Relazione dell'anno di prova
Giugno 2008. Da diciassette anni frequento il mondo della scuola, da diciassette anni aspettavo di passare in ruolo. La mia metodologia didattica non è cambiata granché, in quest’ultimo anno, nonostante mi siano toccate materie nuove che ho insegnato con un po’ di difficoltà. Avrei sicuramente preferito continuare ad insegnare le “mie” discipline, anche perché ho senza dubbio faticato più degli anni scorsi.
Ho dovuto studiare parecchio questa strana Scienze sociali, che non mi ha appassionato granché e che considero una specie di minestrone tra tante diverse discipline che si interessano dell’uomo e del suo rapporto con l’ambiente che lo circonda, rischiando però spesso di trattare di qualsiasi cosa senza approfondire quasi nulla.
È una mia opinione, per carità, e senz’altro questa disciplina mi ha insegnato parecchie cose, allargando la mia limitata visuale su scorci interdisciplinari che sicuramente mi aiuteranno ad affrontare le mie lezioni future con un bagaglio culturale un po’ meno povero.
Spesso però mi è parso persino impossibile sorprendermi a parlare di argomenti riguardanti il bombice del gelso o i test sull’agnosia, passando per gli studi sugli organismi autotrofi, sul lancio dello Sputnik o sulla comunicazione politica!
Non mi ha aiutato nemmeno trovarmi di fronte ragazzi poco motivati, poco interessati, quasi per nulla concentrati. Troppe volte ho dovuto far fronte ad episodi di aggressività e violenza; mi sono trovato a dover dividere alunne che si picchiavano in classe, o a firmare decreti di sospensione per ragazzi che avevano insultato colleghi o sfondato a pugni la porta della propria aula. Troppe volte. Questo ha contribuito a deprimermi non poco.
In generale quest’anno scolastico mi ha insegnato che i rapporti tra Dirigente scolastico e docenti, tra docenti e docenti e tra docenti ed alunni si riflettono gli uni negli altri, come in un gioco di specchi.
La fiducia (ed il rispetto) che sappiamo accordarci vicendevolmente tra colleghi, quella che riceviamo dal - e che riponiamo nel - Dirigente, si riflette nella nostra capacità di insegnare ai nostri ragazzi ad avere fiducia in loro stessi, in noi, nei loro compagni. Un clima di collaborazione, di stima e fiducia reciproche, giova all’educazione ed alla formazione dei nostri ragazzi. Un clima di tensione provoca invece l’insinuarsi del dubbio, del sospetto, in ogni rapporto, in ogni discussione. Soprattutto ritengo deleteria la competitività - che, a mio parere, la Riforma sull’Autonomia ha contribuito non poco ad incentivare - che si crea tra colleghi, così interessati a ben figurare, a trascinare a sé le classi, a svalutare chi lavora gomito a gomito con loro tutti i giorni.
Si tratta dello stesso clima che, a mio modesto modo di vedere, ha portato alla competizione tra scuole, tutte in gara tra loro per sottrarsi reciprocamente allievi che poi, spesso, non si sa bene nemmeno dove collocare, mancando di strutture, di spazi, di insegnanti.
Considero soprattutto estremamente deleteria l’idea di una Scuola, come quella italiana, che si fondi sulla concezione dell’obiettivo. Come ben ha rilevato Del Noce nel suo Fascismo e antifascismo, una valutazione delle attività umane formulata in base al raggiungimento o meno di determinati obiettivi pre-dichiarati sposta la considerazione delle stesse su quel piano meramente quantitativo ed esteriore, ”che caratterizza oggi l’Occidente e che può portarlo a raggiungere, e a tradurre nella realtà, il suo significato etimologico di «terra del tramonto»”.
Credo altresì con fermezza in quella missione del docente, così ben delineata e descritta da Kierkegaard ne Il mio punto di vista, che consiste nel tentare di far scaturire nell’animo del discente la presa di coscienza. Non una certa posizione, non una certa nozione, bensì la presa di coscienza, la capacità di comprendere il problema, prima ancora che predisporsi freneticamente a risolverlo, collocandosi aprioristicamente in una certa posizione (politica, ideologica, culturale…). Un sistema scolastico come quello a cui è pervenuta da anni la nostra nazione, che procede per obiettivi, che valuta o svaluta in base ad obiettivi esteriori raggiunti o meno, è un sistema che insegna a risolvere i problemi prima ancora di affrontarli, che dimentica gli sforzi fatti per poco o nulla, i tentativi andati a vuoto, le ore spese a parlare, ad ascoltare, a prendere e far prendere coscienza. Un sistema, questo, che mette in risalto tutti gli aspetti formali ed accidentali, e accantona decisamente quelli materiali ed essenziali, della nostra attività di docenti.
