Il Trasferimento

“Ha visto che ce l‘ha fatta, Professore!?”

Dall’altro capo del filo la signora Carla, gentilissima segretaria dell’istituto, stava esultando: “Alla fine c’è riuscito!” Erano cinque anni, infatti, che puntavo al trasferimento in quella scuola. Dopo un estenuante diciassettennio di precariato, un corso abilitante misteriosamente scippatomi, un megaconcorso vinto e cinque anni in ruolo su una cattedra che non amavo, finalmente era giunto il momento di fare il mio ingresso nella sede che, in assoluto, preferivo. Ne avevo girate ben diciannove, in tutti quegli anni. E quella scuola per me era la migliore. Ci lavoravano quotidianamente molti colleghi che mi piacevano e che parevano uniti, alcuni dei quali si erano spesso rivelati molto combattivi e risoluti ad evitare a ogni costo quel baratro in cui la riforma scolastica, dall’inizio del 2000, stava inesorabilmente trascinando l’istruzione pubblica.

Nei diversi anni in cui avevo lavorato in quel liceo, prima come supplente e poi in assegnazione provvisoria, avevo incontrato almeno due presidi. L’ultimo era forse un po’ narcisista e intrallazzatore, ma aveva il merito di saper riconoscere, e apprezzare, gli insegnanti veri. “Lei non sa come vorrei averla tra i miei docenti”, mi ripeteva spesso. E finalmente, adesso, accadeva! Finalmente stavo per entrare a far parte di quella scuderia di cavalli di razza che avevo sempre apprezzato.

I giorni di quella fine di agosto che mi separavano dall’inizio delle lezioni trascorsero tutti d’un fiato, nell’attesa del mio trionfale ingresso. Poco prima di prender servizio venni a sapere dell’improvviso trasferimento di quel preside. Mi raccontarono di strane rivalità interne, di beghe tra colleghi. Non capii granché, ma mi predisposi a conquistar la fiducia e la stima del nuovo dirigente.

Sin da subito venni a sapere che aveva intenzione di riattivare l’opzione “Attività alternativa all’ora di Religione” che in quella scuola sembrava piuttosto accantonata. Mi venne anche suggerito di riproporre, a tal fine, il mio vecchio corso multimediale di Storia della Musica. Un ciclo di lezioni che in passato avevo costruito con l’intento di presentare agli studenti un excursus dalle origine antiche al Rock, fatto di suoni, di immagini, di video e di registrazioni di concerti. Una cosa che avevo più volte presentato con successo in diverse classi, in orario curricolare, come approccio multidisciplinare alle varie materie di studio. “Proponi quel corso, come attività alternativa. Vedrai che piacerà tantissimo”, mi venne consigliato da chi coordinava la Commissione appositamente nominata dal dirigente. Una Commissione chiamata a scegliere un'alternativa alle ore di Religione che incredibilmente vantava al suo interno, come scoprii successivamente, anche docenti di Religione.

Un po’ riluttante, mi risolsi a farlo; e presentai il programma del corso ben nove giorni prima della scadenza fissata. Lo mandai alla commissione via mail. Nel frattempo, la voce aveva cominciato a girare, seminando entusiasmo e aspettative in moltissimi studenti. Con sorpresa, nel giro di poco ricevetti una strana risposta. “Meglio riformularlo, quel programma. Meglio inserire il più possibile riferimenti alla musica liturgica”. Mi stupii parecchio. Che significato aveva quell’enigmatico consiglio? Che senso aveva proporre a studenti che decidevano di non avvalersi della Religione Cattolica, un corso di musica da Chiesa? Così non prestai attenzione a quell’obiezione, e tirai dritto sulle mie posizioni.

Arrivò il giorno del Collegio docenti. Quello in cui si sarebbe affrontata la votazione di tutti i docenti al fine di scegliere, tra le varie proposte pervenute alla Commissione, il corso alternativo da offrire a tutti i ragazzi della scuola che non intendevano seguire le lezioni di Religione cattolica. Perché ricordarlo non stona mai. L’insegnamento previsto a riguardo, in Italia, è soltanto quello. Si abbrevia con l’acronimo I.R.C., che sta per “Insegnamento della Religione Cattolica”.

Giunti a quel preciso punto dell’ordine del giorno, l’intero collegio venne informato del fatto che ci fosse ben poco da votare. La Commissione, infatti, aveva ricevuto un’unica proposta. Mentre pregustavo quella magra “vittoria”, mi travolse un’autentica doccia fredda. Quell’unica proposta pervenuta entro i termini stabiliti non era la mia. Si trattava di un pallosissimo corso di Diritti Umani, o giù di lì, che nulla aveva a che fare con le mie lezioni di Musica.

