L'inno stonato

4 Novembre 2014

Scuole materne, elementari, medie.

Tutti i bimbi di tutti i comuni d’Italia, frazioncine, paesotti, città e metropoli, tutti a messa, nelle domeniche mattina di questo periodo, per celebrare - magari anche in ritardo, magari dribblando alluvioni e catastrofi varie - il 4 novembre, la Festa dell’Unità nazionale e della Forze armate, il giorno della gloriosa fine della Grande Guerra.

Tutti lì a cantare, i bimbi; tutti a sgolarsi accanto ad altari foderati dal tricolore, tutti in coro a sbraitar commossi e stonati, abbracciando in girotondo i Monumenti ai Caduti.

Ancora una volta l’ennesimo, nostrano minestrone di sacro e il profano, ancora una volta l’Elmo di Scipio posato sul tabernacolo.

Così, in questo tripudio generale, tra i pianti di mamme e di nonne e gli occhi lucidi di mille alpini appesi alle loro lunghe, inviolabili penne, nemmeno le cannonate commemorative riescono a svegliare il lungo sonno della memoria.

La memoria autentica, intendiamoci, non quella truccata dal Super-Io ecclesiastico.

La memoria asciutta, libera, pulita, insomma; quella non taroccata dalle sacrosante, inviolabili ideologie clericali.

La memoria che, mentre il prete alterna l’Inno al Padrenostro, ripensa al giovane Mameli massacrato dall’esercito papale proprio mentre lottava per il sogno di una Roma sgombera dalle angherie di Pio IX; la memoria che non dimentica che quell’Italia il cui centocinquantenario la CEI ha scrupolosamente e sentitamente festeggiato, quell’Italia la cui politica ogni giorno dimostra il proprio asservimento a un cattolicesimo imperante, quell’Italia che si è ridotta ad un cortile dei Pontefici, per sessant’anni fu disprezzata e non riconosciuta dal Vaticano, che col suo Non expedit costrinse esplicitamente tutti i cattolici della Penisola a non partecipare, a nessun titolo, all’attività politica del nostro maledetto Paese.

Sessant’anni lunghi come la fame, interrottisi solo riallacciando i contatti con uno Stato fascista ormai al culmine della sua potenza, in piena armonia con quel fascismo e con quel Mussolini (“l’uomo della Provvidenza”), contro cui sugli stessi altari bianco-rosso-verdi, gli stessi preti commossi, abbracciati agli stessi alpini, tra qualche mese celebreranno ancora una volta le loro messe.

Così, mi sorprendo a pensare a quel giovane, a quel ventiduenne Goffredo; al suo un po’ fanfarone e scalcagnato Inno, alla sua gamba in cancrena presa a fucilate dall’esercito internazionale accorso per ricollocare sul trono di Roma l’ultimo, implacabile Papa-Re.

E mi domando, a quel punto, quanto avrebbe preferito viversene sulle sue gambe, per altri ottant’anni, questo giovanotto genovese, magari in esilio, lontano dalla sua famiglia e da questa vituperata Italia, piuttosto che sacrificare la sua giovane, esile esistenza su questi vergognosi altari, grondanti di ipocrisia, di frasi fatte e di falsità.

 

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