Martin Heidegger - nel corso di un discorso commemorativo in onore del compositore Conradin Kreutzer tenuto il 30 ottobre 1955 a Messkirch, la propria città natale - ammonisce: “Quando facciamo dei progetti […] non possiamo non fare i conti con determinate circostanze, le mettiamo sempre in conto, e in un conto che è costituito dalle nostre intenzioni commisurate a determinati scopi. Contiamo infatti già in precedenza su determinati risultati. […] Il pensiero che fa i conti, che tiene in conto, che mette in conto, è un pensiero che calcola. Il pensiero calcolante insegue senza tregua un’occasione dopo l’altra, non si arresta mai alla meditazione. Il pensiero calcolante non è un pensiero meditante, non è un pensiero che pensa quel senso che domina su tutto ciò che è. […] Ci sono pertanto due modi di pensare […]: il pensiero calcolante e il pensiero meditante. Proprio al pensiero meditante alludiamo quando diciamo che l’uomo del nostro tempo è in fuga davanti al pensiero. […] Tutti oggi possono leggere in ogni rivista illustrata ben condotta, o ascoltare alla radio, quelle notizie e quelle informazioni […] sul mondo della tecnica. Ma una cosa è aver sentito o aver letto qualcosa […], un’altra è rendersi conto effettivamente di ciò che si è sentito o si è letto, vale a dire: meditarvi. […] La rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, ad incantare, ad accecare l’uomo così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore, ad essere effettivamente esercitato”.1
Come abbiamo potuto, così colpevolmente, trascurare un tale inquietante quanto profetico avvertimento?
Rapporti con i genitori
Per la prima volta nel corso della mia esperienza di insegnante (in piena sintonia con un anno che ha riservato al sottoscritto molte “prime volte”), mi sono trovato a dover affrontare anche genitori che mi hanno insultato! Si è trattato di un’esperienza lì per lì scioccante, che sono riuscito a gestire in un modo persino troppo elegante, stupendomi di me stesso. Nello specifico è accaduto che una madre si sia presa la briga di accusarmi di aver contribuito a far bocciare suo figlio e diversi compagni l’anno scorso, in una delle mie attuali classi, riservando invece ad altri un trattamento “di favore”. Ho tentato a più riprese di informare la signora circa il fatto che io non avessi presenziato agli scrutini dell’anno scorso, in quanto in servizio in altra scuola, ma non c’è stato verso. Mi sono preso le offese anche a causa del fatto che la media dei voti del suo povero ragazzo nella mia materia, al momento del nostro idilliaco colloquio, era decisamente insufficiente. Non è nemmeno passato un attimo, nell’anticamera del cervello della mamma in questione, che il proprio figlio potesse avere qualche responsabilità, circa i votacci riportati fino a quel momento.
Questa è la logica da centro commerciale in virtù della quale Il cliente ha sempre ragione, che ritengo ormai sia diffusa ad ogni livello di questa nostra scuola italiana, così ardimentosa nel voler eguagliare gli istituti privati che promuovono la filosofia del promossi o rimborsati.
In generale questa impronta è ravvisabile un po’ in tutti gli approcci con i genitori. Mi torna in mente, a proposito, una frase che ho colto nel corso di una delle lezioni del corso per neo-immessi che ho frequentato: “Ormai l’insegnante è diventato il peggior nemico dei genitori”.
Ci sono stati, comunque, anche confronti meno spiacevoli. Ho constato con piacere, in alcuni casi, che talune madri particolarmente “famose” nel difendere a spada tratta il proprio figliolo, si siano ravvedute nell’ultima parte dell’anno, tornando a comunicarmi il loro proposito, d’ora in poi, di cercare di capire cosa stia saltando in mente al proprio bambino, il cui comportamento non condividono proprio più.
