Il Girone dei credenti
La misericordia di Dio: da tempo, ormai, il papa insiste su questo tema, evidentemente in un’ottica di conciliazione e di ecumenismo. Il riferimento è costante, ostinato, accompagnato dalla frequente considerazione secondo cui troppo poco spazio, a questo paterno e dolce lato del profilo divino, sia stato finora accordato dalla chiesa di Roma. È evidente, si tratta di un tasto su cui non si può batter granché senza sconfinare in territorio protestante, in quell’ambito riformato che riconosce al comportamento buono un potenziale salvifico decisamente inferiore a quello della fede. Così come, d’altronde, è facile evincere da certi famosi passi del Nuovo Testamento.
Dalle pagine del Manifesto, un sapiente e recente riferimento di Terracciano a questo tema si è tradotto in ghiotta occasione per ricordare il poco noto De immensa misericordia Dei, scritto da Erasmo da Rotterdam nel 1524. Capolavoro di apertura, di fraterna consolazione, non c’è che dire, nei confronti dei peccatori e della loro desperazione riguardo alla possibilità di accedere al Paradiso con le loro sole, umili forze. Vale la pena precisare uno dei temi centrali di questo prezioso – e per la cattolicità un po’ imbarazzante – scritto, forse non a caso poco noto e ancor meno tradotto. È meno ingiusto e iniquo l’uomo che non crede in Dio di quello che non lo ritiene capace di misericordia. Questo, in sintesi, il messaggio di Erasmo.
Il tema, suggestivo, affascinante e consolatorio, cela però un insidia che, a dispetto della pretesa e tradizionalmente rivendicata laicità del pensiero rinascimentale, poco ha che fare con quell’anacronisticamente eccessiva apertura mentale che, proprio a grandi umanisti come Erasmo, è comunemente attribuita. È evidente, infatti, che il tema della misericordia divina nei confronti di chi non crede, o di chi “crede diversamente”, parta inesorabilmente dalla considerazione secondo cui Dio esiste e chi non ci crede, o quanto meno non si adegua all’ortodossia, erra. Di questo errore, dunque, secondo Erasmo Dio avrebbe pietà.
Due anni or sono abbiamo assistito ad un enfatizzato quanto imbarazzante scambio epistolare tra “l’ateo” Eugenio Scalfari e il suddetto papa, proprio su questo argomento. Dio perdona chi non crede in lui?, domandava incredibilmente il primo. Certo, basta che egli segua la sua coscienza e non cada nel peccato!, rispondeva ancor più incredibilmente il secondo. Il trucco, però, è sempre lo stesso.
Come può chiedersi se gli sia possibile ottenere il perdono divino, chi in cuor suo crede che Dio non esista? D’altra parte un papa non parla – e non risponde – a caso. Quanto meno, non può non usare a proposito il lessico cattolico. Quando dunque egli risponde parlando di coscienza, non si riferisce certo a quella riflessione razionale a cui i pensatori classici affidavano la propria moralità, bensì alla voce divina che suggerisce ai cristiani il retto comportamento per non incorrere nel peccato, in quell’offesa a Dio, cioè, per altro letteralmente inconcepibile per un greco. Se quindi la domanda era assurda, la risposta era quanto meno tendenziosa. Un ateo che risponde alla sua coscienza per non peccare non è ateo. Oppure tiene i piedi in due scarpe. Punto e basta.
Alla base di tutto, la solita convinzione cristiana, evidentemente condivisa anche da “atei” di comodo come Scalfari, secondo cui l’irreligioso sia banalmente chi non crede in nulla e non, invece, chi crede convintamente che Dio non esista. Pregiudizio, questo, che fornisce le basi a successive inferenze, via via sempre più irriguardose nei confronti di chi non crede, che si spingono fino a ritenere che un crocifisso in un’aula pubblica piuttosto che un sacramento subìto inconsapevolmente alla nascita, non facciano male a nessuno. Ma non c’è nulla da fare. Scalfari ragiona così perché è italiano. E come spesso ho avuto occasione di sostenere, in Italia ci son solo cattolici. Atei cattolici, buddisti cattolici, ebrei cattolici, musulmani cattolici, protestanti cattolici, cattolici cattolici1.
