Cotton Shock

Martedì sera. Mia moglie entra in casa abbattuta: "Brutte notizie. Un compagno di nostra figlia è positivo".

E va in scena il delirio. Mentre comincio a rinvangare antiche possizioni, della serie: "Lo avevo detto, io. Non dovevamo mandarle a scuola.

Questo è l'anno peggiore!", intercalando esclamazioni tipo "Io, il tampone non lo faccio, cazzo!", ecco che partono le isterie da Whatsapp. E chi è il positivo? E perché non ci ha avvisati? E come facciamo? E cosa aspettiamo?

Ufficialmente, il positivo, nessuno sa chi sia.

Ma di fatto, il nome gira. Gira, eccome. Il nome di un alunno già a casa da otto giorni. E trovato positivo, probabilmente, da quattro.

Un ragazzo i cui genitori, naturalmente, si son guardati bene dall'avvisare gli altri.

Dall’avvisare noi! Segue annuncio serale del rappresentante di classe: l'ASL ci chiamerà tutti per convocare i figli a fare il tampone.

Nel frattempo, meglio stare a casa. Quarantena volontaria, diciamo.

Disdire il collaudo della caldaia. Disdire l'appuntamento per la pulizia delle canne fumarie... Cos’altro dovevamo fare? Agitazione. Agitazione individuale e collettiva, al solo pensiero di quella pratica (antipatica e fastidiosa), del tampone, di cui finora abbiamo solo sentito parlare.

E i nostri bambini? Come la prenderanno, i bambini?

E giù agitazione e ansia, anche rispetto al futuro. Quanto durerà? Come finirà?

Il problema sanitario è nulla. Il problema burocratico, è tutto.

Mercoledì trascorre inchiodato tutto attorno a ‘sti pensieri.

E se nostra figlia è positiva? Faranno fare il tampone anche a noi? Ma per quanto ci bloccano, questi?

Personalmente, è un casino: devo andar per conferenze il 16, 17 e 18 ottobre... Cesena, Roma, Siena...! Ma come faccio? Come diavolo faccio? Possibile che ci arrestino tutti così?

Frattanto, i pochi che han mandato i figli a scuola vengono chiamati. E invitati a riportarseli a casa: lezioni sospese.

Più volte, in famiglia, il pensiero va al ragazzino positivo; vorremmo telefonargli, chiedergli come sta?

Ma il nome, in teoria, non si dovrebbe sapere. Chiamandolo lo insospettiremmo... Una compagna, però, ci dice di averlo sentito, facendo finta di non saper nulla. “Come va? E’ da un po’ che non vieni a scuola. Tutto bene?” “Sì, sì.

Ho solo un po’ di febbre, tutto lì. Ma è divertente, dai: gioco tutto il giorno alla Play!”

Nel frattempo si chiariscono meglio le dinamiche.

Anche quelle più inquietanti.

L'ASL risulta al corrente della cosa da giorni; ma non si è fatta viva finora, lasciando che ognuno di noi, magari anche positivo, continuasse a frequentar chiunque.

La preside lo ha saputo domenica.

Da allora ha atteso invano istruzioni, non sapendo come muoversi.

E noi lo abbiamo appreso solo grazie a un dubbio.

Come mai, avevamo cominciato a chiederci martedì pomeriggio, la mattina stessa ai ragazzi era stato improvvisamente intimato di piazzarsi le mascherina sulla bocca, anche durante la lezione? Cos’è che avremmo dovuto sapere?

Di qui, poi, il suddetto battibecco whattsappiano, con conseguente telefonata di un genitore alla suddetta preside, per farsi dire chiaramente come stessero le cose.

In tarda mattinata giunge voce che l'ASL abbia cominciato il suo giro di telefonate.

Alè: ora si balla! Pare siano arrivati già alla C. Ora sono alla G. Adesso sono alla M. Cazzo!, hanno superato la R!

Cosa diavolo aspettano a chiamarci? Ci scavalcano così?

La sensazione orrenda di dover dipendere da una decisione che piove dall'alto.

La rabbia enorme nel constatar che, qualsiasi progetto tu abbia, frivolo o capitale, i tuoi propositi, i tuoi doveri, i tuoi diritti si infrangano tutti miseramente contro il loro glaciale protocollo.

E’ questa la sensazione peggiore. Tutto quel che fai, tutta la tua vita, improvvisamente si arresta al loro Stop.

