Marco Polo, un agente del Papa. Il suo Cipango è l'America.
Ruggero Marino, 13 novembre 2014
La missione di Marco Polo sembra presentare il medesimo copione riproposto da Colombo secoli dopo. Le informazioni contenute ne "Il Milione" potrebbero aver influenzato il navigatore che, nella descrizione del misterioso Cipango dei Polo, trovò forse ispirazione.
Marco Polo, un altro italiano, un altro viaggiatore, un altro mistero. Anche di lui si conosce molto poco. Le congetture superano la verità. Al punto che, anche per Marco Polo si è detto che potrebbe non essere esistito. Un nome che rimanda all’autore del secondo Vangelo, che fu il primo vescovo della mitica Alessandria, con la biblioteca fonte del sapere. Dove fondò la prima chiesa cristiana. Fra i suoi attributi c’è, guarda caso, un libro. Cosa vuole significare? La tradizione lo chiama con il nome che porta ai nostri giorni, ma negli “Atti degli apostoli” è chiamato anche “Giovanni soprannominato Marco”. Quanti richiami ai Giovanni, a cominciare da Papa Cybo, nei meandri della storia più segreta come in quella di Colombo! Polo, da nord a sud, fa riferimento ad una geografia ancora da completare, fra i due punti glaciali ed estremi del mondo. Qualcuno aggiunge che il veneziano non possa avere raggiunto la Cina, visto che non fa mai menzione della muraglia cinese, un’opera ciclopica, che non poteva passare inosservata. Coincidenze, suggestioni, supposizioni…
Alcuni punti fermi, tuttavia, restano. E’ certo che i Polo hanno avuto come punto di riferimento il pontefice, la cristianità, Gerusalemme. Marco faceva parte di un’ambasceria inviata dal papa Gregorio X a Kubilay Khan. Portava con sé l’olio del Santo Sepolcro di Gerusalemme da offrire all’imperatore dell’oriente. Nel corso delle sue peregrinazioni senza fine (“dimorò in que’ paesi bene trentasei anni”, afferma la versione toscana del “Milione”), prima di inoltrarsi oltre i confini del meraviglioso, soggiornò a San Giovanni d’ Acri nell’odierna Siria, l’avamposto dei cavalieri crociati, nel cuore dell’impero musulmano. Con la custodia dei Templari, quella degli Ospitalieri e quella dei cavalieri teutonici. E’ ad Acri che la spedizione subisce uno stop, in seguito alla vacanza sulla cattedra di Pietro, sempre ad Acri il consiglio di attendere, prima di proseguire, è del legato pontificio, Tedaldo Visconti da Piacenza. Colui che diventerà di lì a poco proprio Papa Gregorio X. Fra Piacenza e Acri la presenza templare è particolarmente influente e da Piacenza vengono i Pallestrello (Pallestrelli, Perestrello), la cui figlia, la nobile Felipa, sarà, in un matrimonio che si spiega solo alla luce di una storia diversa, la prima e forse unica moglie di Cristoforo Colombo. Conosciuta nell’ambiente dei cavalieri di Cristo portoghesi, diretta emanazione dell’Ordine del Tempio, mai sparito in quelle regioni estreme affacciate sull’Atlantico.
"Nel palazzo patriarcale di Acri, i due, accompagnati da Marco si prosternarono al bacio del piede del successore dell’Apostolo e ne ricevettero la benedizione. Il papa fece stracciare le lettere giustificative che aveva firmato da legato e ne dettò di tutt’altro tenore; tra l’altro, chiedeva a Kubilay di rinfocolare le buone intenzioni di Aboga (il khan di Persia, n.d.a.), di dargli disposizioni favorevoli ai cattolici, in pratica di incoraggiarlo nell’alleanza antimusulmana a difesa del regno d’Oltremare e a protezione del pellegrinaggio ai Luoghi Santi. All’olio delle lampade di Gerusalemme aggiunse “molti splendidi doni, di cristallo e d’ogni genere”"(1).
