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Lettera ai miei ragazzi

La immaginavo diversa, questa serata.
 Questa è la sera che chiude l’ultimo giorno di esami, la sera che aspettavo da mesi, per sentirmi di nuovo libero, finalmente in vacanza. Sì, perché - voi lo sapete - io odio gli Esami di Maturità.

Non posso farci niente. Odio l’ipocrisia che serpeggia in quelle stanze, piene di colleghi interessati solo a far bella figura; piena di parole vuote, di competizione, di falsi complimenti.. di fogli e documenti inutili, di cera lacca, spaghi e griglie di valutazione che non servono a nulla, che nessuno usa, ma a cui tutti, costantemente, si riferiscono con gran zelo. Odio quel clima da primi della classe, in cui ogni cosa deve “risultare” secondo le norme, anche se poi tutti fanno esattamente l’opposto. Odio quelle domande saccenti, rivolte ai ragazzi, sì: ma guardando di straforo i colleghi.. Quelle domande che servono agli insegnanti solo per farsi belli tra loro, solo per dimostrare quanto sono sapienti, e quanto sono preparati i loro alunni…

Ecco, questa doveva essere la sera della fine di tutto lo show. Della piena liberazione. E dico “piena” mica per nulla, come sapete.

Si dà il caso, infatti, che durante la terza prova, qualche giorno fa, io mi sia imbattuto in un racconto di Bowles. Ero lì, l’altra mattina, travolto dalla noia; accasciato su una cattedra a sognar le vacanze.. I ragazzi di quinta stavano cimentandosi con le solite domandine da quattro soldi e dieci righe, cercando forse di passarsi di straforo qualche risposta, e io ho aperto a caso quel piccolo libro di racconti, trovato poco prima in biblioteca. La novella che mi è capitata iniziava narrando di un professore. Un professore che lascia l’insegnamento. Che si licenzia. E che lo fa, per giunta, senza nessun’altra prospettiva.

Avete presente, no? Quante volte ve l’ho consigliato.. Seguite il cuore. Ascoltate i suoi suggerimenti e incamminatevi per la strada che vi indica. Solo quella, soltanto quella via, è quella giusta per voi. Ecco: io l’ho preso come un segnale, quel racconto. Mi sono alzato improvvisamente, sono uscito dall’aula e ho telefonato a mia moglie. “Che ne dici se lasciassi?” Nel giro di un minuto abbiamo trovato insieme il compromesso migliore. D’altra parte, non è un segreto: ho sulle spalle una caterva di figlie da mantenere..! Quindi abbiamo deciso di cominciare prendendo aspettativa. Circa un anno, di aspettativa. Così, per riflettere. Per dedicarmi ai miei studi, ai miei libri. E a un’inchiesta piuttosto delicata su cui voglio concentrarmi il più possibile..

Nessun dubbio, a riguardo. E il motivo è semplicissimo, miei cari: al solo pensarci, al solo immaginarmi lontano dalla scuola, il mio cuore ha cominciato ad applaudire, a batter le mani dalla gioia, proprio come un bimbo davanti alle giostre!

Poi mi siete venuti in mente voi, cari ragazzi. Le vostre lettere al Preside per chieder di avermi come insegnante, la gentilezza e la gratitudine di certe vostre madri, le dimostrazioni di stima che avete saputo attestarmi. Allora ho cercato di consolarmi pensando che nessuno, tanto meno il sottoscritto, è insostituibile. Che dopo il primo momento ve ne sareste fatti una ragione. Che nessun male, ne son convinto, vien mai per nuocere. E così ho proceduto dritto per la mia strada, chiedendo questa benedetta aspettativa.

Lo sapete, ve l’ho detto decine di volte.. Io non ce la faccio più. Insegnare è sempre stato il mio sogno. Ho combattuto tanto, per riuscirci. Ma dopo diciassette anni di precariato e nove di ruolo, ora non ce la faccio più.