Restai di stucco. Alzai la mano e presi a protestare, facendo presente la mia proposta. Mi venne detto che era giunta in ritardo. Risposi che non era affatto vero, che era stata ricevuta dalla commissione con larghissimo anticipo, e che faceva fede la ricevuta di ritorno della mia mail. Non ci fu verso. Anzi: molti colleghi delle file davanti si volsero verso di me sprezzanti, dandomi del bugiardo. “Cosa diavolo vuoi, Ratto? Cosa pretendi? Arrivi in ritardo e ti aspetti che la tua proposta sia accolta?”

Io non riuscivo a crederci. La testa mi girava all’impazzata. Mi sedetti e cominciai a riflettere.

Fu soltanto in seguito, dopo alcuni giorni, che mi venne spiegato l’inghippo. Quel mio corso non doveva passare, altrimenti quanti ragazzi avrebbero saputo resistere al fascino della Musica e sarebbero rimasti in classe a far Religione? Perché, diciamolo. Dall’alfabetismo religioso che regna sovrano nel nostro Paese, la verità si evince facilmente. Durante l’ora di Religione i più non fan nulla. È già tanto che guardino qualche film, i ragazzi che “si avvalgono”. Te ne accorgi alla grande quando te li trovi in terza o in quarta e, mentre affronti la filosofia cristiana, ti rendi conto una volta di più che della loro religione non san quasi nulla. Cristo? Dio o “figlio” di Dio? Lo Spirito Santo? E cosa sarà mai? La trinità? Non ne parliamo proprio! I protestanti? Tutto fuorché cristiani..! Per tacer poi dei rapporti tra Stato e Chiesa. Non è assolutamente raro, infatti, trovar ragazzi in quinta convinti che il Cattolicesimo, in Italia, sia “Religione di Stato”. O che il crocifisso appeso in aula sia “previsto” dalla nostra Costituzione. Per non parlar dei docenti che vanno in classe a raccontare che soltanto chi fa Religione avrà un punto in più di credito!

Mi riferisco a insegnanti, quelli di I.R.C., che non fanno alcun concorso pubblico. Che sono selezionati direttamente dalle Diocesi, in base a criteri che di trasparente non hanno nemmeno l’ombra (del tipo che se per caso ti capita di divorziare, l’anno dopo puoi pure scordartela, la cattedra!), ma che poi lo Stato assume e paga coi soldi di tutti i contribuenti: atei, cristiani, protestanti, musulmani ecc.

Insomma. Nella mia nuova scuola un’Attività alternativa alla Religione Cattolica che osasse essere appassionante rischiava di rubar clienti al clero. Di far saltare cattedre, insomma. Preoccupazioni più che comprensibili, da un lato. Ma che nulla hanno a che fare con la libertà degli studenti e con la missione educativa dei loro docenti. Il mio corso fu buttato nel cesso, e le ore di Religione continuarono a straripare di annoiatissimi clienti.

Così, improvvisamente, mi risvegliai da un bel sogno. E capii presto che, dopotutto, quello era solo il primo passo.

Negli anni a venire avrei assistito a visite pastorali, o a esibizioni di sante reliquie, candidamente allestite durante l’orario di lezione. Lottando come un leone in nome di una scuola laica e libera da qualsiasi indottrinamento politico o religioso, sarei rimasto via via sempre più solo. Isolato, abbandonato a me stesso, impegnato a combattere un esercito di mulini a vento, in difesa di diritti che a nessuno, nemmeno ai miei stessi ragazzi, interessavano davvero più. Più in generale, avrei conosciuto un graduale e collettivo allineamento ai criteri aziendali della cosiddetta “Buona Scuola”. Alle sue logiche di profitto, ai suoi compromessi, alle sue vergognose meschinità. Oltre che un rapido dissolversi delle antiche e coraggiose alleanze tra insegnanti. Un vigliacco dividersi, un farsi reciproca guerra, per manciate di piccoli privilegi, per opportunistiche strategie di avvicinamento al "potere"..

Così oggi mi aggiro per quei corridoi, per quelle aule fredde e senz’anima, rivolgendo a me stesso quelle solite, insistenti domande.

Per quale oscuro motivo, cinque anni fa, mi sentivo così felice di lavorare in quella scuola ? Perché mai non vedevo l’ora di iniziare, in quel lontanissimo settembre del 2012?

E, soprattutto: dove ho sepolto, una volta per sempre, quell’entusiasmo e quell’onore che un tempo provavo, ogni qual volta qualcuno, con rispetto, si rivolgeva a me chiamandomi “Professore”?

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Zitti zitti, a scuola di gelo