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Le aderenze francesi dei Colombo di Cuccaro (1422-1444)

Gianfranco Ribaldone, 27 dicembre 2012

Nella concezione medievale, gradus è il livello di nobiltà (secondo la scala feudale del vassallaggio); casus (caduta) si riferisce invece al venir meno, per capriccio della Fortuna (ancella di Dio), di quell'insieme di beni temporali (ricchezza, potere) che permettono ad un nobile di esercitare (secondo il gradus) la virtù principale del suo ceto: la munificenza.

Tale caduta non è un disonore: la nobiltà può rimanere intatta. Di tale caduta non c'è da vergognarsi. “Tu, Signore, che tutto mi hai dato, tutto mi puoi togliere attraverso la tua ancella di nome Fortuna”. Il gradus rimane intatto anche dopo il casus, anzi esaltato perché sopporta il casus senza abbassarsi a compromessi. Non c'è da vergognarsi, anzi può significare incremento di prestigio e dignità. Questo il pensiero e lo stato di Domenico Colombo di Cuccaro che, in un'istanza al marchese di Monferrato (1444), scrive orgogliosamente: “cognoscens gradum et casum suum”. Questa espressione, nella sua concisa esattezza, nella sua cadenza omoteleutica, suona come una formula giuridica, conservando intatto il senso contenuto nell'aforisma (il linguaggio giuridico si nutre di aforismi) "quo altior gradus, tanto profundior casus": “quanto più alto è il grado, tanto più profonda è la caduta”. Bisogna solo focalizzare il contesto culturale di siffatta istanza: il gradus si riferisce alla nobiltà, il casus alla caduta dei beni contingenti (ricchezza, potere), non certo alla caduta di nobiltà.

Domenico Colombo di Cuccaro decide di salvare il suo tesoro spirituale, i suoi figli. E li allontana da sé. In quale variopinto mosaico viene consumato tale sacrificio?

Proviamo allora a ricomporre il puzzle, con In-Contro/Storia