Un cammino inverso
Il pensiero che Roma non abbandona mai, sia pure fra alti e bassi, è quello dell’Outremer, dell’Oltremare, di Gerusalemme, del Santo Sepolcro. Pontefici, frati (alcuni fanno parte della missione, ma si perdono lungo la strada), ambasciatori, legati pontifici, uomini di chiesa, accompagnatori e suggeritori sono la scorta sottesa della parabola di Marco Polo. Sembra una storia, per chi insegue le orme di Colombo, già letta, già vista. Ancora da leggere, da vedere. E’ indubbio inoltre che Marco Polo fosse molto vicino all’ordine dei domenicani. “A tal punto l’Ordine Domenicano si appropriò di Marco Polo che quando, circa settant’anni dopo il viaggio, i Domenicani decisero di realizzare, in Santa Maria Novella a Firenze, un grande ciclo di affreschi – la famosa Cappella degli Spagnoli, opera di Andrea Buonaiuto (1366-68) – fecero raffigurare, accanto ai santi e alle imprese dell’Ordine, anche un gruppo di laici, che raccoglie alcuni personaggi della cultura particolarmente cari all’Ordine, tra i quali, accanto a Petrarca e Boccaccio e – l’identificazione non è sicura – Cimabue e Giotto, troviamo ritratti di Nicolò, Matteo e Marco Polo, che stringe tra le braccia un grosso volume, evidentemente il “Milione”(2).
La spedizione dei Polo (soprattutto il resoconto tramandato) è quella di un uomo di “tipica formazione occidentale cristiana” (non manca il caratteristico “animus” contro i musulmani), ma senza che ciò costituisca, questo è il fatto eccezionale, uno schermo alla comprensione del diverso, che quindi può essere raccontato con imparzialità e, quando ne sia il caso, con convinta ammirazione”(3).
Anche Leonardo Olschki sottolinea che “l’intenzione di Marco Polo di voler dare al suo viaggio il carattere di una missione religiosa si conosce subito nella prima parte del suo libro. I motivi ecclesiastici e pii vi abbondano fin da quando i tre veneziani attinsero l’olio della lampada del Santo Sepolcro di Gerusalemme, estendendosi poi alla narrazione delle sette cristiane in Asia Occidentale, alla narrazione dei miracoli della fede nella lotta contro gli infedeli e al racconto dell’omaggio dei Re Magi a Gesù Bambino…”. E’ un cammino a senso inverso, per terra e non per mare, rispetto a quello di Colombo. Molti degli scopi e dei presupposti sembrano identici. Identici quelli finanziari, identici quelli politici, identici quelli missionari-cristiani. Prima dei Polo sono almeno quattro, ma il numero potrebbe crescere considerevolmente, se si tenesse conto di molte altre relazioni di viaggio, le “spedizioni ufficiali” verso il paese dei Mongoli ad opera di uomini di fede: ora francescani, ora domenicani, in un tentativo di ricucire l’ecumene, che vide particolarmente impegnato Innocenzo IV, il genovese Fieschi. Il predecessore al quale si ispirò Innocenzo VIII Cybo, il Papa di Colombo. Nessuno dal tempo di Alessandro Magno si era spinto oltre il “nodo” del condottiero macedone, messo come un cappio attorno alla conoscenza del mondo. Fra l’interdetto gordiano ad oriente e l’interdetto ad occidente, alla “finis terrae” dell’Europa, con le colonne d’Ercole, l’ecumene era praticamente blindata. In un perfetto equilibrio del terrore. Mostri da tutte le parti: di mare quelli che pullulavano nell’Atlantico, di terra quelli che scorrazzavano in Asia, con le genti bestiali di Gog e Magog.
