Il Congedo
Buongiorno, volevo chiedere un congedo parentale. So che ne ho diritto per un massimo di trenta giorni, interamente retribuiti. Così, tanto per stare un po' di più con mia figlia.
La segretaria guarda il professore con sospetto: quanti anni ha sua figlia? Tre. Tre già compiuti? Si, da qualche giorno. Allora no, non può. Il Ministero della Pubblica Istruzione le riconosce la retribuzione intera solo fino al terzo anno di età del figlio. Che strano!, pensa il professore. Che abbia letto male?
Così ringrazia ed esce dall’Ufficio del personale. Tornato a casa, va a leggere bene. Dunque.. Decreto Legislativo 26.03.2001, n. 151 ... Uhm, sì: è vero.. un massimo di trenta giorni di congedo parentale interamente retribuiti, solo fino al terzo anno di età del figlio... Ma non c’è anche un Contratto? Cerchiamo.. Eccolo, il CCNL per il comparto scuola.. Vedi? Non mi sbagliavo mica: l’articolo 12 estende il diritto fino agli otto anni di vita del bimbo..
La mattina dopo l’insegnante-genitore torna alla carica. Spiega cos’ha trovato, sommerge la segretaria di articoli e normative. Le conviene parlare col Preside, sa? Non so mica se lui sia disposto a concederglielo.. Non sa “se sia disposto a concedermelo”? Ma cos’è, un regalo? In un attimo il prof è in Presidenza. E in effetti le cose stanno così. Il Dirigente Scolastico ha ben presente il suo diritto, ma c’è un piccolo problema: non può concederglielo. Il Ministero non glielo permette. Il Ministero deve risparmiare, e questo genere di diritti non li riconosce. Entro i tre anni di vita, altrimenti il congedo non è pagato; punto e basta!
L’insegnante-genitore-allibito non demorde. Ah sì? Bene, allora vado di là e questo cavolo di congedo lo chiedo subito. Così, se poi mi viene negato faccio ricorso. Benissimo, faccia pure.
L’insegnante-genitore-allibito-incazzato “fa pure”! Entra, compila, firma. Tre giorni di congedo parentale per la bimba di tre anni e qualche giorno, prego. Dal 3 al 5 aprile 2013. Non le conviene chiederlo per l’altra figlia, professore? Quella che ha solo qualche mese, no? Così il permesso glielo accordano di sicuro. No, no. È una questione di principio.
Qualche giorno dopo, ecco il provvedimento del Dirigente, che gelidamente nega la pur dovuta retribuzione del congedo richiesto.
Col fogliaccio in mano, l’insegnante-genitore-allibito-incazzato-agguerrito va in cerca di sindacalisti. Tutti la stessa solfa: ma non ha detto che ha una bimba più piccola, di qualche mese? E lo chieda per lei ‘sto congedo, no? Visto che ha questa fortuna..! Roba da pazzi. Roba da pazzi!
Che si fa? Che facciamo?, pensa. Com’è più che diceva mia madre? La dignità al primo posto! Cos’è che consiglia mia moglie? È una questione di principio, bisogna lottare! Niente da fare: il segreto della felicità è circondarsi di donne in gamba.
Quindi, eccolo dall’avvocato. Che gli fa anticipare una cifra esattamente doppia rispetto a quanto la scuola non gli ha pagato per quei dannati tre giorni di permesso. Ma è una questione di principio, no? E allora cacciamo i soldi. Bisognerà pur ricominciare a insegnare le questioni di principio, ai nostri giovani. Mica vogliamo che vengan su come la gentaglia che ci governa.. E le questioni di principio si insegnano con gli esempi concreti, quelli che viviamo sulla nostra pelle.. Non certo con la teoria.
Così viene redatto il ricorso, super dettagliato, a cui l’ARAN (l’Agenzia per la Rappresentanza negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) controbatte con una smilza “interpretazione” delle norme in questione, fornita dal ministero. Da una parte tutto un ragionamento basato sull’evidenza della legge, dall’altro una semplice “interpretazione” ministeriale. Che naturalmente dovrebbe bastare a cancellare un diritto, stile ventennio fascista. Il piccolo docente contro la gigantesca macchina del ministero. L’apoteosi della burocrazia.
