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La Festa

15 novembre 2020

Era il 1991, se non vado errato.
Il nostro secondo disco, Caccia Grossa, era appena uscito per Contempo Record. I brani erano stati registrati due anni prima, e nel frattempo, aspettandone la pubblicazione, ci eravamo portati avanti col lavoro. Mettendo in piedi il nostro terzo album.
Il progetto era ambizioso: bissare l’idea dell’opera rock che avevo realizzato per la prima volta nel 1986, e che si intitolava H.
H, sì: la prima opera rock italiana, presentata su Videomusic a gennaio di quell’anno da Clive Griffiths in persona. Ecco, il nuovo album sarebbe stato di nuovo un’opera; o meglio: un concept, come si soleva dire all’epoca. E sarebbe stato il Faust. Si sarebbe intitolato “dr. Faust”, sì: una riproposizione del dramma di Goethe, in chiave rock. Avrebbe narrato di un musicista che viene a patti col diavolo per diventar famoso. Salvo poi pentirsi e salvarsi in extremis, fregando il demonio appena un secondo prima della dannazione. Sullo sfondo, una sfida tra Dio e Mefistofele a suon di pesanti schitarrate e di ritmi incalzanti e irregolari. Ci avevo lavorato anni, a quel progetto. Mi rappresentava in tutto, parlava assolutamente di me. Delle mie ansie, delle mie paure, delle mie ambizioni di giovane compositore e di appassionato chitarrista letteralmente travolto dal desiderio di misurarsi con il grande pubblico. E di trasmettere a tutti la sua visione del mondo.
Il nostro manager di quel tempo era un folle. Assicuratore di giorno, organizzatore di concerti di notte. Era capace di viaggiare per l’Italia seguendo un gruppo dal tramonto all’alba, per poi riaprire gli uffici della sua compagnia alle nove in punto. Fresco come una rosa, per giunta. Aveva portato al grande pubblico gli Arti & Mestieri, eccezionale jazz rock band finita più volte in RAI proprio grazie a lui. Un gruppo che suonava meravigliosamente, fra l'altro.
Un giorno l’assicuratore/manager ci convocò nel suo ufficio: “Voi meritate il meglio”, ci disse. “Ho deciso di produrvi un master del Faust in uno dei più grandi studi del mondo”. Noi pendevamo letteralmente dalle sue labbra. I nostri sguardi luccicanti si incrociavano impazziti, in preda a uno stato di felicità mai provato prima. “Dunque, registrerete il vostro terzo album presso i Real World Studios. Nel Wiltshire, in Inghilterra".
Ci guardammo increduli, letteralmente a bocca aperta: Peter Gabriel! Il mega studio di incisione di Peter Gabriel!
“Nessun problema, per i soldi: pago tutto io. Qui c’è il preventivo per una settimana di lavoro. Più o meno, venti milioni di lire”. Conservo ancora, quel preventivo firmato dall’ingegnere del suono di uno dei più grandi musicisti della Terra.
Dovemmo tenerci alle sedie. Non credevamo alle nostre orecchie. Peter Gabriel! Probabilmente non l’avremmo conosciuto, no; ma vuoi mettere il viaggio fin laggiù? L’esperienza incredibile di suonare in un posto così? Uno dei più grandi studi di incisione del pianeta ci stava aspettando, a due passi da Stonhenge!
“C’è di più. La prossima settimana siamo a Roma. C’è la festa di compleanno di un grande giornalista, lo stesso che in passato mi ha aiutato con gli Arti & Mestieri. Bene: noi andremo lì per farvi conoscere alla gente che conta. Sbarcheremo lì col nostro progetto, cercando gli spazi giusti in Rai per promozionarlo. Perché dovete capire; dovete imparare a vivere in quel mondo, d’ora in poi. Perché di cosa sia davvero l’ambiente dello spettacolo, l’inebriante circo di quelli che contano, voglio dire, non sapete ancora niente”.
Qualche giorno dopo, ancora letteralmente ubriachi per tutti quei cambiamenti improvvisi, partimmo alla conquista di Roma.
Il viaggio fu estenuante, perché quell’uomo non si riposava mai. Settecento chilometri tutti in una tirata, a parte una breve sosta a casa di un suo amico, un enigmatico produttore emiliano. Arrivammo all’hotel Leonardo Da Vinci in tardo pomeriggio. Non mi dimenticherò mai più il lusso di quell’albergo. Tanto più visto con gli occhi di tre ragazzi avvezzi solo a campeggi e ostelli. Una doccia veloce e via, a casa del mitico giornalista. Un attico di 460 metri quadri a Monte Mario, con vista mozzafiato su tutta l'Urbe.
Il padrone di casa ci strinse la mano distrattamente, in mezzo a un’interminabile baraonda di lustrini e paillettes. Il manager pronunciò sorridente i nostri nomi, ma il festeggiato nemmeno ci guardò in faccia. E in men che non si dica, il vortice ci trascinò in mezzo a mille sconosciuti. Un labirinto di risate, di tette e culi e di musica senz’anima in cui, francamente, ci trovammo subito un po' a disagio. Di tanto in tanto il giornalista ci sfrecciava davanti. Ricordo di avergli fatto gli auguri, a un certo punto. “Per che cosa?", mi chiese sorpreso. “Per il suo compleanno, no?” “Ah già, il compleanno! Grazie, si!”
In poco tempo cominciammo a capire come funzionava. Bellissime ragazze, spesso poco più che bambine, si trovavano lì in cerca di ingaggi. Davanti a loro, una sparuta schiera di decrepiti produttori televisivi. L’intero palinsesto dei prossimi mesi si sarebbe deciso lì, in quella festa irreale.
