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C'è stato un tempo in cui amavo insegnare

Sono in coda alla solita rotonda. Venti minuti per entrare nella cittadina in cui insegno.

Il patema d’animo, lo spauracchio del ritardo, l’ossessione della regola, del modello da incarnare di fronte ai ragazzi.

Trovo parcheggio e guadagno a fatica il portone, tra alunni che fumano, che ridono e scherzano tra loro. Hanno tutto il tempo che vogliono per entrare, loro. Non si spostano nemmeno quando passo, faccio fatica a farmi strada. Ma io devo timbrare la cartolina, io devo correre in aula, devo, devo, devo! Sono le otto in punto, ed io sono in ritardo, accidenti: il regolamento dice che devo essere sul posto di lavoro cinque minuti prima dell’inizio delle lezioni. Io sono in ritardo di cinque minuti per colpa di quella dannata rotonda!

Entro in classe. Ammucchiate vicino alle finestre ci sono cinque alunne. Cinque? Dove sono tutti gli altri? Mi rispondono che nessuno ha colpa se i treni arrivano in ritardo. Poi, pian piano, giungono gli altri. Entrano tranquillamente, senza porsi alcun problema. Non bussano mica, loro. Entrano e poi escono subito per andare a farsi stampare un foglio: “L’alunno ...... entra alle ..... senza giustificazione. L’insegnante ....... autorizza l’ingresso”. L’insegnante autorizza l’ingresso? E come faccio ad autorizzare un ingresso alle 8.19? Ragazzi, ma insomma, vi rendete conto? Bisogna arrivare in orario! E com’è che nessuno chiede scusa, che nessuno si preoccupa di disturbare la lezione? Com’è che tra i ritardatari ci sono anche ben TRE alunni che dovrebbero già essere qui, alla cattedra, a farsi interrogare? Mi rispondono che nessuno ha colpa se i treni arrivano in ritardo. Nessuno ha mai colpa, già. Io sì, però, accidenti! E se non autorizzo? Se non autorizzo e poi qualcuno va di là, a dire che sono entrato alle otto e non alle otto meno cinque? E se qualcuno fa ricorso? E se perdo il posto per ‘sta dannata rotonda solo perché ho osato far presente ai miei alunni che arrivare alle 8.19 senza nemmeno scusarsi è cosa che non va?

Autorizzo. Domani arriveranno le giustificazioni dei rispettivi genitori, che è una vita che autorizzano. Autorizziamo.

Cerco di soprassedere, chiamo alla cattedra chi deve passare oggi. Mi rispondono che X non viene. X ieri ha strappato i fogli delle programmate, da settimane appesi ai muri della classe, perché non gli stanno più bene. X ha deciso che passerà quando vorrà, senza rendere conto a nessuno. Naturalmente X non c’è ancora: nessuno ha colpa se i treni arrivano in ritardo. Poi, fortunatamente, arriva anche il treno di X. Con X sopra, per giunta. X entra in classe, esce subito, torna col foglietto che dice che io autorizzo. Gli faccio notare che non può sottrarsi così alle programmate, che se non passa si becca tre. X alza le spalle e si va a sedere al suo posto. X non teme queste cose, non teme i ricorsi di nessuno. X è un cliente di questa azienda scuola. In quanto cliente, X ha sempre ragione: può sempre denunciare e mai essere denunciato.

Cerco di recuperare il rapporto con X, di dargli un’altra chance (e se poi non interrogo X e questo mi denuncia perché non gli ho dato l’opportunità di recuperare il quattro che si è preso nella verifica scritta perché “quel giorno lì non ci stavo con la testa ed i giorni precedenti non avevo avuto tempo di studiare”?) Allora ci provo, sì. Con espressione paterna, cercando contemporaneamente di non rinunciare a quel che resta della mia dignità, gli dico: “X, ma perché ti sei tolto dall’elenco delle interrogazioni programmate?”. La risposta è tipica del cliente, che ha sempre ragione. “Non sono fatti suoi”. Non sono fatti miei? Ma hai capito cosa stai dicendo? Ma cavoli, abbiamo programmato un’interrogazione, abbiamo fissato un appuntamento, tu ed io! Come fai a non capire? Come fai…?