Qualcuno mi ha ringraziato. Ho in mente soprattutto il caso di un ragazzo troppo “irreggimentato” dalla madre, sicuramente a causa della propria disabilità, divenuta sempre più, con l’andar del tempo, fonte di ansia e preoccupazione per i genitori, la cui apprensione a lungo andare non ha certo contribuito ad incoraggiare eventuali propositi di autonomia del loro ragazzo.
Sono casi difficili, bisogna pensare ad essi con molta delicatezza. Personalmente ho cercato di spingere il ragazzo “a fare un po’ più da sé”, senza aspettarsi sempre l’aiuto dei compagni che, in modo che reputavo particolarmente umiliante per lui, con un certo fastidio si sottoponevano da tempo a turni, osservati con manifesta ed ostentata insofferenza, per sedersi al suo fianco e prendere appunti per lui. Senza motivo, per altro: il ragazzo non mi pare presenti problemi tali da pregiudicargli questo tipo di autonomia. Così ho fatto un po’ di leva sul suo amor proprio, sulla sua dignità. Da mesi constato ormai che prende appunti regolarmente, disinteressandosi completamente del fatto che ci siano o meno compagni intenzionati a sederglisi accanto. I turni sono saltati, è vero, ma questo ragazzo sorride un po’ di più e spesso lo scorgo intrufolarsi nei vari gruppetti che si formano durante l’intervallo, invece che restarsene da solo a far merenda, sul banco apparecchiato con quella tovaglietta bianca a righe rosse, che per tanto tempo, tutte le mattine, la mamma gli aveva amorevolmente messo nello zainetto, ma che così tanto lo differenziava dagli altri.
Suo padre mi ha ringraziato ed ha preso a portare suo figlio con sé, organizzando piccole “uscite”, così da provare a combattere un poco contro la sua apprensione e quella di sua moglie.
Soprattutto contro quella del loro ragazzo.
Valutazione
“Il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come solevano definirlo alcuni pensatori antichi (da zetein), ossia indagativo, e diventa in diversi casi dogmatico, ossia determinato, solo per la ragione che ha già alle spalle una lunga pratica.” Questo scriveva il grande Immanuel Kant nel settembre del 1765, compilando la sua Relazione introduttiva al proprio insegnamento.
Quale migliore Maestro per noi docenti di oggi, del grande Didatta, del Professore che ha lasciato un segno indelebile nella coscienza e nella memoria di centinaia di studenti che hanno avuto l’immensa fortuna di assistere alle sue lezioni? Ritengo determinazione della massima importanza il predisporsi ad osservare un’impostazione di questo tipo, quando ci si accinge ad insegnare. Soprattutto discipline come la Filosofia , certo, ma in generale ogni materia che si presti a contribuire massicciamente allo sviluppo ed all’autonomia del pensiero individuale.
Credo quindi importante insegnare ai ragazzi ad imparare, per crescere in modo sempre più autonomo. Dobbiamo esigere da loro che sappiano fare a meno di noi, che sappiano camminare da soli quanto prima, e un certo buonismo che a volte aleggia tra i docenti - e che ritengo tanto patetico quanto controproducente - così pronti, sempre, ad aiutare, a lasciar correre, a venire in soccorso, non aiuta in nessun modo i nostri alunni a diventare adulti responsabili.
A loro dovremo ricorrere, una volta anziani, per farci curare, per farci tutelare. Già solo un movente egoistico come questo dovrebbe spingerci dunque a lavorare per la loro reale crescita, per la loro effettiva maturità. Quanto siamo lontani, invece, dalle osservazioni che Socrate compie nel pieno del processo inscenato contro di lui? Dalle toccanti pagine dell’Apologia platonica egli ci ammonisce, ricordando quanto possa rivelarsi folle l’insegnante che provveda a diseducare quegli stessi giovani che, in un futuro nemmeno tanto remoto, saranno i cittadini con cui dovrà costantemente e quotidianamente confrontarsi.