Primo pomeriggio: squilla il telefono. Presentarsi domattina al centro sanitario XY con la bambina.

Giunti lì. non scendere nemmeno dall'auto: il tampone verrà fatto sporgendosi dal finestrino.

Tenere a casa la figlia fino all’esito del test.

Dicesi “Isolamento fiduciario”.

La sorellina? Meglio che non vada a scuola, nemmeno lei.

Mia moglie ed io? No, no. Nessun problema. Andate pure al lavoro, voi! (E le due piccole, ce le tieni tu?)

Giovedì mattina l’ansia va a braccetto con la rassegnazione.

Tutto sommato, se siamo positivi, finita ‘sta via crucis ce la saremo finalmente tolta, penso.

Stiamo bene, no? Nessun sintomo. Siamo sani. Mangiamo sano, respiriamo sano.

Viviamo in un Bosco, diamine!

Vorrà dire che, una volta tornati tutti negativi, ‘sta rottura di palle sarà finita. Una volta per tutte! E le mascherine le butteremo nel cesso. Prego, signore, indossi la mascherina... Col cavolo, mio caro! Io la bestiaccia l'ho fatta fuori! La museruola, mettitela tu... A meno che... A meno che il virus cambi. A meno che recidivi, come è accaduto a quel tipo di Hong Kong. A meno che i loro tamponi non funzionino bene... Eccheppalle, però!!

Lo confesso. Mi spiace molto che la prima della famiglia a far ‘sta schifezza sia proprio mia figlia. Una bimba di dieci anni. Che sembra tranquilla, però. Molto più coraggiosa di me. Che invece son qui a sperar di aggirare l'ostacolo. Di evitar quello schifo di test...

Nel frattempo, telefonate e messaggi vari. Pietro tutto a posto per la data di Cesena. Pietro, come la facciamo la locandina per Roma? E io lì a far finta di nulla, a non rispondere. A incrociar le dita nella speranza che un solo, stupido cotton fioc non distrugga in un attimo il lavoro di decine di persone sparse per la penisola...

Alle 12.45 il piazzale del centro ASL sembra via Roma. Letteralmente invaso dalle automobili. Su più file, per evitar di bloccare il traffico cittadino. Mia figlia? E' lì che scherza e ride coi compagni. Si urlano battute da un finestrino all’altro. Facendo capolino dalla capotte dell’auto, li ragguaglia e aggiorna tutti. Tocca a Marco, adesso! Ecco, ecco: glielo stanno facendo. Mah.. Non sembra avere una faccia molto contenta...!

Tornati a casa, si ricomincia ad attendere. La bambina, manco a dirlo, è stata coraggiosissima. Perché il peggio, va detto, non è mica la prima narice. Quella, quando ti ci hanno cacciato il tampone e hai capito come funziona, ti brucia un po’, ma pazienza. Perché ormai è fatta, pensi. E invece no!: è lì che ti sbagli. Perché a quel punto ti dicono che quello stesso identico fottutissimo cotton fioc, adesso, ti verrà infilato anche nella seconda. E’ lì, insomma, che ti vien voglia di scappare.

Comunque, okay: è fatta. Adesso si aspetta. Si aspetta di nuovo. Saprete qualcosa sabato mattina, ci han detto. Ma venerdì sera, a tradimento, nuovo stillicidio su Whatsapp. “Hei raga, io sono negativo!” “Anch’io!” “Anch’io!” Noi, invece, niente. Niente di nieten! Non sappiamo ancora nulla! Ma come fate a saperlo, voi? Ma chi ve l’ha detto? “La pediatra!”, risponde il coro. La nostra no: ancora niente... Niente di niente!

Poi, alla fine, ecco che squilla il messaggio. La prof. di Italiano? Boh..! Vostra figlia è negativa! L’insegnante di Italiano? E la privacy? Dove la mettiamo ‘sta benedetta privacy? Ma come diavolo funziona, in Italia? Veniamo a saperlo così? Vabbè, okay: siamo a posto. Negativa! Quel che conta è questo. Solo questo. E’ tutto finito. Per ora...

Tiro su il telefono e ricomincio a vivere. “Ti mando il test per la locandina, okay? Se nei prossimi quindici giorni fila tutto liscio, ci si vede a Roma”.

Ma se domani o dopodomani si riparte da capo, allora forse no.

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Le mascherine ci uccideranno

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