Chi crede è avvantaggiato rispetto a chi non crede. Questo il pregiudizio di fondo, il dogma della marcia in più di cui è intrisa la cultura occidentale – e in primis italiana – che ha conosciuto illustri appoggi da argomenti come quello della scommessa di Pascal. Credere conviene di più. Se credi hai tutto da guadagnarci. Se non credi, puoi al limite sperare che colui di cui neghi l’esistenza non se la prenda troppo.. E ti perdoni. Un po’ come se un marxista sfegatato, all’idea che il comunismo possa esser stata solo una grande illusione, si consolasse immaginando di ritrovarsi in compagnia di un ammasso di fascisti.
Ma a prescindere dall’assurdità secondo cui chi non crede debba venir castigato (per quale colpa mai, in fin dei conti?), data la rilevanza che, rispetto a questo genere di convinzioni, possiedono i condizionamenti culturali, familiari, ecc; a prescindere quindi da questioni tutt’altro che banali come quella che potremmo affrontare domandandoci, per esempio, a quale verità, a quale fede avrebbe mai aderito papa Francesco se fosse nato a Teheran, davvero possiamo affermare che chi crede sia messo meglio di chi no? La vittima di una truffa, quale consolazione, quale soddisfazione di sé potrebbe trarre dalla consapevolezza di aver ingenuamente creduto al suo truffatore?
Personalmente, ritengo che la fede in un Dio o la negazione della sua esistenza siano convinzioni talmente intrecciate con la storia e la più profonda natura dell’individuo che le matura, che ritenere che egli possa poi “trovarlo” o “non trovarlo”, così come quando apri il barattolo e scopri che non c’è più zucchero, costituisca un modo di pensare decisamente riduttivo. Chi crede che Dio esista, infatti, ha tanta ragione quanto chi crede di no, e se alla fine della vita di un ateo convinto, Dio si facesse “trovare” da lui a dispetto delle sue più profonde e libere convinzioni, a mio parere non farebbe altro che calpestare irrispettosamente quella stessa libertà che molti credenti ritengono abbia donato ad ogni uomo.
Tuttavia, anche accettando questo banalissimo “trovare” o “non trovare” Dio oltre la morte, davvero è così scontato che sia più vantaggioso credere (perché, mal che vada, non troverai nulla), piuttosto che non credere e ritrovarsi poi davanti un dio con tutta l’intenzione di farcela pagare?
E se invece il rischio di dover saldare un conto salato in caso di errore lo corresse anche colui che crede?
Facciamo un esempio. Secondo Democrito, il nonno di tutti gli atei, l’anima è materiale, costituita da atomi così come il resto del corpo e omogeneamente diffusa in tutti gli organi che – grazie ad essa – sono in tal modo recettivi all’ambiente. Alla nostra morte, quindi, essa si decompone così come la pelle, o come un rene. Il filosofo di Abdera arriva a ipotizzare che il lungo tempo che un cadavere impiega a decomporsi sia quanto meno confrontabile con la durata del processo di disfacimento della sua stessa anima. Che di conseguenza, essendo essa il principio stesso del nostro percepire, finché non si smembra completamente si può supporre continui a sentire e a pensare; ben oltre, quindi, la nostra stessa morte. Una prospettiva orrenda, certamente. Ma non confutabile così a priori.
Ebbene, in base a questo ragionamento, perché non ipotizzare allora che un infernale e lunghissimo periodo di pentimento e di amarissimo rimpianto possa attendere chi ha creduto e che, alla sua morte, si scopre invece costretto a constatare di esser stato truffato, trovandosi di fronte la prova dell’inesorabile assenza di un dio? Quale desolante, terrificante, interminabile inferno di disillusione dovrebbe sopportare allora, colui che ha commesso il peccato di credere?
Per dirla col grande Learco Pignagnoli, se Gesù avesse detto ai suoi discepoli che chi avesse creduto in lui sarebbe morto come tutti gli altri, nessun lo avrebbe seguito. Ecco: a ben pensarci, questioni come quella del vantaggio e dello svantaggio, nel rapporto con Dio non dovrebbero proprio entrarci. E tutti quelli che credono solo perché conviene, così come conviene far la tessera alla Coop, dovrebbero cominciare a pensarci bene.
Potrebbero esser loro, infatti, ad essersi sbagliati.