Il Ponte

Fifone, molto fifone. Spaventato dall’anestesia spinale che stanno per farmi. Irrigidito sulla barella che mi traslocherà in sala operatoria, aspetto soltanto (si fa per dire) che mi facciano sedere e, più o meno a tradimento, mi infilzino la colonna vertebrale con un ago da cavalli.

Succube, completamente in balia di chiunque, ringrazio tutti, sorrido a tutti, chiedo scusa a tutti... Ma in realtà vorrei cancellarli totalmente dal pianeta.

Ecco, in questa precisa situazione, mentre mi dico:”No, non è possibile, Pietro: hanno sbagliato qualcosa.

Tu non dovresti esser qui. Questo non è il tuo posto. Dove hanno nascosto il tasto rewind?”, proprio mentre sto pensando esattamente a questo, si materializza un gendarme di infermiera, che con accento straniero mi ingiunge: “Faccia un ponte!”.

Ma accidenti - penso un po’ intimorito - che pretese ha la carabiniera? Di cosa va parlando, poi? Fare un ponte...? Sicuramente non allude ad alcunché di edilizio, tanto più nelle condizioni in cui mi trovo. Ancor meno può riferirsi a qualche sorta di vacanza, visto che niente, in questo postaccio, fa venir da pensare a qualcosa di dolce e rilassante.

Qui siamo nel tempio del “fisico”, qui tutto ha a che fare con vene, arterie, stinchi, polsi, piedi, genitali. Se ti chiedono di far qualcosa, c’entra ‘sto cavolo di corpo che hai appena disteso a fatica, fin tanto che te lo lasciano gestire con un minimo di consapevolezza.

“Un ponte?”, le chiedo sperando in una risposta illuminante. “Un ponte!”, mi intima.

Così, senza mollare un attimo il suo sguardo truce, con sorriso incerto e un po’ suadente alzo lentamente le braccia sopra la mia confusissima testa.

Curvo con grazia i polsi, allungo le mani con tenerezza e congiungo le punte delle dita della destra a quelle della sinistra, tracciando un leggiadro arco, qualche centimetro al di sopra del capo. Sicuramente, mi dico, la tipa non pretenderà che stenda anche i piedi sotto il lenzuolo, mettendomi sulle punte da perfetta ballerina. Ma ora che ci ripenso, sotto sotto, non sono così certo di non averlo fatto. Così, in stile Carla Fracci, la guardo ammiccante, accennando un delicato sorriso.

La gendarma straluna. I suoi occhi mi sparano addosso, tra l’incarognito e l’incredulo.

Poi, con mani d’acciaio, mi afferra di peso per i fianchi, mi solleva come fossi un materasso e mi caccia sotto la schiena l’ennesimo lenzuolo verde.

“Ah sì, scusi: ora ho capito”.

 

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