Ma se l’oceano era rimasto un tabù, anche perché meno accessibile, la spinta degli affari aveva reso frequentabili dal commercio la “via della seta” e la “via delle spezie”. Le incursioni su quel fronte dell’esotico non erano prerogativa della cristianità. Vedevano particolarmente attivo anche l’Islam, un cui mercante precedette di ben quattro secoli i Polo, seguito lungo lo stesso cammino da molti altri, come narra un letterato arabo, Abu Zeid. Roma non poteva consentirlo. I mercanti si mettevano in viaggio spinti dal miraggio economico, la chiesa doveva espandere la parola di Cristo, in nome del dominio spirituale e universale e in nome della pace. Sulla via della pace per le genti diverse si narra che si avventurasse il francescano fra’ Lorenzo del Portogallo. Non è certo che sia nemmeno partito. Chi giunse a Karacorum, la capitale dei tartari, fu il francescano umbro Giovanni Pian del Carpine. Aveva svolto incarichi in Europa per conto dello stesso San Francesco. A bilanciare il proselitismo degli ordini mendicanti ancora Innocenzo IV investì di un’analoga missione il domenicano Ascelino Lombardo da Cremona. Gli faceva compagnia Andrea di Logumel, protagonista poi di un’ulteriore ambasceria. Fu quindi la volta di Guglielmo di Rubruk, francescano fiammingo.
Ma i Khan, a dispetto di alcune conversioni come nel caso di Toqtai, il Khan dell’Orda d’Oro, nei primi anni del 1300, non si piegavano alle richieste dei papi, ascoltando talvolta contrariati le ambascerie di un “padre” lontano e sconosciuto, che chiedeva loro la sottomissione. Diverso il caso di Kubilay, anche per l’influenza esercitata dalle numerose principesse cristiane nestoriane, a cominciare dalla sposa o come nel caso di Sayor-gatani Baigi, la madre del “Grande Cane”, con la quale si incontrò Marco Polo. A conclusione del parziale quadro missionario nel 1294 giunse in Cina fra Giovanni Da Montecorvino, per conto di Nicolò IV.
Messaggero di eresie?
Chi era dunque Marco Polo? Tutto lascia pensare ad un inviato, ad un messaggero, ad un “agente segreto” di Roma. “Il fatto che Marco Polo si inserisca, coscientemente o inconsciamente in una catena di “missionari” cattolici, in particolare francescani, è ulteriormente confermato dall’interessante miniatura del codice londinese B. M. Reg. 19 D. 1 “che raccoglie relazioni di missionari, ma anche i testi favolosi di Alessandro Magno”: esso infatti “rappresenta i fratelli Polo in veste francescana davanti al Gran Khan che li incarica di portare al Papa le sue richieste”(4).
E’ il caso di rammentare, in questo contesto, che Cristoforo Colombo, nei momenti della disperazione e della penitenza, come in quello della morte, indossava il saio francescano? In un ordito che, attraverso i secoli, rivela un’unica tessitura. Che ha per filo comune la stoffa del saio. Marco Polo come precursore di Colombo, ispirato all’”ideologia della comprensione fra i popoli?”. Un personaggio la cui testimonianza “può essere in qualche modo ricollegata all’”uomo nuovo” (l’uomo-nuovo-uovo, n.d.a.) dell’Umanesimo e del Rinascimento”(5).
Il Milione non era letto e febbrilmente compulsato solo da Colombo, ai fini di una geografia da risistemare compiutamente rispetto alla tradizione. Lo leggeva l’infante del Portogallo don Pedro. Lo leggevano soprattutto Enrico il Navigatore e Paolo dal Pozzo Toscanelli. Scienziati e navigatori. Cosa c’era di tanto interessante, di tanto nuovo, di tanto celato o svelato in quel testo, al di là del fascino per l’esotico e per le “mirabilia” dell’Oriente? Avevano nello loro mani l’originale? In quale stesura lo conobbero, dato che la prima versione è andata perduta? La trascrizione più diffusa, che circolò in Europa, fu quella del domenicano bolognese Fra’ Francesco Pipino. Che “ha sistematicamente soppresso nella sua versione latina i passi che potevano suggerire qualche riflessione eretica, eterodossa favorevole alle sette cristiane e pagane dell’Asia”(6).
