Le forme informi della frontiera
Lo sguardo del cinema western sulla storia americana
di Giancarlo Chiariglione
Durante il Novecento, in modo ciclico, studiosi, scrittori e registi cinematografici, hanno levato canti funebri sul mito del western. Considerandolo molto spesso solo un genere della settima arte destinato all’obsolescenza o a mutare forma attraversando altre frontiere inter-filmiche. A livello metaforico, invece, le cinéma américain par excellence, come lo definì lo studioso André Bazin, è arrivato in (relativa) buona salute sino ai primi anni ’70 raccontando eventi dall’incredibile impatto che hanno stravolto la vita statunitense. Tanto che i registi dell’ultima, grande stagione del genere come Arthur Penn, Abraham Polonsky, Robert Altman e soprattutto Sam Peckinpah, hanno rappresentato in modo appropriato lo sterminio degli indiani e il brutale ridimensionamento dei pionieri bianchi del West, come un’allegoria della sempre più disperata condizione dell’homo americanus contemporaneo (ormai globalizzato). Il quale è tiranneggiato da un sistema che celandosi dietro a nomi impenetrabili quali mercati finanziari, condizioni globali di scambio, competitività, offerta e domanda, rende servi di una logica mostruosa gli individui (intralciandone in vari modi lo sviluppo culturale, morale e spirituale) e decide l’agenda di funzionari e politici. Un sistema che compie quello che Marx chiama «un genocidio delle culture viventi».
Questi cineasti, se svelano la natura finzionale del western (alcuni critici hanno definito Tombstone, la città della sfida all’O.K. Corral, come «un parco a tema»), e ci dicono che dopo essersi inaugurato con The Great Train Robbery (1903), di Edwin S. Porter, il quale gira il suo film quando la memoria della frontiera è ancora fresca, il noto genere, massimo propagatore di quell’epica del "Wild West", di quel manifest destiny cantati, tra gli altri, da politici e storici come Theodore Roosevelt e Frederick J. Turner, si è estinto perché ha consumato, attraverso una visione più realistica del periodo storico, la mitologia su cui si ergeva, ci rammentano pure che la Nuova Frontiera del paese considerato da Baudrillard la «versione originale della modernità», una volta che sono franate le utopie di David Thoreau, di Ralph Waldo Emerson e di Josiah Royce (a partire dagli inizi del secolo scorso lo spazio terrestre è stato via via cartografato, recensito, indagato in ogni dettaglio e la wilderness, terra incolta, "selva oscura" dantesca eletta a simbolo di amoralità e disordine è stata domata) è, sostanzialmente, la "carne elettronica" di quegli esseri umani che, per usare le parole del professore di mediologia O’Blivion di Videodrome (1983) di Cronenberg, si comportano oramai come se «la televisione fosse diventata più che la vita». Oppure è, come metto in evidenza nel penultimo paragrafo del mio libro, l’Uomo meccanico, il Cyborg del Transumanesimo ben rappresentato sullo schermo cinematografico proprio dagli (anti) eroi del regista e scrittore canadese.
Cfr. G. Chiariglione, Le forme informi della frontiera. Lo sguardo del cinema western sulla soria americana, Petite Plaisance, 2018