Risponde solo l’eco. (X sa che qualsiasi provvedimento adotti, qualsiasi nota io scriva a suo carico sul registro, non ha alcun tipo di rilevanza. Sa che il voto di condotta, per quanto basso sia, non produce ormai alcuna conseguenza). Gli metterò tre sfidando un ricorso esemplare!

Già me lo vedo, il ricorso, però: "L’alunno X non ha potuto recuperare, non è nemmeno stato ascoltato. L’insegnante gli ha dato un tre senza motivo e ciò ha contribuito a far sì che il povero X abbia accumulato un debito che nel corso dell’anno seguente gli costerà ben sei – otto ore di un estenuante corso di recupero. In prigione, quell’insegnante eccessivamente rigido ed autoritario. 

In prigione!!!

Se Dio vuole porto a termine l’interrogazione con coloro che hanno deciso che possono essere interrogati. Qualcuno ha fatto presente che non ho scritto sul registro, alla data di oggi, “Interrogazioni”. Quindi non potrei interrogare, potrebbero sempre far ricorso… Ma sono stati gentili con me, alla fine mi hanno concesso il beneficio dell’interrogazione.

Ora ho finito. Devo correre in segreteria, devo compilare un sacco di moduli sulla programmazione che intendo adottare, sui criteri di valutazione, sugli obiettivi didattici, formativi, trasversali, di classe, di dipartimento, di istituto… Devo compilare tutto bene perché così posso essere inchiodato da chiunque, un giorno, decida di fare ricorso perché è stato bocciato. Se si trova qualche errore sui miei fogli, rifanno lo scrutinio e lo promuovono. Ed io pago i danni, risarcisco il povero alunno di tutte le spese sostenute ed il tempo perso per farmi ricorso. Geniale!

E se non scrivo niente? Se non consegno nessun modulo? Il Preside può senz’altro farmi ricorso. Dunque, se non consegno i moduli mi fanno ricorso, ma se li consegno possono farmi MOLTI ricorsi, possono ricorrere contro di me tutti gli alunni che alla fine dell’anno avranno meritato un’insufficienza nella mia materia.

Decido che devo compilare i moduli, anche per la solita questione del rispetto delle regole e del modello educativo che noi insegnanti incarniamo. Sì, dobbiamo essere degli esempi da seguire. Dobbiamo compilare tanti bei moduli, tutti compilati bene, tutti molto bene.

Fatto. Ho consegnato tutti i moduli. E’ il 27 del mese.. Il 27 ! Caspita, li ho consegnati in anticipo di tre giorni! La mia consapevolezza dell’incarnare un gran bel modello di riferimento mi gratifica. Esco di corsa, devo spostarmi dalla sede alla succursale. Si chiama ora di passaggio. E’ un’ora in più, che non mi pagano perché la trascorro a passare. A passare dalla sede alla succursale, a tre minuti di distanza l’una dall’altra. Questa volta l’ora di passaggio l’ho passata a compilare moduli.

Eccomi, eccomi, sono in orario. Devo entrare in classe ed interrogare. Sì, è periodo di interrogazioni.

Entro in terza, vengo a sapere che un’alunna ha appena preso una nota, ma che intende rifiutarla (intende rifiutarla?!) Si tratta della stessa alunna che l’altro giorno mi ha dato dell’arrogante perché ho cercato di spiegare a tutta la classe che bisogna mettere attenzione nelle cose, che bisogna concentrarsi, stare attenti alle lezioni. Così ho detto, l’altro giorno. Ed ho avvertito tutti: non essere più in grado di concentrarsi, di indirizzare la nostra attenzione nei confronti delle cose che ci circondano, non saper esercitare un proprio controllo razionale sulle emozioni, che spesso ci distraggono, che ci rendono succubi di ogni cosa, è il preciso obiettivo di chi vuole che noi si sia sempre più “pilotabili”, gestibili, incapaci di autocontrollo, di un nostro senso critico, di libertà individuale!

Ho detto così, l’altro giorno, mentre la maggior parte dei miei uditori rideva, si tirava addosso penne e matite. L’alunna che adesso rifiuta la nota, invece, mi aveva ascoltato giusto il tempo per darmi dell’arrogante! Non sa nemmeno cosa voglia dire, l’alunna che rifiuta le note, la parola arrogante.