Si censurava la trasversalità ideologica, che accomuna tutti i personaggi della nostra storia. Peraltro la narrazione di Marco poteva nascondere altre eresie sul mondo “otro”, smarrito. In un testo dove rimane la breve descrizione di un paese favoloso, l’unico che il viaggiatore non avrebbe visitato di persona, il Cipango. Una località che ha finito con il prendere il sopravvento su tutte le altre descrizioni, che pure abbondano di richiami affascinanti. Anche chi non ha mai letto (ma quanti lo hanno fatto?) “Il Milione” ha qualche nozione relativa al Cipango, ai “tetti d’oro”. Altri elementi della narrazione meriterebbero altrettanta, se non maggiore attenzione. Eppure non è così. Il che è già di per sé sorprendente. Perché tanta curiosità proprio attorno al Cipango?
“Non a caso, una tappa decisiva della fortuna del “Milione” corrispose proprio a una delle sue pagine più “incredibili” (per noi) e meno appoggiate sull’osservazione diretta. Marco aveva parlato del misterioso “Cipangu” o “Zipangu” – il Giappone , che Qubilay Khan aveva ripetutamente cercato di conquistare, nel 1274 e nel 1281, fallendo entrambe le volte: secondo la leggenda era stato un “kamikaze”, un vento divino levatosi furiosamente, a respingere le navi degli invasori – come del paese dell’oro dove persino i tetti erano coperti d’oro massiccio. Il meccanismo mentale cui egli aveva ubbidito era in fondo semplice: tra le pur grandi meraviglie che egli aveva riscontrato in Asia non si era tuttavia mai imbattuto in quelle mirabili ricchezze delle quali si favoleggiava nelle leggende del Prete Gianni e nei romanzi di Alessandro. Restio a trarne la conclusione che esse fossero fantasia, ecco che le aveva isolate nella non visitata isola “del Sol Levante”. Fu proprio quella pagina poliana a colpire Cristoforo Colombo, a spronare più di ogni altra a raggiungere l’Oriente attraverso la rotta occidentale. Le radici dell’Eldorado sono in questa improbabile visione di città coperte di metallo prezioso”(7).
Dal Cipango all'America
Cipango, tetti d’oro. Marco Polo e Cristoforo Colombo sono in perfetta sintonia. Stesse destinazioni, identiche fascinazioni. Ma corrisponde anche la localizzazione di quei toponimi leggendari sulle mappe terrestri? Di quale paese sta parlando Marco Polo? Il passo sembra mischiare elementi, che vanno in qualche modo separati. Che non si possono ricondurre ad un unico comun denominatore. Le incongruenze sono tali e tante da fare trapelare l’annuncio di una terra, che non ha nulla a che vedere con il Giappone. L’arcipelago anticamente non aveva un nome ufficiale, superato il 670 dopo Cristo, si chiamò Nippon o Nihon. Si vuole che Cipangu o Zipangu (ma le denominazioni sono anche altre, come Cinpangu, Xipangu, Sipangu… così come abbiamo già visto che per alcuni si trattava addirittura di Antilya) sia la versione accettata del cinese Jin-pen-kuo. Un Giappone medioevale, dalla cultura oltremodo sviluppata ed estremamente raffinata. Dove le miniere d’oro non esistevano. Quello stesso oro che Marco Polo non ha mai incontrato, nemmeno nel corso del suo infinito peregrinare. Il veneziano ha attraversato regioni incredibili, ha visto ricchezze e bellezze architettoniche di tutti i tipi. Perché il massimo dell’inverosimile e dello strabiliante dovrebbe trovarsi in Giappone? Perché il marchio del paese dai tetti d’oro, che tanto scalpore susciterà e che tanta attenzione provocherà, dovrebbe riferirsi ad un’India asiatica diversa da tutta l’altra India?