All’inizio eravamo abbagliati. Letteralmente conquistati. Guarda chi c’è li! Guarda là! Guarda che figa quella! Modelle statuarie, cantautori e musicisti importantissimi, attori e registi che avevamo visto solo sullo schermo, presentatori televisivi di primissimo piano, sportivi e olimpionici da prima pagina. Tutti lì a sfilarci davanti con una tale incredibile abbondanza da dar l’idea che non fosse vero. Che si trattasse di centinaia di beffarde controfigure, tutte d’accordo per prendersi gioco di noi.
Ricordo in particolare una famosissima coppia di amici, l’uno regista e l’altro attore comico, che così tanto avevo amato nel tempo della mia adolescenza. Li ricordo come fosse ieri, perché erano fatti. Fatti persi. A distanza di pochi anni il loro destino sarebbe mutato tragicamente. Uno stroncato da infarto, l’altro paralizzato, o qualcosa del genere.
Mettemmo più a fuoco. Era evidente, sì. Lì dentro girava di tutto. Cominciammo a farci caso. La gran parte degli sguardi vagava nel vuoto. Mentre sgomitavamo indicando qua e là quei nostri vecchi miti crollar vergognosamente al suolo, il viscido circo girava sempre più frenetico. Intorno alla grande sala centrale erano disposte svariate camere in cui le belle ragazze finivano a turno insieme agli anziani marpioni. Scomparivano per poco, una mezzoretta o giù di lì. E quando riapparivano, risistemandosi alla bell’e meglio il trucco, avevano in tasca un contratto. Ricordo un cantautore che ho amato alla follia fare il filo a quella che sembrava una quindicenne. Qualche mese dopo l’avrei riconosciuta recitare nel videoclip della sua nuova canzone.
E poi lei, la bellissima. Era così giovane, più o meno della mia età. La riconobbi dalla bocca, sì. Era seduta su un divano davanti al nostro. Dove l’avevo vista, quella bocca? Su qualche giornale di moda, sì. Era senz’altro una giovane modella. Una promessa, una futura top model. Ora, quella ragazza, è un’importante attrice. Recentemente ha preso posizione circa gli attuali scandali che coinvolgono registi e giovani promesse dello spettacolo. Ma quella sera lei era lì, in tutta la sua ammaliante bellezza, risolutamente determinata a rimediare un contratto a tutti i costi.
Fu una sera orribile, a ben pensarci. Alle tre di notte - esausti, completamente isolati da quel vortice che paradossalmente ci gravitava attorno, ma che ci snobbava così come sempre accade, in quegli ambienti, a chi non ha nulla da offrire - giacevamo stravaccati su un lussuosissimo divano. Gli occhi incollati a una tv che ci vomitava addosso immagini inutili, le orecchie doloranti e una voglia matta di andarcene a dormire.
Ah, dimenticavo. Ricordo anche Giannini, Giancarlo Giannini, quella sera. Fu una delle poche persone che riuscii ancora ad ammirare, dopo quella festa. Per questo, tra i tanti, rivelo il suo nome. Gentile, raffinato e divertente, passò un quarto d’ora a illustrarci il suo folle progetto di una "giacca musicale", in grado di produrre note diverse a seconda dei movimenti delle braccia. Fu l’unico momento divertente; assolutamente assurdo, dato l’ambiente in cui maturò. Che un importantissimo attore si intrattenesse così tanto con tre ragazzi che non non avevano “nulla da offrire al mercato”, infatti, non aveva proprio alcun senso.
Quando finalmente uscimmo di lì eravamo a pezzi. Nauseati e delusi. Crollammo nei lussuosi letti dell’hotel a cinque stelle e la mattina dopo dovemmo affrettarci a far colazione, e a ripartir di gran carriera. Perché la magia stava per scadere e presto il manager rockettaro si sarebbe irrimediabilmente ritrasformato in un semplice assicuratore.
Fu un viaggio silenzioso. Mogio e dimesso. Parlammo pochissimo, osservando pian piano svanire il mare. E fu quasi un sollievo assistere al graduale materializzarsi delle nostre amate montagne. Ripensai alla mia fidanzata del tempo, a quanto tenessi a lei. Pensai alla mia musica. Incontaminata, pura, genuina.. Lessi negli occhi dell’amico bassista le stesse identiche preoccupazioni.
Volevamo davvero quel mondo? La fama, il successo… Eravamo davvero disposti a pagare un prezzo così alto per procurarci quelle cose?
Al ritmo un po’ annoiato di un tergicristalli si annunciò, timida, la nostra vecchia città. Era tutto ciò che avevamo, ansiosa com’era di riabbracciarci ancora.
Io non lo voglio, quel mondo. Io voglio vivere davvero, sussurrai. Quel che restava del mio manager si voltò, e mi osservò sgomento. Il suo sguardo mi penetrò, severo, fino al midollo. Vi lessi la fine di tutto. Di tutte le illusioni. Dopotutto, non era null’altro che il brusco ritorno dal Paese dei Balocchi.
Le notti romane, gli Studios inglesi, Stonhenge, Peter Gabriel e chi per lui… Tutto si allontanava improvvisamente dalla mia vita, tremendamente risucchiato in una infinita vertigine di ammalianti paillettes e di subdoli lustrini.
Io non lo voglio quel mondo, mi dissi quel giorno e per sempre, sciogliendo il mio patto.
Io voglio vivere. Vivere davvero.