Con carta e penna
È domenica, e il pranzo è appena finito. Siamo stati bene, come spesso ci accade qui.
Il ristorante, anche oggi pieno di gente, è uno di quei posti che mia moglie ed io consideriamo “nostri”. È il nostro punto fermo, ogni qual volta si passi da Casale per passeggiare amabilmente tra le mille variopinte bancarelle dello storico mercatino dell’antiquariato. Le bimbe son raggianti. Hanno appena divorato la loro sgargiante pizza. Mangiar così, per loro, è sempre una festa. Ancora un buon caffè, servito con la solita gentilezza, e poi via, a ricominciare il giro. Giocherellando col bancomat tra le dita, osservo incuriosito il proprietario lottare a fatica col computer. Far lo scontrino, a quanto pare, non è poi così agevole.
La butto lì: "Eh, ‘sti computer.." Non me ne parli, non me ne parli proprio! Lo sguardo accigliato tradisce uno stato d’animo esasperato, ben lungi dal voler scherzare. Siamo nati con carta e penna, e guardi un po’, come ci siamo ridotti! "Ha ragione", mi affretto a rassicurarlo. "È una gran scocciatura dover imparare a trafficar su questi aggeggi!" L’uomo solleva uno sguardo severo. A cinquant’anni non ci si può sentire ignoranti.
Salutiamo, usciamo. Giganteschi nuvoloni grigi affollano il cielo.
Riprendendo il cammino, mi ritrovo a pensare. Non ci si deve sentire ignoranti, a cinquant’anni. Se la buttiamo sul filosofico, le cose stanno diversamente: sentirsi ignoranti fa bene sempre, a qualunque età. Serve a continuare ad aver voglia di imparare, a non sentirsi mai “arrivati”. Ma io capisco bene, fin troppo bene, cosa intende quell’uomo.
È uno che fa bene il suo lavoro, quel ristoratore; con accuratezza e sensibilità. Ha accumulato esperienza da vendere, e tutto ciò gli garantisce l’apprezzamento della folla di clienti che può vantare. Eppure alla sua età, così come moltissimi di noi, è costretto a sentirsi incapace. Ecco, cosa intende. Qualsiasi ragazzino passi di lì e lo veda trafficare con disagio davanti a quel lucido rettangolo di plastica, può prenderlo in giro. Davanti a qualunque adolescente può sentirsi proprio così: un incapace. Alla sua età, al suo livello, un incapace! Non sai far funzionare l‘app? Ecco che sei subito un idiota!
E basta poco. Basta proprio poco. Perché anche se impari, anche se ti metti lì e ti intestardisci finché non ci hai preso la mano, basta qualche nuova diavoleria, qualche stupido aggiornamento dell’ultimo momento che improvvisamente piove dal cielo, per rimandarti in crisi. Perché è questione di mentalità, c’è poco da fare.
Siam nati con carta e penna, sì; siamo abituati ad annotarci frettolosamente le cose, ad abbozzare due conti, a tirare una riga su, quando si sbaglia. E a ricominciare.
Ci hanno insegnato ad aprire un taccuino, ad annotarci su quel ci serve e a ritornare a vivere. Siamo abituati a scrivere sul primo foglietto che ci troviamo in tasca, senza attaccare spine o a dipanar cavetti, senza schiacciar pulsanti, senza dover dipendere da spyware o da antivirus, o da improvvisi cali di corrente. Senza la paura di “perder tutto” se solo arriva un temporale, o se di colpo tutto l’ambaradan si blocca, lasciandoci all’istante culo a terra.
Da piccoli ci han fatto una testa così con la calligrafia, costretti a pagine e pagine di aste. Siamo venuti su col nostro stile, la nostra scrittura personale. Le nostre t, le nostre f; il nostro modo, solo nostro, di scrivere su un foglio. Ci hanno insegnato a chiamar le cose col loro nome. Perché, ai nostri tempi, il telefono era un telefono, il registratore di cassa un registratore di cassa, e la tv una tv. E ora no: ora ci arrampichiamo su diavolerie che fan di tutto, ma che alla fine ne han sempre una per non far bene niente. Aggeggi molto più adatti a controllar la nostra vita, che ad aiutarci a lavorare. Che ci presentano come la panacea per risparmiare il tempo, ma che richiedono quintali di ore ogni giorno per farli appena funzionare. E per sprecar la vita davanti a uno schermo.
Non ci si può sentir degli incapaci, a cinquant’anni. E’ così vero, in questo tempo in cui il mezzo è diventato il fine. E in cui conta di più con che carattere stampi il conto della consumazione, che come sai davvero cucinarla. Ed il carattere, si sa, fa tutto uguale. Le le stesse f, le stesse t per tutti..
Siamo nell’era dei giovani, mio caro. L’era in cui le cose che contano davvero le san far meglio loro. L’era in cui, ad aver ragione e a far “tendenza”. son sempre i ragazzini. Benvenuti nel tempo in cui i sessantenni si vestono da bambini, si esprimono da bambini, ragionano da bambini. L’epoca in cui Ulisse, Dante o Romeo e Giulietta giran coi leggings, e coi blue jeans strappati. Perché altrimenti nessuno se li fila, perché se no nessun studente ci si mette più, a studiarli. L’era dei papi che su YouTube spiegano Gesù, paragonandolo al campo di ricezione di un iphone, in cui i ministri discutono su Twitter, i sindaci o han trent’anni o sono da buttare. E i tradimenti si consumano seduti, davanti alla webcam.
Cammino tra la gente, amareggiato, in mezzo a quegli strani e antichi oggetti. Che, a differenza di noialtri, più sono vecchi e più hanno valore.
A cinquant’anni non ci si può sentir degli incapaci, solo perché non si è disposti a diventare idioti. Solo perché hanno preso il mondo per le corna e, follemente, lo hanno girato, a forza, a pancia in su.