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Kant, la regola e la passione. Il ruolo dell'Immaginazione nella Critica del Giudizio

La Critica del Giudizio di Kant viene pubblicata nel 1790, un anno dopo la presa della Bastiglia ed un anno prima del Flauto magico di Mozart. Non è così casuale.

Il professore di Königsberg, in quegli anni, è preso dalla fortissima esigenza di trovare una strada che ricolleghi spirito e natura, libertà e necessità, una volta ben distinti dalle sue stesse mani tramite le due Critiche precedenti.

La libertà di cui tutta l'Europa parla riferendosi alla Rivoluzione francese, un turbinio di eventi che sconvolge fortemente anche Kant - del quale si racconta che un'unica volta nella propria vita abbia smentito la sua proverbiale puntualità nel passeggiare alla stessa ora ogni pomeriggio per le vie della sua città: il giorno, appunto, in cui arrivò dalle sue parti la notizia della presa della Bastiglia, evento a cui il filosofo decise di dedicare un brindisi con tutti i suoi convitati a pranzo, rinunciando così ad uscire - questa libertà, dicevamo, non può essere sregolatezza, deve poter danzare a braccetto con la natura, con la legge, in perfetta assonanza con l'antico e sempre vivo miraggio dell'harmonia mundi.

Il secolo dei lumi razionali non può fallire di fronte all'ardore della rivoluzione: la passione e la libertà debbono essere ricondotte entro i limiti della ragione. E l'opera di Kant rappresenta il tentativo di riconciliare necessità e libertà, teoresi e morale, tentativo che prelude all'idealismo romantico tedesco e che, inconsapevolmente, sta per fregiarsi di una colonna sonora tra le più apprezzate dell'intera storia della musica, quella dell'incontro tra Tamino e Pamina nel Flauto magico di Mozart, l'incontro tra il Giorno e la Notte, tra la regola e la passione, tra il Sole e la Luna, il Logos e l'Eros, Apollo e Dioniso.

Quella mirabile sintesi degli opposti che tutta la filosofia antica e moderna, tutta l'Alchimia medievale e rinascimentale hanno inseguito fino qui.

Non si tratta, però, nella mente di Kant, di una banale sottomissione della creatività nei confronti dell'intelletto, perché questo è argomento dello schematismo, questa è questione teoretica… Se infatti da una parte il grande filosofo fa mostra di non approvare molto la fantasia quando è creatività pura, sregolatezza ("Noi giochiamo spesso e volentieri con l'immaginazione in quanto produce immagini senza volerlo; ma l'immaginazione, in quanto è fantasia, gioca altrettanto spesso, e talvolta male a proposito, con noi", questo infatti scriverà nel 1798, nella sua Antropologia pragmatica), dall'altra parte non intende assolutamente asservirla in toto all'intellezione, specie quando, come nel caso della Critica del Giudizio, l'obiettivo sia dichiaratamente quello di occuparsi del sentimento.

In effetti, in quest'opera, l'immaginazione, pur giocando un ruolo decisamente più importante rispetto alla parte assegnatale dal filosofo di Königsberg nella Pura, non può anche in questo caso dirsi spontaneità totalmente libera.

L'attività estetica è pur sempre vincolata all'uso dell'intelletto, non trattandosi né di creatività pura né di pura recettività. Ma il sentimento del bello, sostiene Kant, lo sperimentiamo grazie al libero gioco tra l'intelletto e l'immaginazione produttiva. La bellezza, in altre parole, non dipende dall'oggetto, bensì dall'armonia che istintivamente si crea tra la nostra immagine di tale oggetto e il nostro pensiero.

Non siamo succubi della natura quando ne avvertiamo la bellezza, in quanto essa ci appare bella non perché lo sia veramente, noumenicamente, bensì perché l'immagine che la nostra immaginazione produttiva si crea di essa vibra all'unisono con le aspettative che, circa la natura stessa, la nostra mente nutre.

Il momento preciso in cui una cosa ci appare bella, ma veramente bella, ossia incarnante quel bello libero, disinteressato, che sfugge ad ogni finalità di possesso, ad ogni secondo fine sull'oggetto stesso, è l'istante in cui quell'oggetto sembra proprio essere lì per il solo scopo di renderci felici in quanto uomini.

