Traduzioni e Storia
L'affidabilità della traduzione dei documenti antichi
Mac Dèi Ricchi, 12 febbraio 2016
Nella nostra vita sovente dobbiamo confrontarci con l’interpretazione di quanto ci viene raccontato. Spesso le maggiori difficoltà si hanno quando le informazioni ci provengono da fonti che non parlano la nostra lingua. E le lingue, si sa, non sono fisse ma si modificano nel tempo: non solo acquisendo nuovi termini ma anche ampliando i significati associati alle parole stesse.
Lo storico, che tutto sommato proprio di trasmissione di informazioni si occupa, deve saper destreggiarsi nell’ampia varietà di forme e linguaggi che queste usano per propagarsi nel tempo.
Ovvio che più andiamo indietro nei secoli e ci spostiamo nelle regioni del mondo, maggiori saranno le problematiche da sbrogliare per capire cosa è accaduto tanto tempo fa e tanto distante da noi.
Anche solo occupandoci di storia dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo, sono molte le lingue che si sono succedute e altrettante le forme di scrittura adottate. Gli alfabeti variano tra popoli vicini: pensiamo al latino e al greco, ma anche al fenicio, all’aramaico o all’etrusco. Senza ancora chiamare in causa l’arabo che avrebbe funto da collante per molti paesi a partire da quelli del medioriente.
Sappiamo pure benissimo che le corrispondenze tra le parole usate per indicare i medesimi oggetti o concetti non sono perfette tra una lingua e un’altra. Se un nome nasce in una certa lingua, la sua assimilazione da parte di un’altra ne fa perdere la forma e il suono originario a volte in modo da renderne irriconoscibile la comune origine.
Tanti distinguo sono necessari perché anche noi utilizziamo per i nostri scritti una particolare lingua ed è in questa che traduciamo i termini delle lingue antiche. Ad esempio, non ci capiterà più di riferirci a Gesù come facevano nei testi antichi, ovvero con il termine “'Ihsoàj”, in greco, o “Iesus”, in latino, né tanto meno con il nome “Īsā”, traslitterato dall’arabo. Eppure “Gesù” non è stato così tradotto per tutti i personaggi che portavano questo nome, perché per alcuni è stata utilizzata la forma “Giosuè”. È una scelta evidentemente dettata dalla necessità di non confondere due persone diverse. Semplificando possiamo dire che Gesù viene utilizzato nel Nuovo Testamento mentre Giosuè si utilizza per il Vecchio. Ma è una scelta che si è affermata indipendentemente dall’uso nei testi originari di un unico nome.
La cosa si complica maggiormente se andiamo a vedere i riferimenti a luoghi in generale, perché qui i termini, per indicare ad esempio una stessa città, possono essere molteplici e molto diversi. Qui una minima carrellata che comprende i seguenti esempi tratti da testi apparentemente scritti nella stessa lingua - il Primo Libro dei Maccabei (1Mac) e Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio (AG):
- 1Mac 5:43 | 2Mac 10:32 | AG 12:344. Karnain/Ghezer/Enkranai
- 1Mac 9:36 | AG 13:11. Iambri/Amareo
- 1Mac 9:62 | AG 13:26. Bet-Basi/Bethalaga
- 1Mac 10:75 | AG 13:92. Joppa/Giaffa
- 1Mac 11:39 | AG 13:131. Imalcue/Malco
- 1Mac 11:70 | AG 13:161. Calfi/Chapsaio
- 1Mac 15:28 | GG 1:51|AG 13:225. Atenobio/Cendebeo
Questa flessibilità nell’uso dei nomi incide nella capacità di orientamento geografico: infatti l’identificazione dei luoghi biblici è ben lungi dall’essere considerata definitiva.
Con le coordinate geografiche si mischiano anche quelle dei luoghi di provenienza delle persone citate. Ad esempio, Giuseppe Flavio usa espressioni di questo tipo per indicare delle persone nei suoi testi:
- Simeone figlio di Gamaliel
- Gesù figlio di Gamala
Scritte così, queste locuzioni sembrano dirci che all’epoca esistevano due padri che si chiamavano rispettivamente Gamaliel e Gamala. La questione è che proprio il secondo nome viene adoperato per indicare una città, di cui era ad esempio originario un certo Giuda che nel 6 d.C. tentò una rivolta contro un censimento romano. Vista la flessibilità dei termini usati, come non pensare che “Gamaliel” sia un nome proprio costruito sul luogo d’origine, ovvero indicante un “cittadino originario di Gamala”?
Questa ipotesi non si legge nei testi degli studiosi accademici, ma apre strade d’indagine molto fruttuose che dimostrano che per la stessa persona, come per i luoghi geografici, nei testi sono stati utilizzati a volte più nomi. Il più emblematico di questi esempi è il seguente, derivante dal confronto tra due passi biblici che narrano il medesimo atto divino (ancora un censimento) e per il quale omettiamo qui ogni commento:
2Samuele 24:1 - Il Signore si accese di nuovo d'ira contro Israele, e incitò Davide contro il popolo,
dicendo: «Va' e fa' il censimento d'Israele e di Giuda».
1Cronache 21:1 - Satana si mosse contro Israele, e incitò Davide a fare il censimento d'Israele.
Sull’attendibilità delle testimonianze antiche
Il problema dell'oggettività storica
Mac Dèi Ricchi, 24 gennaio 2016
Una delle questioni fondamentali per la ricerca storica è l’attendibilità delle testimonianze. Queste pervengono allo studioso sotto varie forme e tramandate su vari supporti. Tanto per fare degli esempi neanche esaustivi, le parole del passato le possiamo leggere su libri, scolpite nelle pietre o anche nelle leggende delle monete.