Ma è interessante che l’abbia scelta proprio per me. Lo ha detto sottovoce, e lo ha detto a me. Le ho chiesto di ripetere meglio ma non ha ripetuto. Io però l’ho sentita, quella parola.

Ed ora so di essere un arrogante, perché tento di educare i miei alunni, tento di insegnare loro ad essere un po’ più padroni di sé.

Ok. Interrogo anche questi ragazzi.

Uno, alla fine, si becca un quattro (non ha saputo nulla, gli ho regalato almeno un punto). Va a posto, poi torna scocciato: vuole che gli sia data la possibilità di un recupero. Ha già preso un tre, ora si è beccato un quattro, ma protesta perché io non lo faccio recuperare. E il fantasma del ricorso riemerge inquietante da dietro i banchi. Ma perché mai dovrei dare un’opportunità in più a te che, non hai studiato mai dall’inizio dell’anno? Perché mai, dato che non hai assolutamente preso sul serio le verifiche che fino ad ora ti sono state somministrate? (Precisazione: una verifica si somministra, lessico in voga dal 1997, riforma Berlinguer. Io somministro verifiche, nella vita).

Perché mai, dicevamo? E che voto mai potresti prendere per recuperare un tre ed un quattro? Ci vorrebbe un undici, capisci? E poi, in fin dei conti siamo nel primo quadrimestre, bimbo mio. L’insufficienza sulla pagella non influisce un granché (e anche fosse, pensarci prima no?)

Torna a posto. Speriamo che non gli passi per la testa di farmi ricorso. Altrimenti sono finito.

Ora esco da ‘sta classe. Mi aspetta la prossima. La quinta, la più polemica. Inizio a interrogare (E’ tempo di interrogazioni, il più inquietante, il più ansiogeno, per noi insegnanti!) Mi contestano ogni domanda (“Ma che domanda è? … Che domanda difficile! … Che domanda ovvia! … Che domanda! ”). Quella che rivolgo ad un’alunna, poi, scatena un putiferio. Dover confrontare le differenti teorie di Chomsky e di Pavlov a proposito dell’apprendimento appare subito un’impresa ciclopica, un compito che soltanto un folle come il sottoscritto potrebbe attribuire ad una povera alunna diciannovenne, all’ultimo anno del Liceo delle Scienze Sociali. Seguono lunghi istanti di silenzio, carichi di odio. Sguardi fissi rancorosi… La lascio pensare, nel frattempo rivolgo altre domande ad altri malcapitati.

A dieci minuti dalla fine della lezione l’alunna, che non ha ancora risposto, mi ricorda indispettita che lei oggi esce prima: nessuno ha colpa se i treni partono in anticipo. Ha l’autorizzazione ed esce prima. Le chiedo come possiamo fare: non ha risposto alla prima domanda e, andando via prima, non mi mette nelle condizioni di rivolgerle il secondo quesito (faccio sempre due domande a testa, in un’interrogazione. Un’abitudine, la mia, che - anche se non so bene il perché - sento che un giorno o l’altro mi costerà letteralmente una valanga di ricorsi). Che facciamo, ti faccio la seconda domanda domani? L’alunna-cliente sta ritirando in fretta e furia i libri, non ha molto tempo per discutere di queste cose con me (perché nessuno ha colpa se i treni…) Si gira di scatto e risponde che la seconda domanda non le interessa, che per quanto la riguarda basta quella che le ho già fatto.

Esco dall’aula, timbro la mia brava cartolina, esco da scuola. La testa che gira.

C’è stato un tempo in cui amavo insegnare, in cui credevo in questo lavoro e ringraziavo ogni giorno per l’onore che avvertivo nel potermi dire, seppur indegnamente, un insegnante. Ho passato diciassette anni a fare il precario, disoccupato d’estate, ripescato in extremis ogni settembre, lottando per restare ad ogni costo in quelle orribili graduatorie di migliaia di docenti precari che sognano, un giorno, di passare di ruolo, di ottenere finalmente una propria cattedra. Quest’anno sono passato di ruolo, quest’anno ho una cattedra…

Ma nessuno - tranne me - ha colpa, se i treni arrivano in ritardo.