Kant, nel succitato scritto, afferma: ”Il metodo di riflettere con la propria testa su questo o quell’argomento e di trarne autonomamente le debite conclusioni è ciò che lo studente propriamente ricerca come qualcosa di immediatamente disponibile, ed è anche il solo che può essergli davvero utile.” Tale ricerca da parte dell’allievo, soprattutto al nostro tempo, non può che essere considerata inconscia, “molto” inconscia, lo riconosco! Ma sono convinto che essa sia presente ancora nell’animo dei nostri giovani, e che vada assolutamente incoraggiata e soddisfatta.
La valutazione deve quindi tener conto di ciò, deve premiare chi impara ad imparare e non si limita a memorizzare; chi rielabora, chi scompiglia, chi scombina e mischia le carte, chi non si accontenta di assorbire, ma vuole davvero capire. La mancanza di concentrazione tipica della nostra gioventù, la pigrizia che si affaccia ogni qual volta venga chiesto ai nostri ragazzi di pensare da soli, di “ragionare” (quale compito più gravoso e odioso di questo?), di prendere posizione…
Tali inquietanti caratteristiche tipiche dei ragazzi del nostro tempo non potrebbero in qualche maniera essere volute, decise dall’alto e quindi incoraggiate dalla scuola dei saperi minimi, al solo scopo di formare cittadini passivi, disinteressati e dunque manovrabili?
Quanto detto finora non venga però inteso come l’esposizione di un criterio che esoneri l’allievo dal compito di imparare i contenuti della disciplina e l’esposizione della stessa. Si studia per conoscere, per diventare sempre più esperti, per gratificare il proprio animo, per partecipare al dialogo sociale; si studia anche per imparare a prendere sul serio i propri compiti, a far fronte ai propri doveri. Ed il dovere dello studente consiste nello studiare, nell’essere a conoscenza.
Quanto alla forma, anche quest’anno ho iniziato le mie lezioni - soprattutto all’inizio del corso di Filosofia che mi è stato concesso di sostenere in una delle classi assegnatemi - manifestando ai ragazzi la mia convinzione secondo la quale i contenuti di una disciplina come questa comprendano la sua stessa esposizione. Una generazione di persone che non è in grado di esprimersi, di farsi capire, che stenta a comunicare, in quale modo può inquadrarsi all’interno dell’era della comunicazione in cui ci troviamo, bene o male, a condurre le nostre stesse esistenze?
Stando ai saggi principi del grande Heidegger, la questione del linguaggio non è da considerarsi prettamente formale o anche solo logica. La questione è eminentemente ontologica ed esistenziale. “Il linguaggio è la casa dell’essere”. Smarrire il linguaggio equivale a tagliare il filo del proprio significato esistenziale. Significa naufragare.
Metodi e Strumenti didattici
Non condivido l’orrore che la Riforma Berlinguer nutre ed inculca relativamente alle lezioni frontali.
L’insegnante dev’essere un buon affabulatore; deve saper raccontare, saper interessare. Mentre parlo amo guardare gli alunni negli occhi, non voglio lasciarmi sfuggire nulla (credono di essere così furbi, ma già solo lo sguardo leggermente assente, la sola posizione della spalla e del braccio, rivelano dita che agilmente viaggiano su e giù per la tastiera del cellulare, parlano di tentativi di consegnarsi bigliettini…). Dai loro sguardi si intuisce se il messaggio giunge a destinazione, se la testa vaga altrove o lavora in modo adeguato..
Non voglio farmi troppo superare dalle tecnologie; il continuo ricorso ad immagini belle e pronte non fa che consolidare un’epoca delle immagini del mondo così profeticamente annunciata da Heidegger e così contagiata dal virus della superficialità e dalla carenza di fantasia ed originalità.
Audiovisivi, immagini, documentari… Tutti strumenti da usare, sì, ma di cui è bene non abusare, per evitare di diventarne schiavi anche noi, come i nostri ragazzi. Passo i pomeriggi a confezionarmi documentari (è una vera e propria passione, questa mia), e mi rendo conto che aiutano. Ma la parola detta, la parola che passa da bocca a bocca e che si modella sullo sguardo e sui gesti, questa parola resta comunque il principale veicolo di comunicazione tra individui che hanno voglia di crescere.
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1 M. Heidegger, Gelassenheit, Günther Neske, Pfullingen, 1959. Ed. it. a cura di A. Fabris, L’abbandono, Il Melangolo, Recco (Ge), 1989, pagg. 30 - 40.