Le esigenze, i come se con cui le due critiche precedenti si sono concluse (anche nella Critica della ragion pratica, in effetti, Dio rimane pur sempre, seppur Postulato, un'esigenza, così come esigenza resta la felicità), nella contemplazione del "bello" di fronte a noi sembrano tramutarsi in realtà, in un appagamento totale. Davvero sembra al soggetto che tutto sia stato creato da Dio per renderlo felice, per appagarlo. Ma questo libero gioco è, ancora una volta, vissuto dal soggetto e totalmente scollegato nei confronti del mondo in sé.

Ecco perché la bellezza di una cosa non è, secondo Kant, un favore che essa fa a noi, bensì un favore che noi facciamo ad essa. Nulla sarebbe bello se nessun uomo fosse lì a contemplarlo.

Non solo e banalmente perché nessuno si accorgerebbe della bellezza di quel tale fiore, ma perché quel tal fiore non è bello se non per una comunità umana costituita da esseri il cui animo è strutturato esattamente e solamente come il nostro.

Nessun marziano e nessun castoro vedranno mai bello il fiore che vediamo bello noi, perché la bellezza di quel fiore è assolutamente umana, "inventata" da noi, proprio nel momento magico in cui quel misterioso libero giuoco comincia a mettersi in funzione nel nostro animo rendendoci momentaneamente felici ed appagati (d'altra parte se Kant considerasse l'uomo in grado di dire bello ciò che bello è veramente, noumenicamente, rinuncerebbe in un colpo solo a tutti i risultati ottenuti nella sua Critica della Ragion Pura: per vedere bella una qualsiasi cosa, infatti, non dobbiamo percepirla, trasformandola quindi inevitabilmente in fenomeno?)

Questo giuoco, lo ripetiamo, non implica l'idea di un asservimento del soggetto alla natura, proprio perché coinvolge imprescindibilmente l'intelletto nel suo attribuire il carattere del bello a ciò che il bello non immagina nemmeno cosa sia. E tutto questo in perfetta linea di continuità con la Pura.

La categoria della qualità, infatti, serve per fare concetti qualitativi misurabili intensivamente secondo un certo grado. Ma che una cosa sia più o meno blu è questione teoretica, mentre la formulazione di un giudizio circa il suo essere più o meno bella è operazione estetica.

In altre parole questo dev'essere il senso con cui Kant distingue giudizi determinanti (e dunque conoscitivi), da giudizi riflettenti. Per i primi, infatti la sussunzione del soggetto nel predicato è pronta, è data: un oggetto che riconosco possedere le qualità di un'ortensia viene da me assolutamente sussunto in quel genere già presente nella "rete semantica" del mio intelletto, così come farà qualsiasi altro uomo.

Ma una cosa è dire "questo fiore è un'ortensia" ed un'altra è dire "questo fiore è bello".

Catalogare un oggetto come bello significa operare una sussunzione che non è già, per così dire, predisposta teoreticamente. Si tratta invece di un movimento originale che sfugge al meccanico e regolare processo cognitivo e che consiste nel giudicare le cose non in base ai loro generi, bensì in base al loro rispettare o meno il canone di quell'idea complessa di modo misto, per dirla con Locke, che nella nostra mente risponde al nome di bellezza.

Significa, insomma, agganciare, seppur momentaneamente, un certo concetto non al suo sopra-concetto, come continuamente si fa, bensì ad un "concetto estetico" (ad esempio "appendendo" nella nostra rete di significati il concetto individuale "questa ortensia" non a quello di "fiore" già presente e bell'e pronto, bensì a quello di "bello" nel preciso momento in cui si dice: "Bella questa ortensia!", operazione che può essere effettuata per concetti individuali di fiori, cani, case o canzoni esattamente nello stesso modo, sussumendoli momentaneamente al concetto di bello).

Ed il favore alla natura è fatto. Questo movimento però, si badi bene, è originale solo in un certo senso, visto che, secondo Kant, esso viene agito da qualsiasi uomo allo stesso modo.

Anche il sentimento del bello, quindi, è sentimento di appartenenza alla comunità. Anch'esso, come la conoscenza o la morale, ci fa sentire orgogliosamente uomini, nella certezza che ciò che vale per noi valga esclusivamente per noi, ma, fino all'estinzione della nostra specie, valga per tutti noi.

Anche di fronte ad un'opera d'arte, siamo pronti a considerarla tale, secondo Kant, solo se ci pare bella, ossia solo se avvertiamo quel piacere nel fruirne, scaturente proprio dal libero giuoco in atto in noi.

