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Dall'altra parte

Così, nonostante tutto, ancora una volta entro. E lo trovo lì, dall’altra parte.

Seduto lì, stretto tra un’ingombrante, lucida scrivania e un muro bianco incollato a un paio di bandiere, immobili. Inchiodato lì, nell’angusto spazio di un metro di piastrelle, pieno di simboli surgelati.

Alla sua destra c’è una finestra aperta, ma il vento che entra non lo sfiora, non smuove di un millimetro gli stendardi che tiene bene in vista alle sue spalle, e che paiono piombo.

No: il vento tira dritto, non va a zigzag; il vento non tentenna, non gira intorno alle cose, non temporeggia.

Quindi, mi riconosce subito e si tuffa verso di me, inondandomi del profumo assolato di una nuova promessa di primavera.

Tutto il movimento possibile, in quella stanza, si snoda così: risucchiato tra la finestra e la porta aperta alle mie spalle. Tutto il vortice d’aria coinvolge soltanto il mio corpo, lanciandosi rapido, poi, nell’ampia luce proveniente da quella porta aperta, dietro di me. Nessun muro, nessuna bandiera alle mie spalle. Solo vento, pieno di sole, ed una porta spalancata verso il resto del tempo.

Così ci riprovo, e ancora una volta gli chiedo il motivo di questo suo agire.

Gli domando il senso di quei suoi anni passati a lottare, a combattere contro quegli stessi comportamenti sbagliati che adesso, invece, tranquillamente adotta.

Faccio leva sulla coerenza, naturalmente.

Mi risponde che adesso sta dall’altra parte. E il suo ruolo, ora, è diventato un altro.

Gli faccio notare che certe cose che dice, o che fa, non le avrebbe accettate, al di qua della sua scrivania.

E nel frattempo, faccio fatica a concentrarmi, a dirgli bene cos’ho in mente. Un po’ a causa di tutti i suoi movimenti, che articola lentamente, sotto i miei occhi, e che mi parlano, mi dicono del suo potere, tutto concentrato dall’altra parte, al di là del ripiano di legno.

Alzare e abbassar cornette del telefono, schiacciar bottoni, firmar pile di carte trascinate da impiegati che, a turno, irrompono nella stanza, aggirando chini, rasenti gli scaffali arrugginiti, la corrente d’aria tesa tra me e la vita, quella vita che, stamattina, ha promesso di aspettarmi fuori di lì.

Faccio fatica, un po’ per quello, un po’ perché il sole mi chiama, insistente, oltre quei muri.

Alla fine, bene o male, il pensiero va a segno. Mi risponde che capisce, sì. Ma che, ormai, lui è dall’altra parte.

A quel punto, la corrente d’aria si trasforma in un turbinio di freschezza, profumato e impetuoso.

Ne avverto la forza dirompente, capace di trascinarmi, di travolgermi, di proiettarmi in un attimo fuori da quella stanza. Faccio ancora in tempo, aggrappato alla sedia, a chiedergli che senso abbia avuto, un tempo, il suo criticare le azioni di chi si trovava dall’altra parte, visto che è convinto che - quando poi ci si arriva, da quella parte - diventi automatico agire così.

E mentre il mio corpo è ormai quasi tutto altrove e il mio cuore è già ricongiunto a tutta la vita che palpita fuori, riesce ancora a rispondermi, illuminante, che capisce benissimo, certo.

Ma che, adesso, si trova dall’altra parte.