Alla prima udienza, il 2 ottobre 2014, il Giudice del lavoro straluna. Non ne ha mai sentito parlare. Dice di volersi prima documentare. E’ logico: sono anni e anni che quando un docente si sente negare un diritto, piuttosto che rimetterci qualche soldo da un avvocato si tira indietro. E non capita solo agli insegnanti, probabilmente. Quindi? Se ne riparla a dicembre. Il 10 di dicembre, per l’esattezza, quando il Giudice annuncia che non intende ancora andare a sentenza. Dice che la cosa non è chiara, che non ha senso che un ministero firmi con i sindacati contratti collettivi che prevedono certi diritti, per poi fornire interpretazioni che li negano. Vuol capire meglio, il Giudice. E dà due mesi di tempo all’ARAN per incontrare i sindacati e dirimere la questione. Lo fa ai sensi dell’art. 64 del D.Lgs. 165/2001. Un’occasione mica da poco, insomma, che trasforma tutto l’ambaradan in un vero e proprio processo-pilota. Dal singolo caso di un insegnante-genitore-allibito-incazzato-agguerrito-fierodisé ci si proietta, in un lampo, a un diritto di tutti gli insegnanti-genitori italiani.
Ma l’ARAN se ne frega, in quei due mesi non convoca proprio nessun sindacato e ribadisce, lapidario, la sua “interpretazione”. Il 30 aprile, così, il Giudice va a sentenza. E condanna il Ministero.
L’iter processuale che è stato intrapreso, però, è molto particolare. Così, la sentenza è ancora da considerarsi “provvisoria”: in pratica, si dà al Ministero l’ulteriore possibilità di ricorrere entro due mesi. E non in Appello: in Cassazione. Due gradi di giudizio invece che i soliti tre, insomma.
Il 28 luglio 2014, il Giudice del lavoro riconvoca le parti, e sbigottisce. L’avvocato del Ministero ammette che l’ARAN non ha provveduto ad effettuare ricorso perché “se l’è dimenticato”. Quasi risentito, il magistrato rende definitiva la sua condanna nei confronti del Ministero e di quell'istituto che non ha retribuito l’insegnante-genitore-soddisfatto. Quel liceo dovrà pagare i tre giorni di permesso, sì, ma anche tutte le spese legali. Duemila euro, per la precisione.
Non li pagherà mica il preside, quei duemila euro, no. I presidi possono negar diritti senza perderci nulla. Se un tribunale condanna il loro comportamento, paga la scuola. Paga l’amministrazione pubblica. Paghiamo tutti noi, insomma. In questo caso, poi, a rimetterci sono anche gli studenti di quella specifica scuola, perché i soldi del Ministero finiti nelle tasche degli avvocati sono gli stessi con cui si sarebbero potute riparar lavagne, comprar carta igienica, cambiar toner alle fotocopiatrici... Tutte cose che non si fanno perché “non ci sono i fondi”. Quegli stessi fondi che, invece, quando li si butta in spese legali per riparare alle disposizioni illegittime di un Dirigente e del suo Ministero, ci sono eccome.
L’avventura dell’insegnante-genitore-retribuito è così finita. Potrà servire a incoraggiare altri docenti a far valere di più i propri diritti? Non lo so. Sinceramente non lo so. Ma una cosa, con un pizzico di orgoglio, ve la voglio proprio confidare.
Quell’insegnante, sono io.
P.S. Dalla data della sentenza, Il MIUR aveva sei mesi di tempo per pagare. Lo stipendio sottrattomi mi è arrivato in data 24 febbraio 2016, dunque quasi sette mesi dopo. Le spese legali, invece, mi sono state risarcite il 4 marzo 2016.
Inutile fare un confronto con quanto accade quando un contribuente ritarda anche solo di un giorno il pagamento dell'IMU, no?