Ma come possiamo essere certi che quelle parole sono state scritte per tramandare la verità e non una sua interpretazione o addirittura la sua parziale o completa falsificazione?
Vi sono vari criteri per valutare la verosimiglianza di un racconto. Uno di questi è, in prima battuta, la sua vicinanza temporale ai fatti che vorrebbe narrare. È infatti presumibile che un cronista che narra di un fatto sia più attendibile se era presente al fatto stesso e non magari distante da questo sia nel tempo che nello spazio. Il racconto di un testimone, magari oculare, può ottenere più credito di uno che invece riporta il fatto dopo anni magari per averlo sentito dire da altri.
Ovviamente ci sono altri fattori di cui tener conto, non ultimo quanto quel testimone abbia interesse a che i fatti vengano narrati secondo il suo punto di vista (pensiamo ad esempio ad un imputato di qualche colpa grave).
La questione è di fondamentale importanza in vari ambiti della ricerca storica. In questo breve articolo ci soffermiamo solo a presentare il caso che riguarda la storia cristiana. Sappiamo infatti che essa narra di fatti molto particolari e che sovvertono addirittura le leggi della natura (eventi miracolosi). Come è noto che questi racconti ci sono pervenuti dalle mani di uomini che si professavano credenti quindi, diciamo, che erano parte in causa della storia che narravano. Per uno storico un evangelista non è perciò un testimone super partes.
Ma gli evangelisti non sono gli unici che raccontano dei fatti che riguardano Gesù e il passato avvenuto in Giudea e a Roma. Chi è del settore sa infatti che vi sono diverse pubblicazioni che si preoccupano di collazionare le cosiddette testimonianze “extracristiane” sugli eventi del I secolo e precedenti. Normalmente la più gettonata tra queste è quella di Giuseppe Flavio, scrittore di origine ebraica vissuto nel I secolo, anche se nato (ufficialmente nel 37 d.C.) dopo che Gesù era morto.
Il fatto che fosse un ebreo, vissuto in Giudea molto a ridosso degli anni di Gesù e avesse scritto delle vicende avvenute dei Giudei fin dall’antichità, ha sempre fatto guadagnare a Giuseppe Flavio il posto d’onore tra i testimoni non cristiani. È suo infatti il cosiddetto “Testimonium flavianum” che descrive succintamente la vita di Gesù e dei suoi primi discepoli prima di qualsiasi altro autore. Altre testimonianze antiche e di scrittori “accreditati”, sarebbero infatti posteriori e attribuite ad esempio a Tacito (56-117 d.C.), Svetonio (70-130 d.C.) e altri autori successivi.
Il problema che però non viene di solito considerato è che proprio di questi autori possediamo copie delle loro opere che non sono coeve ai fatti raccontati. Anzi la paleografia, ovvero la datazione dei manoscritti, ci avverte che spesso le copie di questi testi sono addirittura di epoca medievale. Questo significa che gli scritti che leggiamo sono stati composti dopo i vangeli o la bibbia, ovvero dopo le testimonianze che dovrebbero suffragare.
Ad inficiare la neutralità delle testimonianze apparentemente non cristiane vi è un’ulteriore promiscuità tra, se vogliamo, imputato e testimone. Infatti non possiamo dimenticare che tutti questi manoscritti sono stati ricopiati da mani cristiane, che potevano quindi apportare modifiche ai testi senza possibilità di vederne smentiti i contenuti visto che gli originali, se mai sono esistiti, non sono più a disposizione per un confronto.
Per avvalorare quelli che quantomeno sono dei dubbi sull’autenticità e quindi affidabilità delle cosiddette testimonianze “extracristiane” proponiamo ancora due elementi.
Il primo è dato da una prova concreta che proprio “Antichità Giudaiche”, il testo di Giuseppe Flavio che scrive di Gesù, è stato composto molto tempo dopo gli eventi narrati, esattamente nel III secolo, quindi molto probabilmente da mani non neutrali bensì cristiane. Questa prova si trova direttamente nelle opere attribuite allo scrittore ebreo facendo dei semplici conteggi sulle datazioni da lui riportate.
Il secondo elemento deriva da una considerazione sui contenuti in generale delle opere che ci sono giunte. Per spiegare questo elemento supponiamo per semplicità che un certo fatto venga memorizzato da un cronista. Chi volesse narrare nuovamente quell’evento potrebbe appoggiarsi solo alle informazioni di questo cronista e quindi i dettagli che riporterebbe sarebbero inferiori a quelli iniziali. Se ne aggiungesse altri allora questi potrebbero essere solo inventati o supposti tali.
Ora, con riguardo alla storia antica, se poniamo in ordine cronologico i manoscritti delle opere di storia antica, scopriamo che quelli più recenti contengono molti più particolari sugli eventi accaduti di quelli più vetusti. Come non supporre che queste informazioni ulteriori siano il frutto di invenzioni o quantomeno di aggiustamenti su dati di originali persi o secretati?
A conclusione e come diretta conseguenza di questa breve disamina, ci pare evidente rimarcare che il compito dello storico non è solo quello di tramandare le informazioni pervenute ma anche di sondarne l’attendibilità perché questa trasmissione di sapere non esuli dalla fedeltà ai fatti che sono realmente accaduti.