Ecco dunque un'idea tutta settecentesca di arte, una teoria estetica che la concepisce come nobile attività in grado di produrre piacere nel soggetto, così arcaica rispetto alle pieghe che l'arte successiva prenderà, ad esempio nel '900, quando lo scopo dell'artista diverrà sempre più quello di angosciare, di inquietare, di scomodare, di urtare, di produrre quello shock di cui parlerà Benjamin, o quello Stoss così caro ad Heidegger.

Per Kant l'arte è tale quando si comporta come la natura (e come non notare, d'altra parte, che quando ci troviamo di fronte ad una creatura bella esclamiamo: "Sembra finta!" mentre di fronte ad una bella opera artistica il commento è spesso: "Sembra vera!").

Provocare piacere attraverso la produzione del bello è, di fatto, l'obiettivo proprio della produzione artistica secondo Kant, obiettivo che la differenzia notevolmente da quella artigianale, dalla tecnica,

la quale ha invece lo scopo di creare cose utili (detta di passaggio: nella sua Critica egli differenzia l'Arte piacevole, il cui scopo "è di far sì che il piacere si accompagni alle rappresentazioni in quanto semplici sensazioni" dall'Arte bella, che è tale "quando il suo scopo è di accoppiare il piacere alle rappresentazioni come modi di conoscenza"; dunque la vera arte è solo l'Arte bella, quella che non ha solamente il banale obiettivo di suscitare piacere, bensì di comunicare un messaggio accompagnandosi al bello ed al piacere che ne deriva).

Sulla distinzione tra arte e tecnica (che Kant chiama arte meccanica), s'impernia quella tra bello libero e bello aderente che il professore prussiano ha sapientemente messo in luce.

Il vero bello, infatti, è solo quello libero, quello che provoca piacere e basta, senza che il soggetto sia conquistato dall'oggetto in questione in vista di secondi fini come l'utilità o il prestigio che potrebbero derivare dal possederlo.

Ecco perché esempio della vera bellezza non può essere una donna, secondo Kant: l'apprezzare una donna bella, per un uomo, non può non essere strettamente vincolato al considerare i vantaggi dell'aver a che fare con lei. Lo stesso vale, ad esempio per una chiesa.

Possiamo considerarla bella solo in stretto riferimento alla funzione che svolge… Il duomo di Milano perderebbe tutto il suo fascino se scoprissimo che si tratta di una roulotte.

Queste cose, quindi, sono belle solamente perché svolgono bene un certo ruolo, perché le apprezziamo in base alla loro utilità. Sono quindi perfetti esempi di bello aderente.

Restare invece incantati di fronte ad un paesaggio o ad un fiore significa avvertire quel libero giuoco e basta, significa godere del bello libero, disinteressato, significa, per un attimo, avvertire profondissima soddisfazione nei confronti della natura che in quel momento sembra essere stata creata da un ingegno superiore ma in perfetta sintonia col nostro, apposta per noi, per renderci felici.

Questa è l'esperienza del bello libero: per un attimo al soggetto pare di aver veramente asservito alla sua libertà la natura. Per un attimo il mondo diventa veramente regno dei fini, ed il fine ultimo pare proprio il nostro bene…

Per un attimo il finalismo vince sul meccanicismo e sul casualismo, e l'uomo si sente a casa sua.

Solo per un attimo, però, perché se il fiore, una volta ammirato, viene colto per essere regalato o per adornare la mia casa, o se il paesaggio mi conquista al punto da decidere di comprare un appartamento lì davanti per approfittare di "un'ottima vista panoramica", l'incanto svanisce.

La libertà diventa aderenza, la spontaneità disinteressata cede il posto all'utilità.

E la stessa cosa accade per l'opera d'arte, come abbiamo visto, che è davvero bella quando non ci fa subito pensare al suo possederla e magari collocarla nel nostro salotto: per dirla giusta essa, come nel caso del bel fiore, non ci fa pensare proprio, ci lascia in balia di quel giuoco.

Questa magia, però, è necessario che sia prodotta da un uomo fuori dal comune, un artista talmente in sintonia con la natura da produrre in noi ciò che è capace di fare, appunto, un fiore. Stiamo parlando del genio.

Kant ne traccia l'immagine mentre Beethoven scrive febbrilmente la sua prima grande composizione, la cantata da eseguirsi al funerale del compianto Giuseppe II, l'imperatore illuminista protettore di Mozart. Kant sta parlando di Beethoven, Beethoven sta incarnando la teoria del genio di Kant, ma entrambi lo ignorano.

