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La condanna a morte

Globalizzazione buona, Globalizzazione cattiva...

Pietro Ratto, 25 maggio 2019

Uno degli aspetti della cosiddetta Globalizzazione, in merito a cui sembrano trovarsi d’accordo quasi tutti gli storici, consiste in quella forte impennata che questo fenomeno conobbe dall’inizio degli anni Settanta del Novecento. Lo riconoscono in molti. Lo decreta perfino Wikipedia che, come sappiamo, la verità ce l’ha in tasca. Anzi: l’ha imbrigliata direttamente “in rete”. Dispensandocela, per giunta, in regime di autentico e incontrastato monopolio, alla faccia di una millantata Enciclopedia libera.

Ebbene, chiediamocelo. Perché? Perché proprio in quella fase? Perché proprio i nostri cari, amatissimi Anni Settanta?

Beh, c’è una cosa che voglio dire. Una cosa su cui ho riflettuto parecchio e che ho approfondito in diversi libri, incluso il mio ultimo Rockefeller - Warburg.

Ma, per parlarne, ci tocca fare un passo indietro.

Ce li ricordiamo quei tre signori ricchi e influenti drammaticamente morti sul Titanic, in quella tremenda notte conficcata a forza tra il 14 e il 15 aprile del 1912? Li abbiamo presenti, sì? Ecco: secondo me, quei tre morirono proprio per questo. Quella tremenda sentenza di morte, abbattutasi inesorabile sulle rispettabili vite di Isidor Straus, Jakob Astor e Benjamin Guggenheim, il tribunale dei grandi banchieri occidentali la pronunciò proprio in riferimento a una colpa fin troppo grave, per quei tempi. Straus, Astor e Guggenheim si resero infatti colpevoli di “Tentata globalizzazione”.

Il primo, coi suoi grandi magazzini stracolmi di mercanzie cinesi; il secondo, con le sue lussuose catene di hotel; il terzo, con le sue gigantesche miniere d’argento: tutti e tre, in un modo o nell’altro, facevano grandi affari con l’estero. Accumulavano enormi fortune trattando coi businessman d’oltreoceano. Avevano in mente un mondo senza confini, attraversato in lungo e in largo da commerci liberi da barriere e dogane. Erano avanti, quei tre. Troppo avanti per quel manipolo di vecchi banchieri pronti mandare in onda l’ennesima puntata del solito protezionismo. Un protezionismo, per giunta, pilotato da quella Banca centrale nuova di zecca che, proprio in quel momento, stavano progettando. Parliamo della potente Federal Riserve, certo. La banca che avrebbero presto imbracciato e spianato contro di loro, contro i commercianti più ricchi, così da sancire il sorpasso definitivo della finanza nei confronti dell’imprenditoria libera. E che avrebbe permesso ai Rockefeller, ai Warburg, ai Morgan e compagnia bella, di dominar l’economia americana, rafforzando a più non posso quel dollaro della cui emissione erano ormai pronti ad accaparrarsi il monopolio.

Bene. Il passo, adesso, facciamolo in avanti.

1962. In un’America ormai completamente in mano alle grandi dinastie di banchieri, il Segretario al Tesoro Dillon lancia l’allarme. Emorragia di risorse auree americane all’estero. Bisogna fermarla. L’anno successivo, la risposta di J. F. Kennedy: la Interest Equalization Tax. Che porta alle stelle, a Wall Street, il valore del denaro per gli investitori esteri. Una catastrofe, per questi ultimi. Che ripiegano immediatamente sui mercati europei avvantaggiando i banchieri del Vecchio Continente, Rothschild in testa.

E’ a quel punto, che si decide di trattare. Gli apparentamenti, i matrimoni dinastici, non bastano più. Bisogna agire di concerto, tutti insieme, in piena osservanza di un famoso motto del potentissimo David Rockefeller: “La concorrenza è il peccato”.

A prender l’iniziativa è Siegmund Warburg, che vuole sbarcare negli States con la sua S.M.Warburg e non ha nessuna intenzione di rinunciare a quella mole di investimenti a cui è abituato in Europa e che si aspetta di raddoppiare oltreoceano. E allora? Beh, allora quella vecchia idea dei tre buonanima adesso serve. Va ritirata fuori dal baule. Va riciclata, tanto più adesso. Ora che la tecnologia, le infrastrutture e la grande rete di alleanze sancita a colpi di sposalizi e partecipazioni azionarie funzionano da dio. Ora che cinquant’anni di gestione privata della Fed e di intrecci sempre più stretti tra questa e World Bank hanno dato i loro frutti di potere e ricchezza. Siegmund, quindi, organizza un primo incontro, in quello stesso 1963, coi vertici di Chrysler e Chase Manhattan. Il concetto è semplice. Spartirsi la torta e smetter di farsi guerra. Aggirar gli ostacoli, le barriere. Nell’interesse di tutti.

Ed eccoli allora, tutti quanti, attorno a un tavolo. I Rothschild, i Warburg, i Rockefeller, i Mellon, i Morgan, i Du Pont, gli Harriman. E’ il 1968. Rockefeller versa di suo cinque milioni di dollari, gli altri fanno la loro parte. E in questo modo nasce la AEA Investors, che sta per American European Associates. Un nome, un programma. Un vero e proprio pioniere del private equity, che oggi vanta un assets di 11 miliardi di dollari.

Tutto è pronto, o quasi. Manca ancora quell’unità monetaria, da realizzar nel Vecchio Continente, che possa dar vita a una grande Banca Centrale Europea. Un’istituzione portentosa. Che, nelle mani di quei vecchi finanzieri, così esperti nel crear reti di alleanze e di interessi, possa poi proficuamente “sintonizzarsi” con la cara vecchia Fed. Tutto è pronto, o quasi. Per la BCE ci vuole ancora tempo, sì. Ma quella globalizzazione cattiva che i nostri magnati hanno in mente, fatta di liberismo sfrenato, di deregolamentazione, di delocalizzazioni e di sottrazione di sovranità nazionali, così lontana dal sogno buono di libertà e di abbattimento di barriere che tre signori finiti congelati in mezzo all’oceano nutrivano nei loro cuori, beh: quella globalizzazione lì, adesso, può finalmente decollare.

 


 Cfr. P. Ratto, I Rothschild e gli Altri, Macro, 2015 e P. Ratto, Rockefeller e Warburg. I grandi alleati dei Rothschild, Macro, 2019

 

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