Non sono un impiegato, io. Il mio lavoro l’ho sempre voluto condurre scaraventando addosso ai miei alunni tutta la mia passione, il mio amore per la Filosofia e la Storia, la mia insaziabile curiosità, la mia rabbia nei confronti delle ingiustizie, il mio disprezzo verso ogni tipo di mafia, di volgare discriminazione, di bieca censura, di vigliacca omertà..! Io, delle loro griglie di valutazione, di tutte quelle gabbie, di quelle trappole burocratiche che si sono inventati, me ne frego. Me ne frego dei loro “saperi minimi”, dei “contratti formativi”, dell'orientamento, della valutazione oggettiva, dei criteri e dei parametri più o meno matematici, e - in generale - di tutte quelle schifose invenzioni che in questi ultimi quindici anni son servite soltanto a incrinare e a corrodere quel sacro vincolo di stima e rispetto reciproco che è sempre stato condizione necessaria per un autentico, sincero rapporto tra un maestro e i suoi allievi. E non sopporto più tutti quei dissensi sussurrati nei corridoi da chi poi, prontamente, si allinea col sorriso dipinto in faccia. Non ne posso più di quella paura di dir cosa si pensa che incombe ormai tra gli insegnanti, e che - a lungo andare - contagia i loro alunni.

Io non credo in nessun’altra valutazione di un insegnante che quella che proviene dal cuore. E che, magari, si esprime soltanto dopo anni e anni di esistenza. Perché, vedete, un buon insegnante è semplicemente una buona persona. Tutto lì. Una buona persona: come un buon vigile urbano, un buon muratore, un buon ministro. Un buon insegnante è solamente una buona persona che sa “lasciare il segno” nell’animo di chi lo ha incontrato. Un segno che è un vuoto, qualche volta. Ma che qualche altra, invece, è un ricordo che ti consola, che non ti fa sentire solo. Che ti dà coraggio e ti spinge a non mollare, a riflettere con la tua testa. E a fidarti del tuo istinto.

Ecco. Io, davvero, non ce la faccio più.

Perché io, vedete, voglio insegnare. Insegnare e basta. Voglio parlarvi di Platone, di Pascal, di Kant, con le lacrime agli occhi. Non me ne frega nulla delle domandine idiote per “certificare” la vostra preparazione a fine quadrimestre. Per me conta che voi capiate davvero, che ci riflettiate, che qualcosa di importante vi resti dentro. Chi sono io, d’altronde, per poter poi “valutare” - con un numero, per giunta! - il segno lasciato in un essere umano da un’esperienza così complessa, così delicata, così diversa da soggetto a soggetto, come quella di una lezione appassionata sul significato dell’amore, o della felicità, o della verità..

Questa sera, però, me la immaginavo diversa. Ho saputo che avete saputo. Che siete dispiaciuti, che forse vi sentite anche un po’ traditi da questa mia improvvisa decisione.. E questo mi rende triste, mi fa sentire in colpa.

Allora ho pensato di fare così, se siete d’accordo. Facciamoci la nostra estate. Riposiamoci, prendiamoci il nostro tempo per riflettere, per ritrovar noi stessi. E a settembre, organizziamo un incontro, che ne dite? Vi aspetto qui, nel mio Bosco. Ci vediamo intorno a un gigantesco pino, che domina tutta la radura in cui, ogni giorno, passeggio con il cuore in festa, tra le mie alte piante. Ci vediamo qui e, a quel punto, decidiamo come muoverci per non perderci di vista. Il prossimo anno avrete un altro insegnante, è vero. Ma questo può essere comunque un bene, perché cambiare è sempre la migliore occasione per crescere. Contemporaneamente, però, tutte le volte che vorrete, con la cadenza e la frequenza che deciderete, ci troveremo qui a chiacchierare. A far scuola nel modo più elevato e nobile che conosco. Senza compiti né voti. Guardandoci negli occhi e chiacchierando. Faremo così, se vi fa piacere. Cercando il più possibile di non urtar la suscettibilità del vostro insegnante, che dovrà sempre riscuotere da voi il massimo del rispetto e della fiducia. Faremo come se prendeste ripetizioni, da settembre. Che ne dite? Ripetizioni di riflessione, di fantasia, di curiosità.

Per ora vi abbraccio tutti, uno per uno.
Augurando ad ognuno una meravigliosa, irripetibile, autentica estate, nell’attesa di rivedervi presto.