L'infinito orgoglio di essere uomo che permea tutta la sua opera spinge infatti il filosofo di Königsberg a descriverci il genio come vero creatore di un mondo alternativo a quello che ci circonda, un mondo pieno di bellezza che solo l'uomo può cogliere e solo il genio, appunto, può suggerire.

Un uomo, questo, la cui opera è assolutamente originale, ma contemporaneamente esemplare, perché diventa canone e riferimento fisso per qualsiasi nuova esperienza estetica ed artistica.

Il genio produce in modo inconsapevole, perché in realtà la natura agisce in lui, lo usa come suo mezzo per continuare a stupire gli uomini. Ecco quindi che la natura si prende la sua rivincita sull'intelletto, che nel normale godimento del bello l'ha fino ad ora manipolata.

Si può senz'altro dire che se il sentimento del bello avvertito quotidianamente dagli uomini comuni si traduce in esperienza di finalità nel corso della quale ogni intelletto matura la certezza secondo cui la natura sia stata fatta per lui, nella creazione artistica il genio avverta al contrario di essere in qualche modo succube della natura, di essere stato fatto per lei.

E se il godimento del bello scaturiva dal libero giuoco tra immaginazione ed intelletto, la creazione artistica geniale divampa, invece, da un altro tipo di libero giuoco, quello tra immaginazione e ragione.

L'immaginazione produttiva, infatti, nel genio riesce a svincolarsi totalmente dall'intelletto e dalle sue regole, e si scopre facoltà simbolica, in grado cioè di trasfigurare l'esperienza, la rappresentazione, in opera estetica, in messaggio simbolico, offrendo alle idee soprasensibili - nulla più che esigenze nella teoresi e nella morale - la possibilità di essere realtà, di concretizzarsi in un mondo "altro", quello, appunto, creato dall'artista.

Sono, queste, quelle idee estetiche che Kant definisce: "intuizioni dell'immaginazione libera […] che danno a pensare molto, senza che però qualunque pensiero possa essere ad esse adeguato".

Le idee, poiché non si adattano ad essere schiave e non si sottomettono ai sensi ed all'intelletto nella conoscenza, vengono bandite come non legittime, mentre in campo estetico, nella creazione geniale, esse diventano l'arma principale della produzione artistica.

Se dunque, nell'avvertire il piacere che il bello provoca in noi, ci accorgiamo che in quel preciso momento la natura opera come un artista, che è al lavoro per soddisfare le nostre esigenze di finalità, nel produrre l'opera geniale l'artista opera come la natura, per soddisfare inconsapevolmente le esigenze di questa.

Così Kant ottiene il risultato prefissatosi in partenza: il sentimento del bello coniuga natura e spirito, e lo fa sottomettendo la prima al secondo nel suo godimento ed il secondo alla prima nella sua produzione.

Dunque un Kant che non cessa mai di stupirci, in questo caso introducendo una volta per tutte la figura del genio-artista.

Il freddo, metodico e razionale professore prussiano ci ha spiazzati ancora, spalancando in un attimo, con umiltà e distacco, le porte allo Sturm und Drang ed al Romanticismo ottocentesco.

Senza rendersene conto, proprio come il genio che genialmente ha creato, Kant ha dato il via al volo della fantasia, all'arte che cessa una volta per tutte di essere imitazione e che si fa vera e totale creazione.

Nulla, ora, potrà essere più come prima. Kant non lo sa, non lo può sapere, convinto com'è che la musica altro non sia che puro divertimento, ma il Mozart dell'equilibrio tra natura e spirito, della musica finalizzata al piacere del bello, del Flauto Magico, sta per trascorrere gli ultimi mesi della sua esistenza componendo, delirante, una Messa da Requiem e lo sta facendo in preda ad un demone che non gli lascia fiato, che lo spinge a produrre senza sosta e senza quasi consapevolezza, quasi la natura l'avesse creato per soddisfare i propri bisogni, quasi fosse una marionetta nelle sue mani.

Mozart sta morendo, portandosi via un'epoca e partorendone una nuova.

Sono gli stessi anni in cui il genio sregolato del suo allievo Ludwig van Beethoven inizia a comporre le sue opere più importanti, pervaso dal sacro furore che la natura gli comunica impossessandosi di lui.

Sono gli anni di fuoco dell'arte romantica, inconsapevolmente infiammati da un genio di nome Immanuel Kant.