Leggiamo con attenzione. Non senza prima rilevare che con il Cipango “comincia il libro delle Indie”. Comincia? Perché? Eppure Indie, vale la pena di ripeterlo, erano anche l’Asia già descritta. Ma veniamo alle parole, quanto meno dubbie, in riferimento ad un Giappone presunto: ”Cipangu è un’isola a levante in pieno Oceano a millecinquecento miglia dalla terraferma (che non è più la Cina, n.d.a.). E’ un’isola immensa (il Giappone non lo è, n.d.a.). Gli abitanti sono di pelle bianca (molti “indios” lo erano, n.d.a.) e hanno belle maniere (sembra di leggere Colombo quando incontra gli indios, n.d.a.): sono idolatri (tali erano definiti gli indios, n.d.a.) e indipendenti, non riconoscono signoria all’infuori della propria. Hanno stragrande quantità d’oro perché l’oro si trova nel Cipangu in quantità eccezionale (in Giappone l’oro non c’era, n.d.a.) … hanno perle in abbondanza (oggi il Giappone è noto per le sue perle, ma sono quelle artificiali, mentre l’America colombiana uno scrigno naturale di perle, n.d.a.) … qui è consuetudine, quando si dà sepoltura, di mettere in bocca al morto una perla (nella bocca di mummie, rinvenute in Latinoamerica, si sono trovati dei piccoli ciottoli ed oro, n.d.a.)”(8).
Le stranezze non fanno che moltiplicarsi nel corso della lettura. Il riferimento è sempre e inequivocabilmente al Cipango. Si parla di idolatri la cui vita “è un tale insieme di stravaganze e diavolerie… Sappiate che quando uno degli idolatri di queste isole prende prigioniero qualcuno che non sia un loro amico, se costui non può pagare il riscatto, invita i propri parenti e amici con queste parole:” Io voglio che veniate a mangiare a casa mia”. E fatto uccidere l’uomo che ha preso, lo fa cuocere e con i suoi parenti lo mangiano. Considerano la carne umana la migliore vivanda che si possa avere… questo mare è a levante ed ha, a detta dei più esperti piloti e marinai che sanno navigarlo, settemilaquattrocentoquarantotto (di settemila isole, riferite ai Caraibi, parlerà in una lettera Colombo n.d.a.) isole per la maggior parte abitate. E si noti che in ogni isola nascono alberi che hanno tutti un forte e buono odore e che sono di grande utilità… ci sono molte cose di gran pregio a cominciare dall’oro e da altre cose preziose; ma sono così lontane queste isole che ci vuole un anno per arrivarvi (il Giappone è vicinissimo alle coste della Cina, n.d.a.) … Sappiate che questi luoghi sono lontanissimi dall’India. E vi faccio notare che ho parlato del mare di Cin ma dovete sapere che si tratta del mare Oceano””(9).
Si parla degli “usi degli idolatri”. Le distanze, sia pure calcolando una percentuale di errore, sono tali da escludere qualsiasi rapporto con il Giappone. Siamo in pieno oceano, il solo oceano che abbraccia il mondo intero, ci troviamo “in luoghi lontanissimi dall’India”. Tanto lontani che “ci vuole un anno per arrivarvi”. Si parte d’inverno e si torna in estate “perché ci sono venti di due sole specie, uno che li porta all’arcipelago e uno che li riporta indietro; e uno soffia d’estate e l’altro d’inverno”. Venti oceanici: non hanno nulla a che vedere con quelli che spirano fra le coste cinesi e giapponesi. Un anno di navigazione! E’ l’affermazione più categorica circa un paese distante nell’oceano. L’unità di misura mentale dei viaggi, come delle distanze, non era quella dei nostri giorni. Basti pensare alla durata dello stesso pellegrinaggio di Marco Polo. Un anno oggi può sembrare un’enormità. Sappiamo, però, che Colombo, il cui fine ultimo erano le Indie cinesi, al primo viaggio imbarcò vettovaglie, con le quali fare fronte ad un anno di spedizione. Occorreva un anno per andare dalla Cina al Cipango secondo le parole del “Milione”, occorreva un anno per andare dal Cipango alla Cina per Cristoforo Colombo. Il dubbio che Marco Polo non stia affatto parlando del Giappone è rafforzato da troppi elementi. L’arcipelago giapponese è praticamente attaccato al continente cinese. Quasi una passeggiata. E’ sufficiente guardare un mappamondo. L’antropofagia non era certo costume praticato nel Sol Levante. Sarà uno degli alibi per lo sterminio degli indios. Molte delle abitudini attribuite agli idolatri fanno parte del bagaglio della cultura di “selvaggi”, che nulla hanno a che fare con la complessa civiltà dei giapponesi. Che non veneravano idoli, ma seguivano la parola di Buddha. La descrizione poliana non può essere applicata per intero a ciò che conosciamo degli usi dei nativi delle Americhe, ma gli elementi più vistosi, a cominciare dalla eccezionale quantità di oro che vi si trova, dai palazzi, dai pavimenti, dalle sale e dalle finestre ricoperte d’oro, rimanda, come intuisce lo stesso Cardini, al mito dell’Eldorado. L’Eldorado americano.
