Il tanfo del ministro
Egregio ministro della sanità,
hai presente quei due vecchietti? Massì, dai: quei due ultra-ottantenni di Torino, quelli che sono morti la notte scorsa, nel loro appartamento incendiato? Hai presente, no? Lui pieno di artrosi, da non riuscir quasi più a camminare, lei molto malata... Lei è quella che è morta subito, bruciata dal rogo; lui invece ha rifiutato di farsi soccorrere, ed è morto vicino a lei. Lasciatemi morire con mia moglie, sembra abbia detto. Hai presente? E tutto perché non ce la facevano più, coi loro malanni. Non riuscivano più a lottare contro il dolore persistente e quotidiano, solo per mantenersi in vita alla bell’e meglio. Non se la sentivano proprio più di trascinare, da un ospedale all’altro, quel bel po’ di esistenza che tu e i tuoi colleghi fate fare alla gente.
Non so, in effetti, se ne hai sentito o ne sentirai mai parlare, ministro; se l’eco di questo piccolo dramma da poveracci potrà mai risuonare alle scintillanti finestre della tua lussuosissima residenza.
Ma se per caso qualcuno verrà a raccontartelo, se per qualche motivo ti capiterà di far cadere un attimo il tuo riverito sguardo su questo schifoso mondo in cui ogni giorno annaspiamo, beh allora spero che ti assalga un discreto senso di nausea. Una specie di puzza. Che cresce pian piano e ti assale, un tanfo che giunge a non lasciarti respirare, anche se solo per qualche secondo.
Non penso certo alle tue dimissioni, tanto più per cose del genere, per due vecchietti morti in un incendio divampato in cinquanta metri quadri in culo ai lupi. Non penso certo alle dimissioni di gente come voi. Voi che le code agli sportelli ospedalieri non sapete nemmeno cosa siano. Voi che beneficiate di quella specie di “PACS” che, nel rispetto dei crismi di Santa Romana Chiesa, non avete concesso ai vostri sudditi, ma in virtù di cui il/la convivente di ogni parlamentare si vede riconosciuti - a spese nostre, ci mancherebbe - gli stessi identici diritti, in termini di sanità e di pensione, di una moglie o un marito. Voi che, nonostante ciò, appena vi tira un pelo vi fate ricoverare in sgargianti cliniche private a cinque stelle, quelle che logicamente vi finanziamo noi.
Voi che non sapete che quando prenotiamo una visita, ci viene detto che il primo posto libero è tra un anno, voi che non immaginate nemmeno cosa significhi venir trattati a pesci in faccia da medici e infermieri se solo chiedete un’informazione, voi che non conoscete il meccanismo per cui, se stai davvero male, se sei grave e quindi devi cedere al ricatto del CUP, l’esame in una ASL ti tocca pagarlo come fosse privato. Lo avete chiamato elegantemente intra moenia, ricordi? Stessa struttura, stesso medico, stesso trattamento ma... il posto che non c’è, se paghi si libera all’istante, già domattina! E ciò, nonostante tutte le tasse che tu e i tuoi colleghi ci fate pagare. Quelle tasse che aumentano sempre, perché la vostra coperta “è corta”, mentre la nostra non finisce mai.
Bene, dicevo. Vorrei tanto che quel tanfo nauseante te lo sentissi un po’ addosso. Magari arrivando a pensare che possano percepirlo anche quelli che hai intorno, quelli che ti osannano, che si inchinano al tuo passaggio, che sono sempre lì ad aspettare che il tuo sguardo si posi un po’ anche su di loro.
Vorrei che quella puzza assomigliasse, anche solo un istante, a quella in cui tu e i tuoi predecessori lasciate marcire milioni e milioni di “pazienti”. Milioni di persone che trascinano le loro esistenze combattendo con malattie che nessuno di voi ha interesse a curare, anzi: semmai a rafforzare; che fronteggiano giorno dopo giorno patologie che si incancreniscono e si moltiplicano proprio a causa degli infiniti tempi di attesa, del disservizio, della disattenzione, della superficialità, dell’indifferenza di chi è strapagato per soccorrerli. Quella puzza che emana da vite accatastate ai margini, abbandonate a loro stesse, condotte a fatica da chi, a un certo punto, decide di rinunciare a curarsi e si lancia nelle fiamme, come il buon vecchietto di Torino.
Ecco, soltanto questo, ministro. Questa sera ti auguro di puzzare un po’.
Quel tanto che basta per sentirti, ogni tanto, “uno di noi”.