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La preghiera

10 novembre 2020

Quando arriva questo periodo, ogni volta, la mente torna a quei giorni..
Giorni di euforia, di grandi aspettative, vissuti tra una qualificazione e una serata finale. In palio, il primo disco della nostra storia.
Il concorso era stato indetto da un’importante radio privata. Mille copie di un 45 giri al vincitore, al gruppo che si fosse dimostrato migliore degli altri. E quando superammo la semifinale cominciammo davvero a crederci.
Avevamo suonato benissimo, quella sera.

Un anno duro, il 1982. Spesso Rita Pavone ci chiamava a suonare per lei o per il marito, Teddy Reno. Diciassettenni, non ancora patentati, dovevamo chiedere aiuto al solito padre di turno. Di lì a un anno, avremmo provveduto autonomamente, facendo la spola tra Torino e Milano con una cinquecento scassata e un furgone noleggiato apposta, pieno zeppo di strumenti, di tastiere e chitarre.
Si finiva di studiare e si partiva in fretta e furia, in modo da arrivare a Milano entro le otto di sera, perché altrimenti il Reno si incazzava. Giunti là, si sistemavano mixer, amplificatori e batteria, si suonava, poi si rismontava tutto, si incassava uno striminzito rimborso spese e si ripartiva, più o meno intorno alle due di notte. Alle quattro eravamo ancora in cantina a risistemare tutti gli strumenti, in un silenzio irreale. E alle otto, tutti puntualmente seduti in classe, pieni di sonno e stanchezza, a dar craniate al banco.
Tra la semifinale del concorso e la serata in cui sarebbe stata incoronata la band vittoriosa passò più o meno un mese. Una parte del punteggio doveva venir totalizzata contando le cartoline postali spedite in radio dagli ascoltatori, che periodicamente potevano ascoltare le composizioni di tutti i musicisti in gara.. Ogni cartolina che arrivava riportava il nome del gruppo preferito. Noi chiedemmo aiuto ai compagni di scuola. E ne arrivarono montagne.
Quando giunse il nostro turno, in quella serata finale, suonammo da dio. Il pubblico applaudiva alla grande, mia madre era raggiante, mio padre fischiava come un pazzo. Perché mio padre non applaudiva mai, se gli piaceva qualcosa: fischiava. E alla fine, vincemmo.
Mi ricordo ancora il mio pianto a dirotto, mentre tentavo di mettere insieme un bis senza però riuscir più a cantare una sola frase compiuta. Il giorno dopo, su La Stampa, venimmo definiti “fautori di un rock travolgente e ricco di sonorità”. Mi sentivo al settimo cielo: il successo era finalmente arrivato. A diciassette anni, per giunta.
Il primo giorno utile, pieni di noi, ci precipitammo dunque nello studio di incisione che, insieme alla radio, aveva indetto il concorso. Era un ambiente meraviglioso. Non avevamo mai visto strumenti così belli. Il mixer era lungo come il corridoio di casa mia; le cascate di effetti elettronici che gli facevano ala, letteralmente impressionanti.
Entrammo nell’ufficio del proprietario, un discografico dall’aria furba e viziata. Ricordo ancora la montatura rossa dei suoi occhiali. Roba da manager pieno di grana.
“C’è solo un piccolo neo”, annunciò lentamente il tipo ai nostri occhi scintillanti. “Voi, ragazzi, avete vinto solo la stampa, di quei mille dischi. Il costo della registrazione è dunque a carico vostro”.
Ci sentimmo svenire. “E a quanto ammonterebbe?” “Beh, è un costo orario, dipende da quanto ci mettete a registrare tutto. Immagino, per lo meno, intorno ai due milioni di lire”. Due milioni! Da non crederci. E chi ce li aveva, a diciassette anni, due milioni? E poi si trattava di un concorso regolarmente vinto, accidenti! Come poteva essere? Niente da fare. Eravamo stati imbrogliati. Il mondo ci cadeva letteralmente addosso.
Presi com’eravamo da questo progetto, non vi avremmo rinunciato per nulla al mondo. Ma a quel punto ci toccava indebitarci con tutti. Con parenti, amici.. con chiunque, per portare a casa il sospirato disco.
Uscimmo di lì strisciando. Chi lo avrebbe detto ai miei? A mio padre, soprattutto. Che mi aveva messo in guardia sin dall’inizio; che avrebbe preferito che mettessi “la testa a posto” e mi preparassi a diventare un bravo ingegnere, invece che una rock star..! Il mondo dello spettacolo, quel mondo fatto di luccichii abbaglianti e falsi, ci si stava palesando improvviso in tutto il suo squallore.
Era l’inizio, soltanto l’inizio. Ma non lo sapevo ancora. L’inizio di una vita intessuta di delusioni e abbandoni. Di sogni infranti e affetti spezzati. Di gioie immense e di solitudini improvvise. Da quel momento, fino ad oggi.
A rinvangar un’esistenza talmente complicata e intrisa di voli pindarici e di cocenti cadute che scriverci su un libro non basterebbe a render l’idea, mi torna sempre in mente quel pomeriggio in cui, qualche tempo prima di questi fatti, ero entrato in una chiesa col proposito di pregare.
In quel momento magico e immerso in un buio caldo e silenzioso, atteggiandomi a rockettaro navigato, chiesi al cielo di tener costantemente lontana da me qualsiasi falsità e ipocrisia. E pregai Dio di darmi una vita difficile.
A ben pensarci, fu l’unica volta che mi ascoltò.