Un percorso di salvezza
Non sono notizie di fonte diretta, tanto è vero che nel testo si precisa: “Adesso non parliamo più di queste contrade e di queste isole essendo troppo fuori (!) dal nostro racconto ed anche perché non ci siamo stati”. E’ possibile, inoltre, che nella narrazione subentrino dati che riguardano altre lontane contrade, mischiati a quelli che ci sembrano particolarmente improponibili per una descrizione del Giappone. Ci sono da aggiungere le censure, probabilmente le interpolazioni. D’altronde l’arcipelago giapponese, nelle carte del tempo di cui ci stiamo occupando, non era presente. Compare solo in epoca posteriore. In effetti il Cipango, rappresentato sulle mappe, non assomiglia minimamente, per dimensioni e per conformazione geografica, al Giappone. Tutto va considerato con un margine di aleatorietà. Ma siamo fuori da ogni possibilità di identificazione. Il Giappone presunto ha invece la stessa forma di Antilya. Un Giappone-Antilya, che non si trova nel mare “Indicum” o indiano, ma nel grande oceano, che si allunga nell’Atlantico. Collimando con il Cipangu dell’altrove colombiano. L’equivoco si basa sempre sul gioco delle tre carte applicato alle carte geografiche. Sappiamo che Colombo era convinto che le Americhe fossero divise da uno stretto. Probabilmente pure Marco Polo aveva la certezza di un “passagium” che, superando le Americhe, conducesse al Cipango: se questo era realmente un’isola. Ma la dizione isola, riferita a quei tempi, è contraddittoria. Qualsiasi terra emersa, da un certo punto di vista, diventava un’isola, una volta circondata dall’acqua. L’orbe intero era un’isola. Il Cipango poteva essere tanto un’isola quanto un continente. Né debbono impressionare, lo ribadiamo, le distanze. I parametri non possono essere quelli attuali. Se mai quelli di predecessori perduti nei secoli. Colombo dice che dalla Spagna la terraferma si può raggiungere in pochi giorni. Aveva ragione. Un mese, per traversate come la sua, equivalevano ad un niente. Fretta ed accelerazione dei movimenti sono un fenomeno tipico della modernità. Il cammino, il pellegrinaggio tanto più era lungo e periglioso, tanto più era meritevole della benignità e del premio della provvidenza.
(1) A. Zorzi, op. cit., pag. 87-88.
(2) M. Polo, Il milione 1, con postille di Cristoforo Colombo, Edizioni Paoline, Torino 1985, pag. 17.
(3) M. Polo, op. cit. 1, pag. 17.
(4) M. Polo, op. cit. 1, pag. 25, nota 25.
(5) M. Polo, op. cit. 1, pag. 39.
(6) M. Polo, op. cit. 1, pag. 33.
(7) F. Cardini, Gerusalemme d’oro, di rame, di luce, Il Saggiatore Mondadori Editore, Milano 1991, pp. 89-90.
(8) M. Polo, Il Milione 2, Mondadori Editore, Milano 1999, pag. 242.
(9) M. Polo, op.cit. 2, pag. 245-46