c’è spazio per un aumento dei salari, per un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, per un grande sviluppo della tecnologia e per una spartizione dei guadagni di produttività tra retribuzioni, tasse e, in parte, il profitto. E ciò con la conseguenza che il profitto viene ridotto ma ne viene rilanciata la prospettiva perché con l’aumento delle retribuzioni e con la spesa pubblica migliora la classe media, aumentano i consumi e aumentano le prospettive di sviluppo e, conseguentemente, le vendite. Quindi calano i costi, possono aumentare i salari, hanno un ruolo i sindacati, ha una funzione precipua lo sviluppo della Democrazia. E’ un sistema, però, caratterizzato da oligopoli. Nuovi produttori, cioè, difficilmente possono entrare nel mercato perché le dimensioni che garantiscono questi costi decrescenti sono tali da creare delle barriere all’entrata per nuovi produttori. Gli ultimi trent’anni - che abbiamo vissuto drammaticamente e che hanno riportato alla ribalta anche il tema della schiavitù seppure in forme nuove e diverse, ma forse nemmeno troppo – sono invece stati caratterizzati da una cultura alternativa, ossia quella dei costi crescenti, nella quale, in nome del mercato, si è teorizzato che i lavoratori dovessero essere pagati sempre meno, che i costi per la tutela dell’ambiente, per la salute dei lavoratori, ecc.. dovessero esser contenuti e cioè che dovesse prevalere una logica di minimizzazione dei costi delle unità produttive, dimenticando che queste stesse spese le si pretendevano massimizzate a livello di macroeconomia. Il mondo che abbiamo vissuto in questi trent’anni - ed è per questo che il tema della schiavitù è di così grande attualità - il cosiddetto mondo della globalizzazione, è quindi un mondo che, in nome della competitività e della logica dei conti crescenti, ha premiato il produttore peggiore: quello che pagava meno il lavoro, quello che sfruttava gli schiavi, quello che sfruttava i bambini, quello che non tutelava l’ambiente, quello che non tutelava la salute di lavoratori e cittadini. Il mondo che adesso è in una crisi di cui noi consideriamo soprattutto gli aspetti finanziari, si trova in questa situazione per ragioni reali, profonde, concrete; per questa condizione di continuo peggioramento dei lavoratori.

A titolo di esempio, nel nostro Paese, l’errore fatale degli anni Ottanta, consistito nell’introduzione della flessibilizzazione, per quanto necessaria per le grandi ristrutturazioni, in cambio di formazione ed occupazione. I sindacati hanno lasciato fare, invece di continuare a svolgere il loro lavoro evitando di tradire i loro rappresentati. In questo caso non è scattato lo “scambio” tra flessibilità e salario (se tu, datore di lavoro, mi vuoi più flessibile, se vuoi che lavori di più, se vuoi che lavori anche la domenica, devi pagarmi di più. Questa è la vera differenza tra l’uomo libero e lo schiavo: l’essere pagati in proporzione al sacrificio. Lo schiavo, a differenza dell’uomo libero, è invece sacrificato, sfruttato e basta).

La cultura degli ultimi trent’anni - quella della globalizzazione, quella che premia il produttore peggiore, colui che sfrutta di più la manodopera – è una cultura che ha aperto le vie a queste nuove forme di schiavitù . Pensiamo ad esempio, per quanto riguarda l’Italia, alla condizione dei precari, mascherata dal fatto che molti di essi possono contare sulla sponda della famiglia. Ebbene, nel caso degli extracomunitari presenti nel nostro Paese questo appoggio manca; in questi casi, dunque, ci troviamo di fronte a vere e proprie vittime di una situazione di schiavitù.

 

Il vero nodo della questione, ciò che davvero intendo denunciare, è che per quanto nella realtà economica la gran parte delle attività produttive, soprattutto di tipo industriale, sia caratterizzata da costi decrescenti (proprio perché le imprese hanno comunque continuato a investire in nuove tecnologie, a produrre al meglio, ecc), la possibilità di contrastare la sopra descritta prodromica situazione - una situazione di stampo assolutamente feudale e schiavistico, alla quale i Paesi occidentali, l’Europa e l’Italia si stanno pericolosamente avvicinando se non verrà posto un argine - manca a causa del fatto che le imprese sempre più vedono nella concorrenza tra salario e profitto la possibilità di aumentare il secondo semplicemente diminuendo il primo. Non accettano, insomma, che, in una logica di costi decrescenti, sia possibile pagare di più i lavoratori ottenendo comunque profitti adeguati, seguendo ad esempio il cosiddetto modello renano. La maggior parte delle imprese, insomma, nonostante si muova in una situazione economica caratterizzata da costi decrescenti, insiste nell’adottare la logica dei costi crescenti. E ciò, perché lo Stato, il diritto e la politica hanno osannato il mercato e questa stessa cultura, non riconoscendo che l’economia, invece, possiede caratteristiche completamente diverse, in base alle quali la democrazia riveste un ruolo importante. Al contrario, oggi, stiamo arrivando a sostenere che la democrazia sia un qualcosa che non possiamo più permetterci. Questo passaggio, si badi bene, emerge chiarissimo anche dalle lezioni tenute alla Luiss dal nostro Presidente del Consiglio. A detta di Mario Monti, infatti, molte forme di tutela della democrazia dovranno venir via via superate in nome di quella che ritengo una malintesa logica del mercato. Per quanto, infatti, il mercato debba essere certamente considerato in sé uno strumento assolutamente fondamentale di sviluppo, di civiltà e, a determinate condizioni, di controllo del consumatore, ciò che invece non è accettabile è che manchino regole certe per la tutela del lavoro. E non solo in virtù di principi etici, che appartengono alla nostra stessa civiltà, ma anche per motivi opportunistici. Risulta infatti più che evidente che una minimizzazione collettiva del lavoro, operata in contemporanea da tutte le imprese, non potrebbe che comportare, per le stesse, l’impossibilità di vendere i propri prodotti.

Se per sua natura un’impresa non possiede questa consapevolezza, deve essere qualcos’altro, nella società civile - qualcos’altro che non può che coincidere con un soggetto politico - ad indicare una strada che consenta alle imprese il giusto guadagno ed al sistema la giusta crescita.

Negare tutto ciò equivale a muoversi verso una logica di schiavitù, che oggi caratterizza i lavori più precari ma che, in futuro, potrebbe concretizzarsi anche in una perdita da parte dei lavoratori “normali” di quelle garanzie lavorative che hanno favorito il nostro sviluppo nei decenni passati.

 

Va dunque sottolineato come l’attuale forma di capitalismo che si sta diffondendo, un capitalismo che porta il timbro della globalizzazione, non sia più sostenibile proprio perché se da una parte pretende che tutti i Paesi esportino di più (circostanza matematicamente impossibile), dall’altra impone che si paghino sempre meno i lavoratori, comportando necessariamente una drastica diminuzione dei consumi e quindi delle vendite.

Un sistema, questo, che non può che aggravare sempre più l’attuale crisi - sia nell’economia reale che in quella finanziaria - producendo inevitabilmente le conseguenze che tutti noi stiamo subendo.

 


(1) Trascrizione a cura di In-Contro/Storia dell'intervento del Prof. Galloni all'omonima Conferenza organizzata da Radio Radicale.

 

Renato Guttuso

Il mendicante

(1944)

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